La merde est l’impensé du Baroque, sa limite non-dite.
Si fanno nature morte per non parlare della merda. Piuttosto si parla della
peste. La natura morta è l’esorcizzazione della puzza: si estetizza, si
anestetizza, il cadavere, la putrefazione, la lordura. La natura morta è il
freezer dell’estetica. Soprattutto quella barocca. E se qualcuno cerca di
uscire da questo cerchio magico e di mostrarlo, vuol dire che non è ancora, o
non è già più barocco: è Caravaggio, è Rembrandt. Nel Barocco invece la merda
taciuta domina incontrastata, continua a salire, et à salir, finché deborda e
scoppia come una fogna intasata. E allora siamo nel Rococò.

E’ evidente infatti che la forma principe del Rococò,
il modello di tutti i suoi stucchi, l’oggetto trascendentale che esso non può
cogliere e si sforza invano di camuffare con i suoi colorini e di non ripetere
nella denegazione del suo oro, quando ogni luogo e ogni persona, dalla città
alla campagna come dal nobile allo straccione, ne sono pieni, è lo stronzo. La
fragilità del Rococò, persino superiore alla miseria del Barocco, ma anche quel
suo versante di satura seduzione (eccessiva: vomitevole, appunto), sta proprio
in questo: nell’aver negato la merda con la proliferazione dello stronzo. Di
qui la sua astrattezza; l’uomo non c’è infatti: il suo modello è lo stronzo di
animale, con la sua varietà di colori e di forme stratificate e attorcigliate,
non la monotona cacca umana. Così la negazione graziosa sostituisce quella
epica.
In fondo, però, questo non allarma nessuno: gli
artisti rococò restano pur sempre dei simpatici cretinetti, gente amabile, di
compagnia, cui giova persino la cipria delle sue lievi manie.
Più sgradevole e penosa la condizione dei loro
correligionari barocchi, tragici, in un certo senso, come tutti i precursori
del nulla (gli epigoni, come è noto, sono solo ridicoli). Come precursori poi,
i barocchi erano addirittura troppo precoci, tanto che sono incappati nella
peggiore delle disgrazie: non hanno conosciuto la psicanalisi. Se l’avessero
conosciuta, allora sì che non si sarebbero sforzati tanto per sfuggire alla
merda. Eppure è strano: riches et peintres, la merde c’est leur affaire. Ne girava
tanta, allora, che nessuno, pare impossibile, la vedeva; o meglio: la
profusione di merde rendeva invisibile la Merda. Così questa, per non essere
fissabile, dallo sguardo e in una forma, è diventata impensabile.
La merda non ha forma: è l’informe che precede ogni
forma (c’est l’informe qui devance, auquel pré-cède, toute forme). Per i
barocchi, la merda è come per i fredduristi l’amore: tutti sanno che c’è, ma
nessuno sa dov’è né cos’è. Difatti nessuno la può pensare fino in fondo. Come
l’amore, la merda si fa soltanto.
Quanto a me, j’aime pas la merde, moi. Je suis propre.
J’suis bien élevé, moi. Y en a déjà trop qui aiment la merde, qui en ont la
bouche pleine. Pas moi. J’suis poli, moi, et surtout propre (vaut mieux le
redire). Ça salit, la merde, ça pue: et moi, j’aime pas ça. Ça est
haïssable.
Rien de sale en moi, ni les
mains ni autre chose. D’ailleurs je me lave dès que je peux. E poi (et puis) mi curo, mi premunisco: evito ogni
luogo e occupazione che possano insudiciarmi, tengo sempre in tasca, in borsa, a casa e in auto profumi, deodoranti, antitraspiranti, saponi, fazzoletti
disinfettanti, spugnette e spray per la bocca e tutti gli orifizi e le cavità e
approfitto di ogni momento libero per usarli, anche in pubblico se occorre.
(Certi orifizi e cavità in pubblico no.)
Ma a che serve? Stercorario è già il semplice contatto
con gli altri e con ogni cosa. Appena metto un piede fuori casa, fendo un’aria
densa e insana contro la quale a nulla servono i guanti, il berretto calcato
fino alle orecchie, gli occhiali e le mascherine che cambio ogni pochi minuti,
e il mondo mi avvolge soffocandomi con tutto il suo sudiciume.
Ora esco il minimo indispensabile, ho cambiato casa e
dall’appartamento che avevo prima, troppo grande e ingovernabile, mi sono
trasferito in un bilocale che passo tutto il giorno a pulire. Eroismo inutile,
perché tutto, ogni cosa mentre ne sto pulendo un’altra o mi lavo, e più ancora
io stesso anche se non faccio niente, subito riprende a sporcarsi, a
traspirare, a spurgare e soprattutto a puzzare, fino a sommergermi.

Impossibile resistere. Passi per le cose, al limite
estremo, ma io? Così ho deciso di eliminare le cause, siccome non riuscivo ad
arginare gli effetti. Solo quelle radicali sono vere soluzioni. E quindi mi
sono tagliato via le ascelle, l’incavo delle ginocchia, gli inguini, il
terribile pene con le sue barbariche appendici, le natiche e l’ombelico. Ma non
bastava: tutto emanava ancora puzza, la sporcizia conquistava ogni centimetro
quadrato della mia epidermide (per non parlare dell’immondo brulichio
sotterraneo), ogni cellula riprendeva a secernere a getto continuo, tanto che
ho dovuto scorticarmi completamente, e poi amputare il naso, le orecchie e la
bocca, strapparmi gli occhi, eliminare la piaga perenne dei piedi, mozzare il
collo, e infine le mani.
Eppure non mi ero ancora liberato. Ancora il
fondamento, la radice ultima della mia disperazione all’assoluta pulizia, mi
irrideva dalla rocca della sua smaterializzata intangibilità; il niente
glorioso su cui era rinchiuso, nella sua totale estraneità alla mia sorte,
impersonava l’ineluttabilità della mia sconfitta. Non potevo indugiare oltre,
dovevo decidermi almeno a tentare. Allora mi sono fatto coraggio e, chiamate a
raccolta le poche forze residue, ho tagliato via anche il buco del culo.
appunti presi in macchina, negli anni 80, prima mentalmente e poi fermo in una piazzuola, come in una specie di delirio, mentre stavo andando a un convegno
non ricordo più su cosa. A Como o da quelle parti. Non ci sono arrivato.