26/03/14

L'ignoranza è generosa. (Storiella con curve. E una retta.)




Pensavo, durante la passeggiata, che quest'anno, senza cambiare di una virgola i miei percorsi, mi piacerebbe cominciare a esplorare un altro universo. Quale, ancora non so, ma non dovrebbe essere difficile trovarne uno nuovo. L'ignoranza è generosa.

Mi guardavo attorno, come a cercare uno spunto, ma senza fretta e con scarsa convinzione, per scaldare i muscoli (sarebbe il cervello; o i sensi, non si sa mai...), quando ho visto due papere nel canale: si muovevano di traverso, abbandonate alla corrente che, dopo una curva, le spingeva verso riva. Sembravano divertite da quell'attraversamento dolce. Si godevano la diagonale. O forse erano solo indifferenti, e la passività comoda, naturale.
Di sicuro non erano allarmate, in sospetto: nemmeno verso di me, che le aspettavo più in alto, sull'argine, guardando di sbieco, lo sguardo curvato  incontro alla corrente che sulle prime non avevo percepito, con la pretesa di decifrarla. Ecco.

Sullo sfondo, tra le canne secche, ingobbite, ma appena appena, verso la strada, un vecchio palo della luce in disuso, dritto come un fuso. O come un palo della luce. Non ci sono che loro, qui che vanno su dritti dritti. Muoiono in piedi, persino loro.
(A me invece non dispiacerebbe stendermi lì, sul ciglio, tra l'erba, e aspettare. Stare un po' a vedere...)

(Poi ho fischiettato tutta la strada, da perfetto scervellato.)


(Ps. Sottofondo, stavolta, Robyn Hitchcock. Lo dico per Giacomo, nel caso passi di qui.)

20/03/14

Casa di riposo


 

 22 sett. 2006 17,00-17,40
Ho accompagnato mia moglie a una visita specialistica da un dottore che lavora in una cosiddetta casa di riposo, un gerontocomio cioè. E’ una serie di palazzine molto decorose collegate tra loro in mezzo a un bel parco. Siamo arrivati presto e ci siamo seduti su una panchina per fumare (io) una sigaretta. Un anziano signore a venti metri da noi avanzava tra gli alberi aiutandosi con un carrello alle cui sbarre mediane si appoggiava con le mani, mentre su quelle più alte si abbandonava sorreggendosi con le ascelle quando non ce la faceva più. Ho terminato la sigaretta prima che percorresse metà della strada.
Siamo entrati nell’edificio principale. In un corridoio poco illuminato una signora molto magra, in carrozzella, quando le siamo passati accanto ci ha salutato agitando piano la mano. Ho risposto buonasera invece di buongiorno. In ritardo per giunta.
Infine abbiamo raggiunto il punto in cui il corridoio curva aprendosi in uno slargo dove sono situate le poltroncine per chi aspetta di essere visitato. Davanti, sulla sinistra, avevo un ufficio chiuso; sulla destra, in fondo alla parete, la porta aperta di una sala comune, dentro cui si potevano vedere alcuni degenti e infermiere. Ho aperto il Genji monogatari, di cui avevo già letto buona parte molti anni fa, e mi sono messo a leggere di buona lena. E’ un libro meraviglioso, spesso leggero, sempre poetico, intriso di grazia in ogni pagina; il punto a cui sono arrivato però è piuttosto triste, direi cupo. Lo leggo con adesione totale, senza accorgermi di ciò che avviene attorno. Arriva il dottore e mia moglie lo segue nel suo studio. A un certo punto sento, da dietro l’angolo, la voce tonante di un’infermiera che dice “Lei parla molto bene, ha mai pensato di scrivere le sue memorie?”. Alzo la testa e dopo un po’ vedo spuntare un ometto dalla lunga barba metà bianca e metà nera, la figura fragilissima, che si sposta molto lentamente aiutandosi con un carrello basso, in silenzio, a passettini, con l’aria stremata. L’infermiera invece è un donnone di mezz’età (più giovane di me). Entrano nella sala comune e spariscono dalla mia vista. Subito dopo sento una donna che dice: “Più a sinistra, Berto. Ecco, adesso dritto”. E’ un’infermiera alla cui spalla è appoggiato un uomo robusto, con una piccola borsa a tracolla. Cieco. Lo guardo: è Bertino, nipote della mia balia, che abitava nel cortile di fronte al suo. Ho giocato con lui da bambino.
Ho il ricordo netto di alcuni pomeriggi nei due cortili (il suo molto buio) e di altri in campagna, d’estate, tra i covoni di fieno, in compagnia del marito della mia balia. Era il tempo dell’asilo (delle materne come si dice ora) e delle prime due classi delle elementari. Bertino ci vedeva ancora un po’, ma si sapeva che era condannato a perdere la vista. Io non capivo. Non capivo che certe cose lui non le capisse, che non ci arrivasse, che fosse lento nell’eseguirle. Ma non mi spazientivo, mi pare, continuavo a giocare con lui. Poi sono cresciuto, andavo a trovare la balia meno spesso e lui l’ho visto sempre meno. Credo che l’abbiano mandato in una scuola per ciechi, chissà dove. Molto più tardi ho ripreso a vederlo ogni tanto in giro per il paese, prima con la mamma e poi appoggiato alla spalla di qualche cugino o zia o assistente comunale. Ed ora eccolo qui. Ha un anno più di me e sembra più vecchio di almeno dieci.
Prendo un appunto su uno dei foglietti che tengo sempre nei libri. Due cosucce veloci, come promemoria. Quando alzo la testa vedo un’infermiera sui 35-40 che mi guarda sorridendo e se ne va. Seguo la sua figura di media altezza, dalle spalle larghe, fianchi con un po’ di ciccia, un culone ampio ma non esagerato che si allontana. Sovrappeso di una dozzina di chili perlomeno. Non so come né perché (anche se forse dipende dalle avventure amorose di Genji che non se ne lascia scappare una e a cui tutte, belle e brutte, cedono più che volentieri), all’improvviso mi viene da pensare: “si può scopare con tutti”. Che razza di frase è?, mi chiedo subito. Ci penso. Non c’è disprezzo. Tenerezza, anzi. Meglio: simpatia. Penso a come sarebbe fare l’amore con lei. Gradevole, immagino, forse gioioso. Tranquillo, senza stress, entrambi attenti solo a farci del bene. Bello. Perché no? Chi sono io per fare lo schizzinoso, l’ipercritico? Mica sono bello e splendente come Genji; mica solo gli adoni fanno l’amore. Cosa pretendo? Corpi perfetti e giovani? (E chi pretende qualcosa? Faccio delle ipotesi, seguo delle idee, vado a vedere cosa c’è dentro quello che a volte viene da pensare. Pura accademia.) Non sono male, certo: lo deduco (lo immagino) dagli sguardi di alcune donne che ogni tanto mi guardano come io (credo: perché non mi vedo) guardo altre donne, quasi sempre diverse da quelle che guardano me (a volte anche le stesse, però; ma più di rado). Lo verificherò poco dopo, mentre fumo da solo fuori da un grande negozio di abbigliamento. (Sì, proprio così.) (Ma non pretendo niente. Probabilmente sbaglio.)
Ma adesso sono qui, ancora sulla poltroncina nel corridoio della casa di riposo. Sto prendendo un appunto anche sull’infermiera paciosa. Mentre scrivo ne percepisco la grazia e penso a ciò che ho appena scritto qui, a ciò che avrei forse sviluppato qui o forse no. Quando alzo la testa, due metri davanti a me, su una carrozzella, c’è un uomo molto anziano, dal viso emaciato, che mi fissa con gli occhi e la bocca spalancati. Occhi sbarrati, come di chi ti osserva da un altro mondo, dall’aldilà forse (e non capisce). Per un attimo lo guardo anch’io, ma non riesco a mettere a fuoco quasi nulla, perché subito arriva un’infermiera e lo porta via.
Subito dopo arriva mia moglie e porta via me.



15/03/14

Racconto con gatto, cagnolino abbandonato e, forse, pettirosso zoppo


Non è vero niente. Non troverete qui niente di quanto è annunciato dal titolo. Mi spiace. Vi ho ingannato.
Mi sono detto: ora scrivo una menzogna. Illudo il lettore, lo prendo in giro, titillo i suoi sentimenti più facili, e lo deludo. Un gioco stupido. Ma insomma, con tutta la verità sbandierata ai quattro venti da chiunque in ogni salsa, scrivere una menzogna, e poi dichiararlo, mi sembra una cosa buona. Piacevole e innocua, almeno.

Non è vero che ho fatto tutto questo ragionamento. Ho pensato solo: ora scrivo una menzogna. Solo questo. E l’ho scritta. (Sarebbe il titolo...) Cioè, c’ho provato, ma non sono sicuro di esserci riuscito. Non sono sicuro che il titolo sia una menzogna. E’ un’affermazione, o meglio: un enunciato, come tanti altri. Niente in esso permette di capire, o di decidere, che si tratta di una menzogna (è una vecchia storia, ma insomma...). Lo decide, semmai, ciò che viene dopo. Cioè ora? qui? Non è detto, perché questo dopo può durare indefinitamente. Come l’amore tantrico, a quel che raccontano. (A me basterebbe molto meno. Chiedo venia.) Per 10.000 pagine, per esempio. E alla diecimilleunesima pagina, ecco che ti compaiono i tre animaletti, tutti insieme, o uno alla volta, magari a cominciare dall’ultimo, o in ordine sparso, separati l’uno dall’altro da un altro tot di pagine (732 per l’apparizione del secondo; 3027 per il terzo, o per primo e secondo assieme, e altre 12 perché i tre sfilino in bella compagnia sulla stessa facciata). Allora non sarà più una menzogna.


Ma secondo me non c’è bisogno di aspettare tanto. Secondo me i tre animaletti (così carini! poveri! teneri!) sono già qui. Non sono mai stati altrove e i non ho mai cessato di parlarne, direttamente e indirettamente. Circolano in tutte le parole che ho scritto. Vi si specchiano. Il gatto è accoccolato da qualche parte tra le righe (sulle mie ginocchia; no: sulla mia spalla, che guarda ciò che scrivo); il cane mi ha seguito mentre tornavo a casa guaendo per farmi compassione, per elemosinare una carezza, un po’ d’affetto (che gli ho dato, perché anch’io ne ho bisogno; sempre!), e ora gironzola nel giardinetto fuori casa, dove il pettirosso (o è un passerotto?), dopo aver zampettato traballante sull’erba, è volato su un ramo che sporge proprio verso la mia finestra e da lì mi sta guardando.
La vera menzogna quindi non riguardava tanto loro (cioè sì: ma solo prima che scrivessi, nel calduccio dell’intenzione che aveva presieduto alla decisione di scrivere una menzogna, e che questa menzogna contenesse la promessa di parlare di tre animali di cui ancora non conoscevo l’identità, ma che avrebbero dovuto arruffianarmi i lettori e soprattutto le lettrici; perché come ho già scritto dei primi ho la tendenza un po’ maleducata a fregarmene, e parecchio anche); non loro quindi, quanto il termine ‘racconto’. 


Quello che avevo iniziato con il titolo e che ancora non sapevo cosa sarebbe stato, non appena ho aggiunto al titolo le prime parole ho infatti capito subito che non era un racconto. Non era cioè qualcosa che comincia in un modo e finisce in un altro, prendendo una cosa o un essere, vivente o immaginario, appartenente al regno vegetale o animale, ma anche minerale se ci si dà dei tempi appropriati, che possono andare dalla tempesta di un attimo a ere geologiche, per seguirne le modificazioni, alcune almeno, fino a qualche altro punto. Punto che diventerà fermo una volta arrestato il tragitto, anche se l’essere o la cosa si può pensare che da qualche parte abbiano continuato o continueranno a esistere e cambiare. Non era qualcosa che non si limita a nominare i cambiamenti di questa cosa, ma li mostra, li mette in moto, li fa agire. E questa cosa alla fine un po’ è ancora com’era all’inizio, e un altro po’, o molto, è diversa. Più vecchia, o più piccola o più grossa. O morta.
Ecco, non mi passava nemmeno nell’anticamera del cervello di scrivere qualcosa del genere. Una storia. Non dico una storia con quelle tre bestie fottute, ma solo una semplice normalissima storia. Una storia qualsiasi.
Eppure, una volta messe in fila le prime parole, e addirittura già le poche parole del titolo, una storia ha subito cominciato a essere. C’era già, subito, lì; e c’è ora. Eccola qui. E tutta vera.



11/03/14

Dammi 5 euro!


Il signore piuttosto singolare che incrocio ogni tanto sul percorso pedonale urbano di G., e che di solito passa oltre senza nemmeno essersi accorto di me, lo sguardo immobile, o con piccoli movimenti furtivi, velocissimi, che scruta uno spazio tutto suo nel quale io di certo, e forse tutti e tutto, non siamo contemplati, questo pomeriggio mi si è parato davanti all'improvviso e mi ha parlato. Ero sul vialetto pedonale che conduce alla chiesa, delimitato da due lunghi muri scanditi da iscrizioni in forma di lapide dedicate ai morti in guerra del paesino (una per morto, con la sola data di nascita: e questo non finisce di sembrarmi bello), e mi dirigevo verso un cancelletto laterale che mi avrebbe poi condotto al percorso ciclopedonale esterno, sul quale non c'è quasi mai nessuno alle ore in cui passo io e dove quindi posso distrarmi come voglio, e pure leggere, se mi va. Un posto dove non l'avevo mai visto. E nemmeno stavolta, se è per questo, se non con la coda dell'occhio, per un attimo, in lontananza, lungo il muro opposto, senza quasi registrarlo. Come non si registra un una cosa innocua. Un uccello in volo, il manto stradale liscio, un filare di alberi all'orizzonte.
Mi è venuto incontro, o meglio: si è precipitato verso di me attraversando di corsa il vialetto, e mentre ancora mi stavo riprendendo dallo stupore (stavo leggendo, appunto: un libro sui crolli, i disastri, le macerie), ha cominciato a parlarmi in modo concitato. "Dammi 5 euro, che oggi non ho mangiato. 5 euro, non ho fatto la spesa, ho fame... 5 Euro, dai! Dammi 5 euro!" Io, con un riflesso automatico, di difesa (eh sì, di difesa: la testa diceva che non c'era nulla da temere, ma il corpo si è attivato da solo) ho fatto per scostarmi, ma lui mi ha preceduto, restando però a una distanza accettabile, non da aggressione cioè, solo un po' più vicina di quanto non preveda il consueto codice comportamentale, appena appena, qualche centimetro al massimo, ma con la testa in avanti, verso la mia, come se stesse per urtarmi, o baciarmi. "Dammi 5 euro, che non ho mangiato!", ha ribadito con voce decisa, e insieme, in fondo, tremolante. "5 euro!" "5 euro... non ti sembra di esagerare?" "Devo fare la spesa, dammi 5 euro!"
L'ho guardato bene in faccia, allora. Era più affilata, non dico scavata o patita, di quanto non avessi mai notato, la pelle chiazzata di venuzze e piccole croste, la barba ben fatta, i capelli grigi corti un po' spettinati sul cranio stretto, che si muoveva avanti e indietro, impercettibilmente ma senza sosta, con un ritmo che si avverte solo da vicino. "5 euro no," gli ho detto. "Ti do tutte le monete che ho..." Ho sfilato il portamonete dalla tasca posteriore, aperto la cerniera e vuotato tutte le monete nella mia sinistra, mentre lui insisteva: "No, no, 5 euro!". "No, questo o niente", e ho rovesciato tutte le monete dalla mia mano alla sua. Erano più di 3 euro, così a occhio, forse 4. Lui le ha prese con un fare deluso, come fosse vittima di un sopruso. Defraudato di un diritto fondamentale. E infatti lui non mi aveva chiesto l'elemosina, ma 5 euro. 5 euro tondi. Di carta, immagino pensasse. Mentre io gli avevo dato solo monete. Che però non erano elemosina. Non lo pensava lui, non lo pensavo io. Fosse stato così gli avrei dato solo una moneta, da un euro o due. Invece ho vuotato il portamonete, senza sapere quanto c'era di preciso. A volte sono più di 5 euro, anche se stavolta ero quasi certo che fossero un po' meno. Ma non 5 euro esatti. Non di carta, ma monete. Lui le ha prese, con quell'aria più offesa che umiliata, e senza dire nient'altro si è diretto di corsa verso il paese, al bar sotto i portici. A bere o a comprare da fumare, magari un pacchetto da 10, o anche intero, se nel frattempo qualcuno gli dava il resto. Che magari aveva già in tasca di suo, d'altronde. L'ho sempre visto fumare. Bere non so.
Mangiare di sicuro aveva già mangiato. So da dove viene: dalla palazzina che sorge a metà del rettilineo lungo il canale. Ha un piccolo prato sul davanti, un ampio spiazzo per le manovre di ambulanze, monovolume e piccoli bus, e nessuna recinzione. Ci abitano persone con gravi problemi, ciascuna con il suo appartamentino. La struttura è gestita da una cooperativa a cui collaborano molti volontari, diretta dal compagno di una mia ex-allieva che lavora nel reparto amministrativo.  Sono brave persone, che non fanno certo mancare il cibo e si prendono cura degli abitanti e di tutte le loro necessità, per quanto possono. Chi è autonomo, almeno in parte, è libero di uscire e rientrare a suo piacimento, di giorno almeno. Il signore che ho incontrato è uno di quelli. Sapevo tutto. Eppure un po' sono stato turbato. Non è stata la richiesta. Nemmeno il tono delle parole. O quei movimenti incontrollati che lo portavano ad accostarsi, o lo sguardo che si dirigeva altrove anche mentre mi parlava. E' stato, credo, il fatto che mi avesse parlato. Che mi avesse rivolto la parola. E che questa parola non fosse una richiesta, ma un'ingiunzione. Un'ingiunzione non arbitraria: assoluta anzi, se il termine non è troppo forte. Diciamo senza possibile replica, allora. E non per ciò che ingiungeva; e nemmeno perché veniva da lui. Non era il suo presunto bisogno l'origine dell'ingiunzione, e nemmeno la sua condizione, per me inconoscibile, al di fuori delle mie presupposizioni (di ciò che potevo sapere e immaginare: dei miei pregiudizi cioè). Non so: sta di fatto che il suo statuto era lampante, compreso o meno. E io non sapevo in che misura avevo risposto; se avevo risposto almeno in parte. Era per questo che ero turbato, credo. Un po', non tanto. C'era solo una vaga inquietudine. 
(Ma anche una vaga soddisfazione, come una sfumatura di sorriso che mi sembrava di avere sulle labbra.)

(E allora, alla prima panchina vicino al centro sportivo, mi sono seduto e ho scritto.)