“Ciò di cui ho bisogno sono delle storie, ci ho
messo molto a saperlo” (Beckett, Molloy, 11)
“Non
voler dire, non sapere ciò che si vuol dire, non poter dire ciò che si crede di
voler dire, e dire sempre, o quasi, ecco che cosa è importante non perdere di
vista” (Ib. 28)
(citazione)
A
chi gli chiedeva perché non scrivesse romanzi, Borges rispondeva che non c’è
ragione di scrivere 2 o 300 pagine, quando si può dire tutto in 10 o 20.
Inoltre si guadagna in intensità e si possono raccontare più storie.
Non
sono sicuro che le cose stiano in questo modo e per di più, non avendo la
citazione esatta sottomano, non sono nemmeno sicuro di non avere inserito in
questo aneddoto qualcosa di mio, poco o tanto che sia.
Intanto
ho già cominciato a raccontare una storia.
Ma
anche la citazione esatta, per il fatto di essere citata, sarebbe forse già
stata una storia, o il suo inizio. Quanto meno l’inizio della storia dei
difficili rapporti tra Borges e il romanzo, la storia di un sospetto, o di un
equivoco, o di una comprensione lucidissima che però tradisce una concezione
riduttiva del romanzo. Che non è il mio, mi sento di aggiungere, per quanto
condivida l’esigenza di intensità o di densità del racconto (questo potrebbe
essere il mio tradimento), e l’implicito giudizio sull’inutilità di tantissime
pagine in moltissimi romanzi. Cioè quelli meno riusciti; perché in quelli
riusciti anche le pagine che sembrano superflue non lo sono: ci pensa il
romanzo a restituire la necessità che di primo acchito non saremmo disposti a
riconoscere loro. E questa è una prima cosa che va detta sul romanzo.
Si
tratta poi di vedere in cosa consistono queste presunte pagine superflue:
descrizioni, dialoghi, caratterizzazioni, squarci storiografici, episodi
marginali giustificati al massimo dalla loro gradevolezza, e soprattutto
digressioni. Comunque sia, ci sono romanzi bellissimi che sembrano fatti solo
di pagine superflue, che non solo inturgidano (mi si scusi il verbo malizioso)
l’essenzialità della trama, ma la sostituiscono. Pontiggia lo diceva a
proposito delle digressioni nei romanzi di Fielding, che “non rallentano
l’azione, semplicemente la sostituiscono”; ma l’osservazione vale per molti
altri romanzi del ‘700, come quelli di Diderot, e prima ancora per Sterne, così
come, poi, per molti contemporanei (Musil, Gombrowicz, Kundera e Bernhard, per
esempio, ai quali aggiungerò anche un grande scrittore che mi piace meno dei
citati, Thomas Mann, solo per indicare la differenza con gli altri: in lui
infatti ho talvolta la sensazione che la digressione non nasca dalla narrazione
ma la orienti, e in un certo senso la determini a priori senza sostituirla).
Per
molto tempo ho avuto in sospetto i romanzi in cui ogni elemento non fosse
strettamente funzionale all’insieme, mentre amavo quelli dai quali non si
potesse togliere nessuna frase (come nelle poesie) senza alterare il tutto: ero
attratto da una parte dalla citabilità di un testo (ancora Borges, per esempio)
e al contempo preferivo quelli da cui era difficile citare anche il minimo
frammento (per esempio Kafka, esclusi diari e lettere, sommamente citabili
invece, e spesso altrettanto belli dei testi narrativi). Ma poi mi sono accorto
che tutto è citabile, perché ogni parola, anche la più banale, è già una
citazione, consapevole o meno. L’inizio di questo paragrafo, per esempio, lo è
(è una citazione di Proust).
Vi
risparmio l’autocitazione del primo romanzo che ho scritto più di trent’anni
fa, che era basato sull’uso di citazioni anodine ma tratte da fonti
autorevolissime (di Marx citavo l’esclamazione “Politico!”; di Jakobson
l’ingiunzione “Questo gioco deve finire”, ecc.), per tre motivi: il primo è che
il protoromanzo è tuttora inedito; il secondo perché preferisco lasciare il
tempo perduto al suo provvidenziale destino, il lirismo sull’infanzia e la
giovinezza ai milioni di nipoti degeneri del grande francese (che alla fine,
poverino, si prede anche le contumelie che solo gli altri meritano: a me capita
di affibbiarle anche, per motivi analoghi, agli impressionisti), e la
memorialistica a chi pensa di avere
qualcosa di interessante da dire su di sé salvo poi finire (se va bene) per
costruire un personaggio che con chi scrive ha ben poco da spartire (e meno
male, di nuovo); e infine per un motivo che magari rispunterà più avanti, e che
ha a che fare con l’uso del pronome io, che io uso sempre, come qui.
E
anche questo potrebbe essere l’inizio di un’altro storia.
(idee)
Lasciamole
perdere entrambe e facciamo un passo indietro, cioè un altro passo in avanti
(perché una storia va avanti anche quando va indietro). “Non sono sicuro che le
cose non stiano” come dice lo pseudoBorges, ho scritto. Le cose non stanno mai
come pensi o dove le metti, e se pure “sono come sono: terribili per gli idioti”,
come ha scritto Gabriel Celaya, io confesso che la parte di idiota, in questo
come in altri casi (spero non in tutti), mi si attaglia quasi alla perfezione.
Il quasi non è superfluo: perché se fosse perfetta, persino l’idiozia sarebbe
un merito.
Le cose non stanno così
perché mentre dici qualsiasi cosa sei già, per restare al Borges vero (ma
esiste un Borges vero? Lui sarebbe il primo a negarlo. Lui chi allora? Al
problema dell’autore-narratore forse arriveremo dopo), nel giardino dei
sentieri che si biforcano. E comunque non è vero che ciò che si scrive in 200
pagine può essere scritto meglio o altrettanto bene in 10 o 20. E se è vero che
per molti romanzi 10 pagine sarebbero già troppe, anche in essi la riduzione da
200 farebbe perdere qualcosa: per esempio il tempo, che, come diceva Lukács, il
romanzo è la sola forma ad accogliere tra i suoi elementi costitutivi.
Il tempo e il ritmo, che
anche nel romanzo è fondamentale (sia detto per coloro che se mai vi accennano
è solo per non affrontarlo: il ritmo della prosa e della sintassi, come in
Celine, Beckett e Bernhard; quello dettato dalle pause o dalle omissioni, come
in Carver o in Pontiggia; e infine quello degli eventi narrati, cioè della loro
scansione, come nei gialli migliori ma anche in tanta grande letteratura, come
in Gombrowicz e Kundera, che si rifà alle partiture musicali).
Nelle
10 pagine si guadagna in concentrazione quel che si perde in distensione, anche
nel senso di una lettura distesa. A me piace molto l’intensità, che di solito
si accompagna a un alto NIPP, cioè il numero di idee per pagina che si può
usare per valutare la bontà di un romanzo (come suggerisce Bruce Sterling); ma
niente impedisce che il NIPP sia alto anche in un libro di 500 pagine, come
dimostrano, per esempio, i Promessi sposi.
Resta
però da capire cosa si intende quando si parla di idee nei romanzi. Di certo
non sono quelle degli scrittori che filosofeggiano in proprio o piluccano o
(peggio) applicano filosofie altrui, e nemmeno quelle di coloro che riflettono
sullo statuto di ciò che stanno narrando o sulla genesi e le implicazioni di
ciò che stanno scrivendo, le cosiddette metanarrazioni (ma anche qui ci
sono, tra le innumerevoli cattedrali di inutile noia, nicchie preziose,con
porticine segrete che portano in mille direzioni diverse: mille diverse, non
parti di una verità che sarebbe unica e completa; e poi condivido le parole di
un filosofo, purtroppo recentemente scomparso, quando afferma che non esiste
metalinguaggio; anzi addirittura lo capovolgo affermando che tutto è anche
metalinguaggio, e penso che proprio la letteratura moderna ce l’abbia
insegnato, e proprio laddove sembra essercene di meno). Quindi la parola idea
non va intesa nel senso di concetto o insieme di riflessioni di tipo
filosofico, per quanto i romanzi nei quali le idee hanno un ruolo importante
siano numerosi (da Diderot a Dostoevskji, da Proust e Musil ancora a Gombrowicz
e Kundera, e in Italia, tanto per fare 2 nomi per altri aspetti antitetici, a
Gadda e Calvino); piuttosto quando si parla di idee nel romanzo sono le
idee del romanzo che si deve intendere e individuare, quelle inerenti al
romanzo come forma originale che non rispecchia quella del mondo né di alcun
sistema di idee anche quando vi partecipa senza saperlo o vi attinge
scientemente (per farne uso), ma crea il mondo mentre lo dà a vedere e a
conoscere.
Prendiamo
Kafka, che spesso viene usato in mille modi da una parte perché sembra
radicarsi in una tradizione per cui ogni parola è il commento a un testo che
non c’è, cioè a un testo di cui non abbiamo né potremo mai avere l’originale,
tanto che ogni commento ne ricostruisce, ne inventa uno suo pur restando quello
assente l’unico testo “vero”; e dall’altra in virtù della ricchezza di
osservazioni metaletterarie che vengono estratte a piene mani, anche per
parlare della sua opera narrativa, dalla peraltro meravigliosa congerie di
lettere, diari e colloqui che ci sono pervenuti (che pure come opera narrativa
possono anche essere talvolta lette, ma non per spiegare i suoi racconti
e romanzi: con lo splendido L’altro processo, per esempio, Elias Canetti
a proposito delle lettere a Felice non ha fatto altro, a mio parere).
Lasciamo
perdere queste storie: dove sono le idee in Kafka? I suoi testi narrativi sono
così compatti che non sono citabili, come ho già detto (cioè, sono citabili
come tutto, a patto di non attribuirne la responsabilità se non a chi le estrae
e ne fa uso), non contengono idee isolabili, riflessioni valide di per sé, per
loro forza e coerenza interna, indipendentemente dal contesto narrativo in cui
appaiono, eppure forse nessuna opera del ‘900 ha stimolato la produzione di
idee più della sua. Come mai? Il fatto è che Kafka racconta e sembra non fare
altro che raccontare.
(raccontare)
Ma
anche qui ci sono dei problemi. Cosa si intende infatti con “raccontare”? Per
un verso raccontare è l’attività più scontata e più diffusa tra gli umani,
tanto che quando voglio atteggiarmi a provocatore sostengo che non c’è niente
che non sia racconto; per un altro verso invece raccontare non è poi così
scontato e così semplice. Almeno per uno che nel raccontare vede il suo compito
primario e insieme l’oggetto del suo principale sospetto. Almeno per me,
quindi.
Sono
cresciuto infatti subendo il fascino assoluto del raccontare accompagnato quasi
subito dal suo rifiuto, o quanto meno dalla sua messa in discussione. Quando
ero ancora ragazzo…
Ma
passiamo un’altra volta, perché finalmente sono arrivato a parlare di ciò che
indica il titolo di questa conferenza e non vorrei perdere ancora il filo. Alla
buon’ora, penserà qualcuno. Eppure io mi illudo di non essermene mai troppo
allontanato. Anzi, sono convinto che alcune difficoltà di narrare le ho già
quanto meno accennate.
Comunque
è curioso, e forse anche significativo, che a parlare del narrare sia stato uno
che ha sempre avuto difficoltà a farlo. La sezione che mi è stata affidata però
si chiama scrivere, che implica un’altra prospettiva rispetto al narrare, ma
siccome il titolo complessivo del corso è “La scoperta del romanzo” ne ho
dedotto che il mio tema dovesse riguardare lo scrivere romanzi, che implica
scrivere storie, cioè, tra l’altro, narrare.
Scrivere
romanzi però non è la stessa cosa di narrare. Oggi molti, inclusa la rivista
che dirigo (Nuova prosa: un titolo che ho ereditato), a romanzi o
racconti tendono a sostituire il termine
“narrazioni” (al plurale), quasi per evitare l’imbarazzo (e per sottrarsi al
dovere) di definire cosa si sta facendo o pubblicando, per evadere dalla gabbia
che una definizione sembra erigere. Non siamo più d’accordo su niente, così
pensiamo che fare supplisca al dovere di (anche) pensare a ciò che si sta
facendo. Al massimo si concede una definizione personale, ad hoc, giusto per
indicare provvisoriamente qualcosa (il presunto oggetto del discorso) e scansare
gli equivoci che al momento sembrano più ingombranti. In tal modo tuttavia si
aggira il problema, cosa che è senz’altro utile quando si intende o si deve
fare qualcosa invece di restare intrappolati in discussioni senza fine; ma non
per il fatto che possono non avere fine, tutte le discussioni sono inutili.
Come non lo è la teoria, del resto.
Come
le storie contengono della teoria, infatti, anche un discorso in buona parte
teorico contiene (o è) una o più storie. La differenza è che la teoria tende a
mettere tra parentesi e a subordinare a sé le storie, mentre queste fanno
spazio alla teoria, la fanno circolare senza chiuderla o metterle un punto
finale. In ogni caso io non riesco a pensare le une senza l’altra (le altre), e
viceversa.
(come
se niente fosse)
Il
problema, oggi, è che fatichiamo a condividere sia le une che le altre. E che
meno ancora ci riesce di condividere, cioè di dare per scontata, una concezione
del tempo e della storia (o un insieme di concezioni anche conflittuali ma che
possano tra loro confrontarsi) che ci consenta di strutturare e raccontare
storie che a loro volta siano condivisibili come a priori. Condividiamo solo
l’assenza esplicita di qualsiasi concezione e la sudditanza inconsapevole a
quella che deriva dalla frammentazione, della quale ci appaiono schegge
istantanee che non riusciamo nemmeno a inquadrare e che sul momento sembrano
rassicurarci, mentre invece non accrescono altro che il nostro smarrimento. E’
un dato di fatto, e se è controproducente, più che inutile, rimpiangere le
sicurezza del passato, a nulla serve naufragare in questo mare ricco solo di
scorie. Anche se alcuni furbastri dicono che sia dolce. Ci servono storie che
ci aiutano a vivere, come dice Gianni Celati, e una storia ci riesce solo se la
condividiamo, fosse pure una persona alla volta.
Alcuni
credono che dando per scontato un mondo condiviso il problema sia risolto:
basta narrare “come se niente fosse”, ripetendo convenzioni consolidate e
usando il linguaggio per “comunicare”, come uno strumento neutro e malleabile
che l’artefice plasma a suo piacimento e adatta all’idea che egli si è fatto
dei lettori e di ciò che essi desiderano da lui, o viceversa a ciò che egli
pensa che abbiano bisogno di sentire e sapere. (Tra parentesi: in genere con
questi presupposti, e a dispetto di ogni rispettosa denegazione, il lettore
viene configurato come un cretino: la
sintassi elementare che viene usata ne è la più esplicita dimostrazione, così
come la scelta degli argomenti e l’esotismo dell’ambientazione, mentre le derive
liriche e/o di saggezza spicciola che dovrebbero affascinarlo non fanno che
blandire l’ego di chi scrive. D’altra parte bisogna anche dire che talvolta il
lettore si adegua volentieri all’idea dello scrittore, e cretino lo diventa per
davvero. A volte è persino gradevole esserlo: e difatti ci adeguiamo tutti.
Personalmente, però, del lettore io ho un’idea alta, e credo che lo sforzo che
faccio per evitare per quanto mi è possibile la banalità narrativa non debba
essere risparmiato nemmeno a lui, quando è il caso, perché, anche se la sua
fatica è meno intensa della mia, spero che non minore risulti la felicità che
essa gli procura se il gioco vale la candela, tanto più che se non la vale, lui
il gioco lo può sempre abbandonare.)
Ma
io non credo che tale concezione della scrittura romanzesca che dà per scontata
la realtà oggettiva abbia qualche valore, e non mi importa che la stragrande
maggioranza di ciò che viene pubblicato e letto la faccia propria. Allo stesso
modo anche ogni inquadramento esterno (compreso quello dei generi, che non a
caso oggi sono tornati a surrogare il nulla erigendo palizzate certo fragili,
ma che in omaggio alla loro passata autorevolezza sembrano comunque servire a
delimitare uno spazio condiviso in cui muoversi a proprio agio, o fornire gli
elementi con cui, da allegri postmoderni, giocare) puzza fin da subito di
ideologia di recupero, e pensare che proprio questo possa introdurre nel
giardino della combinatoria e della contaminazione infinita è una beatitudine
che non tutti sono (pre)disposti a condividere, senza per questo rimpiangere i
tempi andati in cui l’illusione della corrispondenza rappresentativa era
percepita, magari in buona fede, come certezza o addirittura vissuta come
verità. E per quanto “fare come se” sia probabilmente una delle necessità che
non potremo mai eliminare, né accettarla supinamente né disconoscerla né
adottare spudoratamente le forme in cui si è già data sembra, almeno a me, la
soluzione migliore. Se alla fine ci si dovrà piegare o si sarà in grado di
accettarla serenamente (per non dire di volerla niccianamente), che sia almeno
dopo aver resistito cercando le forme che sembrano più consone a noi, qui ed
ora, e con il portato che la geografia della resistenza sarà stata in grado di
produrre. Che la semplicità, per parafrasare molto liberamente Marx, sia non il
punto di partenza ma il risultato di un pensare e di un agire (di uno scrivere)
che si è fatto carico della complessità che abbiamo ricevuto e che la contiene,
sia pure sottotraccia, in forma silenziosa.

(complicare
la matassa)
Penso
quindi che si debba scrivere romanzi non per trovare qualche bandolo che
sciolga la matassa di un mondo complesso, ma per complicare un mondo che tutto
sembra congiurare a semplificare, cioè a rendere semplicistico, proprio tramite
la confusione e la moltiplicazione di informazioni che lo illustrano come
inestricabilmente complesso; per estendere i nessi tra ogni aspetto della
realtà, tenere aperti i canali (e i cunicoli) per altre possibilità di vita sia
individuale che collettiva, cominciando col non perdere di vista la nostra
(così distratti e confusi dal resto che spesso ci lasciamo cadere sulla prima
occasione che viene offerta per il nostro desiderio di sollievo).
E
se questo a qualcuno sembra poco allettante, pazienza. Ogni scrittore vorrebbe
essere letto da tutta l’umanità, presente e futura (anche da quella passata, se
dipendesse da lui); il che non implica però che per riuscirci debba abdicare a
se stesso, né che debba per forza conciliare le necessità del romanzo con
quelle del numero dei lettori. Non escludo che sia possibile in generale: lo
escludo quanto a me.
Del
resto è un dato di fatto che non si sono mai scritti e letti tanti romanzi come
oggi, e non mi sento proprio di dire che la qualità complessiva si sia
abbassata. La proporzione tra opere buone e cattive, anche se fosse sfavorevole
rispetto al passato, sarebbe ampiamente compensata dall’accesso alla scrittura
e alla lettura di un numero altissimo di uomini appartenenti a lingue e culture
fino a pochi decenni fa esclusi da ciò che la nostra tradizione indica con
letteratura. Oggi abbiamo la possibilità di leggere un numero così alto di
opere significative di scrittori di ogni lingua e cultura che anche a un
lettore onnivoro (come il sottoscritto) resta sempre una fame insaziata.
Cionondimeno
molti scrittori pensano di dover contrastare ad ogni costo la supremazia di
altre forme di narrazione che dispongono di mezzi più diretti e spettacolari
per raggiungere il consumatore (parola che desumo dal loro contesto, o da
quello dei cosiddetti manager editoriali, non dal mio).
Per
farlo il romanzo ha imboccato varie strade, che tuttavia per comodità possono
essere ridotte a due.
La
prima è stata quella della concorrenza a queste forme adottandone meccanismi e
ritmi narrativi, facendosi tutto cose e azioni e sollecitando un’intensa
empatia applicata alla gamma delle emozioni più semplici e immediate e favorita
dalla scelta di tematiche ritenute rilevanti in virtù della loro comprovata
efficacia: è la strada oggi più percorsa, quella dell’asservimento, tanto che
anche i libri che non vengono scritti direttamente per queste altre forme, in
particolare per il cinema ovviamente, spesso vi ambiscono più o meno
palesemente, non distinguendosi dalle sceneggiature vere e proprie che per
pochi dettagli o farciture in genere superflue (anche se dal cinema il romanzo
ha anche imparato molto, come impara da tutto del resto).
La
seconda ha percorso la direzione opposta e ha accentuato la specificità del
linguaggio, della scrittura nel suo farsi e della storia interna del romanzo,
con largo ricorso all’intertestualità, e spingendo l’artificio e la rarefazione
della narrazione fino ad agire contro il lettore nello stesso momento in cui ne
postulava uno molto esigente, quasi solo un addetto ai lavori, blandito con un
bel certificato di superiorità morale e intellettuale.
La
prima è basata sull’impero della trama, la seconda tende alla sua dissoluzione:
mentre qui il discorso si avvita o viceversa si espande su se stesso tra i due
limiti del silenzio e della speculazione infinita, con in mezzo il vasto
continente della chiacchiera, nell’altro non c’è altro spazio che per il
congegno, che riveste di abiti odierni un mazzetto di archetipi, le cui ragioni
profonde non importano più se non per il maquillage del merchandising e che la
critica avvalora di solito senza andare oltre la loro nominazione.
C’è
però almeno un’altra via, che consiste nel cercare delle forme peculiari alla
narrazione di parole, suscettibili di tutte le variazioni e diramazioni e
digressioni che esse consentono (come peraltro è sempre stato caratteristico
del romanzo) e che insieme continuino a raccontare quelle storie che solo nella
parola possono essere dette.
A
questo si aggiunge talvolta la necessità di inventare anche la lingua per
raccontare, come è avvenuto in passato per ogni grande romanziere italiano: ciò
che forse spiega perché in Italia per
lungo tempo nessuna forma si sia affermata come modello. Oggi sembra che una
lingua finalmente ce l’abbiamo, ma che razza di lingua è? Rileggendo la
trilogia di Beckett un paio di anni fa, ho trovato questa frase che rispecchia
bene il linguaggio ora universalmente diffuso: “Ogni linguaggio mi sembrava uno
scarto di linguaggio” (Molloy, 126). Anch’io, fin da quando ancora
ragazzo ho cominciato a scrivere, sento spesso le parole che mi si sciolgono in
bocca come caramelle appestate, un senso di repulsione che si accentua ogni
volta che sento qualcuno aprire bocca in televisione, per esempio, tanto che
non resisto oltre le prime frasi, anche nei pochissimi casi in cui c’è spazio
per qualche discussione seria: saranno le facce di quelli che parlano, sarà il
mezzo televisivo, fatto sta che anche le persone intelligenti, e ce ne sono
ancora molte grazie al cielo (mai abbastanza però), ne escono più che
dimidiate. E’ sempre il decuplo, quantomeno, dei cretini professionali, però
non basta. Il linguaggio vi figura in subordine, quasi un altro
elettrodomestico. Non c’è che la scrittura dove può essere se stesso,
l’ossigeno che respiriamo, che solo ci fa vivere.
Non
dimentichiamo poi che, come dimostrano gli studi di Benedict Anderson (in
particolare Comunità immaginate, manifestolibri,1996) e di certe
correnti dei cultural studies anglosassoni che analizzano le letterature postcoloniali
(cfr. a cura di Homi K. Bhabha, Nazione e narrazione, Meltemi,1997),
sono stati spesso i romanzi in molte nazioni moderne a creare (o a contribuire
a consolidare) insieme la lingua e la comunità che in essa e tramite essa ha
finito per identificarsi, comunità che per essere immaginate non sono meno
reali.
(necessità)
Va
bene, ma allora di che cosa può scrivere oggi un romanzo? Ovviamente non posso
legiferare per gli altri: quanto a me penso che si può scrivere solo ciò che ha
origine da qualche forma di necessità, alla quale poi ciascuno dà la forma che
le è propria. Il resto mi può piacere, e infatti spesso lo leggo non solo per
informarmi, ma come scrittore non mi interessa veramente. E se non mi interessa
come scrittore, in fondo non mi interessa nemmeno come uomo. Infatti io credo
che la scrittura debba essere profondamente legata alla mia vita, che
naturalmente è la cosa che mi interessa di più (gli scrittori che dicono che la
scrittura è più importante della vita mentono, cioè trascurano il fatto banale
che anche quando sacrificano molto alla scrittura, in realtà non sacrificano
nulla: semplicemente scelgono di dedicare la loro vita alla scrittura perché
scrivere è per essi il modo migliore di vivere). La necessità che secondo me
dovrebbe essere alla base di ogni scrittura risiede in questo.
Così,
quando mi chiedo: “com’è la mia vita?” e cercando di rispondere le do una
forma, cioè me la narro in un determinato modo, dovrei invece chiedermi: “in
base a quale modello (romanzesco), ricevuto ovvero da me modificato o
costruito, do forma alla mia vita?”; o ancora, più radicalmente: “la mia
vita diventa la mia vita in base a quale discorso le dà forma e la fa
essere?”. Ovvero, per usare le parole di
Philip Roth: “E mentre parlava, io pensavo al genere di storie nel quale gli
uomini trasformano la loro vita, al genere di vita nel quale gli uomini
trasformano le loro storie” (La controvita).
La
mia risposta a queste domande sono le storie che racconto ogni volta che apro
bocca e soprattutto quelle che riesco a scrivere. Parlano tutte di me: anzi
parlano tutte da me; e meglio ancora: è narrandole che divento me, cioè il me
che in quel momento vengo ad essere.
Non
nel senso che raccontano le mie faccende, peraltro interessantissime (almeno
per il sottoscritto), ma nel senso che nascono tutte dalla mia esperienza, in
primo luogo dalla mia esperienza del linguaggio: per capirla, darle forma e
comunicar(me)la in ciò che mi tocca più radicalmente. Soltanto se obbedisce (e
non uso il verbo a caso) a questa condizione, ciò che scrivo può sperare di
comunicare e di avere un senso anche per altri. E poiché la mia esperienza,
come quella di tutti, consiste anche di molte persone e cose che mi intersecano
da fuori, anche di queste finirò sempre per raccontare, e più queste cose e
persone saranno importanti per me, più spazio avranno in ciò che racconto; e
poiché vivo queste persone e cose in modo diversi, diversi saranno anche i modi
di raccontarle e di raccontarmi: diversi saranno gli io che verrò ad essere nei
racconti e diversi i personaggi in cui il mio io si dividerà, assegnando a
ciascuna delle sue componenti una sua autonomia e coerenza. Si potrebbero
definire, con le parole di Milan Kundera, “Ego sperimentali”, attraverso i
quali la speculazione sui vari sensi del mondo viene messa alla prova e
sperimentata nelle sue conseguenze, estreme e no.
Ma
si tratta di una speculazione che agisce mediante la singolarità e la
concretezza di cui è fatta l’esistenza, e non nel modo concettuale e
generalizzante che invece pertiene alla filosofia, anche se niente vieta il
ricorso alla riflessione, che però qui è affidata alla pluralità irriducibile
delle prospettive. E’ però un’opzione alla quale io preferisco ricorrere il
meno possibile, perché i personaggi intellettuali si riducono spesso a fare i
portavoce di teorie esterne e approssimative, con una spiccata tendenza alla
cattiva astrazione, per difendersi dalla quale lo scrittore, quando se ne
accorge, finisce per trasformare i personaggi in caricature. Che è un po’ come
sparare sulla Croce rossa, con l’ironica differenza che qui la Croce rossa l’ha
inventata chi spara, che in tal modo riesce nella gloriosa impresa di sparare a
se stesso, colpendosi infallibilmente.
(sintassi)
Il
legame con l’esperienza, come indica anche Benjamin nel saggio Il narratore
dedicato all’opera di Nicola Leskov, è consustanziale al narrare. Benjamin
segnalava già settant’anni fa che “l’arte del narrare sia avvia al tramonto”,
“come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa
e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze”, ma proprio per questo
diventa indispensabile cercare forme sempre nuove per tentare di scambiarle, e
renderle trasmissibili in quanto esperienze e non come mere informazioni: dove
l’esigenza della novità non è un valore legato all’imperativo modernista, ma
una necessità dettata dal venir meno, dall’erosione radicale appunto della
trasmissibilità. E poiché tale erosione tocca in primo luogo i modi di
trasmissione dell’esperienza e la sua stessa condizione, il linguaggio, è su di
questo, credo, che deve soprattutto concentrarsi il lavoro dello scrittore. E
penso che lavorare sul linguaggio non consista nello scardinarlo, nel farlo a
pezzi o contaminarlo nei vari modi che le avanguardie ci hanno resi familiari,
e nemmeno nel procedere a chissà che mirabolanti invenzioni lessicali, quanto
piuttosto nel servirsi della straordinaria ricchezza che la sintassi consente
per dargli vita.
Amo
il linguaggio in tutti i suoi aspetti e non mi sognerei mai di distruggerlo,
perché è impossibile distruggere ciò che è molto più di noi (anche se ci stiamo
dando parecchio da fare per rovinare quasi tutto ciò che è più di noi, che
comunque troverà modo di sopravviverci altrimenti), e penso che l’unico modo accettabile
di forzarlo sia rispettarlo, portando in certi casi al limite certe sue
implicazioni, mettendole a nudo magari, ma senza pensare di potere fare a meno
dei suoi vincoli, nei quali peraltro risiedono anche molte delle sue risorse.
Per
ciò che mi riguarda (credo lo si intuisca anche da quanto ho detto sinora e da
come l’ho detto), preferisco attenermi al linguaggio comune, evitando per
quanto mi è possibile il ricorso a preziosismi o tecnicismi di qualsiasi sorta
e riducendo quasi a zero il tasso figurale. Il rischio è l’appiattimento, ma ho
deciso di correrlo. D’altra parte, specie nel mio ultimo libro che si intitola Lampi
orizzontali, non volevo aggiungere inutili complicazioni e motivi di
distrazione a una lettura che già richiede sufficiente attenzione sia per il
numero dei personaggi che per la sintassi piuttosto articolata che lo
caratterizza.
E’
proprio la sintassi, infatti, il vero perno della narrazione (nonché ciò che
per me è l’aspetto più importante, e mi piacerebbe poter dire anche originale,
di gran parte di ciò che scrivo e in particolare di Lampi orizzontali).
Una sintassi che ho cercato di usare in modo elaborato ma non pedante, così da
potermi muovere in una temporalità piuttosto ampia e varia all’interno di ogni
singola frase e storia; ma una sintassi che resta comunque “classica”, senza
trasgressioni evidenti. E’ solo per aver trovato questo tipo di sintassi, per
aver sentito che questo ritmo mi apparteneva (o viceversa, per essere più
esatti), che ho potuto raccontare le storie: che non ho avuto resistenze a
raccontarle. Anzi: che ho provato un grande piacere a raccontarle senza che
venisse meno la tensione, che è una delle condizioni per me imprescindibili
dello scrivere.
E’
una questione di timbro e di ritmo, come dicevo all’inizio. Questo, per me che
non sono uno scrittore professionale, ha molto a che fare con la decisione di
scrivere, quella concreta e materiale che ricerco o che mi fa prendere in mano
la biro o accendere il pc intendo.
In genere all’origine di ciò che scrivo ci sono immagini
concrete e dettagliate o un’espressione precisa che mi si ficcano in testa con
forza. Quando succede vuol dire che qualcosa è stato toccato dentro di me, ma
non ho fretta; le lascio lì a maturare, per verificare se si tratta solo di
impressioni passeggere o se hanno la capacità e la costanza di colonizzarla (la
testa, intendo). In questo caso, dopo un certo tempo le loro evoluzioni si
fanno sempre più frequenti e io comincio a seguirle con interesse finché mi
accorgo di non riuscire a pensare ad altro anche quando ad altro, di fatto,
penso, pur sapendo che di ciò che allora penso utilizzerò in seguito poco o
niente.
Comincio a lavorare materialmente solo quando tutto questo
rimestare prende la forma di una frase compiuta, che mi si impone per un suo
ritmo che, a torto o a ragione, mi sembra ineludibile, necessario, e per il suo
tono preciso e ben individuato, che non lascia spazio a nient’altro. Allora
l’unico modo per liberarmene diventa scriverla. La conferma che tono e rimo
sono quelli giusti, se lo sono, è immediata: infatti mentre scrivo la frase, se
ne affacciano subito altre a una velocità che, per i miei ritmi, mi stordisce,
e mentre mi affanno a scrivere anche queste si delinea l’idea netta di ciò che
dovrà seguire, o quanto meno la forma che ciò che seguirà dovrà prendere, con
gli indispensabili aggiustamenti d’accordo, ma senza revisioni sostanziali.
Ciò
non significa che ci si debba limitare a queste circostanze e tantomeno che ci
si abbandonare a corpo morto al flusso di intensità che ci percorre in quei
momenti. O meglio, ci si deve abbandonare, ma sapendo che non basta (però è
bello). La cura e l’abbandono nella scrittura non si escludono, e nemmeno si
deve pensare che dove cresce l’una diminuisce l’altra, come se la loro somma fosse
costante: anzi, più aumenta l’una più c’è bisogno dell’altro e viceversa.
Maggiore è la superficie che si espone alla luce, più estesa è l’ombra
prodotta, e maggiore la necessità di tenerne conto.
(tempi)
I
libri più interessanti oggi mi sembrano meno quelli che raccontano storie, pur
avvincenti o sapienti o intense, che quelli che raccontano per dire dell’altro:
ma dell’altro che non può essere detto altrimenti che narrando.
Le
cose da narrare ci sembra di conoscerle tutti: la conclamata comunicazione
totale di ciò che avviene, e in particolare di ciò in un determinato momento si
vuole far credere come più terribile o strano, rende sempre meno necessaria
l’originalità del cosa e sempre più quella del come (tanto per semplificare).
Ma se è un errore quello di chi cede alla logica azzerante dell’uguaglianza che
deve essere nutrita sempre di nuovi cosa, lo è altrettanto quello di chi
dimentica che nel come è il cosa che viene alla luce, e questo cosa conta
eccome. Non si tratta infatti, come fanno alcuni, di disprezzare la
comunicazione per il fatto che tutto sembra ridotto ad essa perché nel suo
trionfo non comunica più niente all’infuori di se stessa, quanto invece di
trovare delle forme per comunicare veramente qualcosa e insieme per mostrare i
modi in cui la comunicazione avviene, da dove viene e cosa comporta. Questo mi
sembra importante e urgente e può avvenire non mediante un abbassamento
“democratico” del modo, cioè il suo avvilimento e asservimento, ma mediante la
cura della sua perfezione, senza compromessi. Parlo del romanzo, ma non solo di
esso: ma del romanzo tanto più in quanto il suo lettore, scegliendolo invece di
tante altre forme, questa cura già se l’aspetta prima ancora di leggere una
parola. Altrimenti andrebbe a cercare le sue storie altrove.
Raccontare
è stato naturale, apparentemente, finché c’è stata una visione del mondo
condivisa, come dicevo: all’interno di una definizione della realtà su cui
tutti coloro che appartenevano a un gruppo, piccolo o grande che fosse, erano
d’accordo (o erano convinti di essere d’accordo, che poi è quasi la
stessa cosa), l’interesse convergeva sulle cose da dire, i luoghi da
descrivere, i personaggi da evocare e le azioni da selezionare. Accanto a
questo c’era spazio per l’abilità retorica, intesa come arte di costruire il
discorso e di abbellirlo per convincere o affascinare, in un contesto in cui,
però, verità e menzogna erano in via di principio discernibili e separabili.
L’inquadramento di ciascuno di questi fattori e il posto che andavano ad occupare
nella gerarchia della società e dei valori, erano dati per scontati e, semmai,
la porta del cambiamento veniva lasciata aperta per piccoli aggiustamenti che,
anche se in futuro (a posteriori) magari si sarebbero rivelati decisivi e
assommandosi avrebbero cambiato il volto del mondo, al momento non apparivano
che marginali, per quanto utili per affrontare il poco di nuovo che si
aggiungeva all’immenso noto.
La
storia del romanzo invece parte proprio dal cambiamento e, sin dall’inizio, del
nuovo si fa carico (stavo per scrivere la storia del romanzo moderno: ma io
sono d’accordo con coloro che pensano che, per quanti antecedenti si possano
rintracciare nel passato, come fa Bachtin con la satira menippea, o Pavel con
il “romanzo” ellenistico, il romanzo è un’arte a se stante nata nei tempi
moderni: cfr. il libro curato da Massimo Rizzante, AA. VV. “Romanzo e
romanzesco”, Metauro, 2004). Degli sconvolgimenti che accadevano non c’era
forma che potesse farsi carico, e così è nata questa forma mobile che è il
romanzo, una forma senza forma che doveva ogni volta inventarsi di nuovo. E se
anche a noi la storia del romanzo oggi appare come un panorama di forme quasi
continue, ognuna di esse ha dovuto, tenendo conto di quelle che l’hanno
preceduta, reinventarsi da capo, tanto che se uno mettesse in fila i capolavori
vedrebbe che si tratta ogni volta di un unicum. Ci sono poi molti romanzi
bellissimi che esplorano il territorio aperto da questo o quel capolavoro, ma
ciascuno di questi ultimi resta un individuo unico e incommensurabile. Poi noi
li mettiamo insieme, li raggruppiamo in paesaggi nel complesso omogenei o li
infiliamo in collane continue a mo’ di perle, ma questo è solo un derivato del
nostro bisogno di fare delle storie che diano un senso per noi a tutti quegli
individui, non diversamente da come essi fanno con i loro personaggi.
Ogni
romanzo riuscito aggiunge qualcosa a quelli che lo hanno preceduto, ne amplia
la comprensione, ne ridisegna i confini e aggiorna la definizione. Non so se e
quanto un romanzo possa incidere sul presente o sul futuro: quel che è certo è
che cambia il passato. Proietta su di esso uno sguardo dal quale non potremo
più prescindere, e forse è proprio per questa via che, dal passato mutato,
torna a incidere sul presente, quantomeno sul quello di chi lo ha letto, e da
qui sul futuro.
Per
quanto sembri partire da presupposti simili ai modi di costruire storie che
l’hanno preceduto, dato che ogni forma ha presto o tardi trovato gruppi sociali
che l’hanno fatta propria, e cioè “naturalizzata”, il romanzo procede in senso
opposto al raccontare non romanzesco, tanto che oggi, di fronte a una
frammentazione che appare sempre meno condivisibile sino a ridursi a un
orizzonte sconfinato di idioletti privati, il ricorso alla forma data (e data
come data, cioè come ricevuta da un passato a noi omogeneo che l’ha riempita e
variata in ogni modo traghettandocela come pura forma disponibile a qualsiasi
imbottitura) appare come l’unica alternativa, il rifugio più efficace e quindi
più ricercato. La forza dello stereotipo è l’efficacia durevole che lo ha reso
tale.
Oggi
sembra però che, riconoscendo lo stereotipo narrativo come forma e usandolo
volontariamente per ciò che è (senza cioè esserne inconsapevoli prigionieri),
esso si sia trasformato da comoda gabbia in ancor più comodo passepartout per
un aperto quanto mai vago, l’euforia paranoica di una libertà senza rischi. C’è
da dubitarne.
(ordine)
E’
vero che raccontare è mettere ordine, perché anche la scrittura più confusa, o
che più alla confusione si inchina, inizia dal desiderio di ridurla e di in
qualche modo organizzarla. Tuttavia costruire un ordine provvisorio e aperto, è
diverso dall’incasellare ogni aspetto della realtà nelle scansie di un sapere i
cui criteri sono aggiustati su quelli della realtà data (quella letteraria
inclusa). Chi scrive tenendo conto di cosa è stata (o è) la modernità, inoltre,
sa sempre di scrivere almeno in modo doppio, dicendo in ciò che dice anche
qualcosa su ciò che dice e sul modo di in cui lo dice, che è un’altra forma di
organizzazione della confusione. In particolare io so di farlo anche quando non
ci penso (anche se in genere penso ciò che faccio), e quando non ne faccio
l’oggetto esplicito del discorso. Anzi, evitare di farne l’oggetto esplicito
del discorso è mia massima cura, nonostante talvolta finga di squadernare tutto
(ma si tratta di false piste: in Lampi orizzontali quasi tutte addossate
alle peraltro fragili spalle di Flavio, lo scrittore). Non mi voglio dilungare
sulla dimensione del metadiscorso o della teoria, della quale personalmente non
so, né voglio, fare a meno; segnalarne la presenza mi sembra però doveroso. Già
che ci sono, però, mi allargo, e dico che la teoria è in tutto ciò che scrivo,
che tutto ciò che scrivo è anche, bene o male, teoria. Anche se forse sto solo
proiettando desideri destinati a rimanere tali.
(candore
e disincanto)
Ma
allora che fine fa la realtà in tutto questo?, mi ha chiesto qualcuno. Non ti
poni il problema del realismo? Se c’è un problema che non mi pongo, gli ho
risposto, è quello del realismo, anche se sapessi cosa si intende con questo
termine. Quanto ho scritto finora mi sembra lo dimostri sufficienza. Se con
realismo si intende il riferimento, che può prendere varie forme, a quello che
c’è, o a quello che si suppone che ci sia, bisognerebbe definire tutto ogni
volta e trovare un punto d’intesa per capirsi. Non so se sarei in grado di
farlo, però so che non mi interessa. L’unica cosa (l’unica realtà) che c’è
quando si scrive, lo ripeto, è il linguaggio, e il linguaggio che c’è quando si
scrive è quello che si ha nella testa e che ci passa, provenendo da ciò che si
è letto, sentito, detto e (se e quando ci si riesce) pensato. Non esiste altra
realtà che quella a cui la narrazione dà forma: ogni tipo di corrispondenza con
un’altra presunta realtà è una corrispondenza con la realtà che ha in testa
qualcun altro, per esempio chi legge. Con ciò che chi legge chiama realtà. Che
peraltro già si modifica mentre legge.
A
me ogni parola sembra infinita; soprattutto quando scrivo, in ognuna di esse mi
sembrano risuonare tutte le volte e tutte le circostanze in cui l’ho incontrata
(detta, sentita o letta) e persino quelle che mi sono ignote. Il che, a ben
pensarci, è una bella fregatura, perché spesso si traduce in una forma di paralisi
(o di completo disorientamento, di assoluta vertigine), a meno che non sia la
forma di cui di si fa scudo mia personale propensione alla paralisi. Viceversa
però questo mi impedisce di dimenticare che le parole non sono oggetti a mia
disposizione, un docile strumento da manipolare come e quando voglio; mi
ricorda ogni momento l’irriducibile molteplicità che risiede in ciascuna di
esse, la resistenza che oppongono a ogni mio sacrosanto impulso al loro
controllo, nonché la resistenza che io devo opporre loro, per quanto mi è
possibile, per non soggiacere alla tirannia, o alla tentazione, della presunta
naturalezza e semplicità con cui ti blandiscono. Allora diventa evidente che la
moltiplicazione del possibile non sono io a deciderla: c’è già, e a me non resta
che accettarla proprio mentre, scrivendo, faccio di tutto per arginarla e
organizzarne una parte, disincantato.
Ciononostante
non vado esente dalla meraviglia, mi pare, perché anche il disincanto ha la sua
parte di meraviglia, una parte sottile ma non per questo meno intensa. Quanto
meno se il disincanto non è il pedestre cinismo oggi diffuso (in particolare
nei cosiddetti noir: l’illusione dell’assenza di illusioni, che è
un’escrescenza della paura) o la delusione radicata nel presupposto che ogni passione
è spenta, che è la forma preferita della resa incondizionata. Le vite che ho
raccontato sono state per me ogni volta fonte di meraviglia, non ultima la
meraviglia che sia possibile e doveroso raccontarle. Sarò ingenuo, ma io ho una
passione forte, la letteratura, che resiste a ogni sua marginalizzazione o
svalutazione, e me la tengo ben stretta.
Del
resto qualche sempliciotto che la condivide con me, per fortuna in giro è
rimasto ancora. Anche la loro sopravvivenza è per me fonte continua di
meraviglia. E di gratitudine. E di ammirazione. Quando qualcosa o qualcuno
scoperchia il mio candore, mi meraviglio di averne e sono felice.