Mentre in altri paesi europei ed americani l’interesse
per i testi di J. Derrida non accenna a diminuire, nei campi e della filosofia
e dell’arte e della critica militante, in Italia, dopo che la traduzione quasi
completa delle sue prime opere una decina di anni fa (La voce e il fenomeno, Milano, Jaca Book 1968; Della grammatologia, ibid., 1969; La scrittura e la differenza,
Torino, Einaudi, 1971; alle quali è da aggiungersi la raccolta di interviste Posizioni, Verona, Bertani, 1975, alla
quale si rimanda sia per l’utile glossario dell’appendice, che per la bella
prefazione di G. Sertoli) aveva suscitato numerosi e diversificati interventi
immediati, l’attenzione verso di essi è sempre più scemata.
Ciò che ne è rimasto si riduce in linea di massima ad
alcune acquisizioni lessicali, usate non di rado in modo indeterminato e senza
sospetto del loro contesto di affioramento e di azione, e che si riconosceranno
facilmente nel corso dell’articolo.
Come è noto le indagini di Derrida, nello spazio
aperto da Nietzsche ed Heidegger e con costante riferimento a Freud, hanno per
oggetto la decostruzione della metafisica, cioè di quel sistema di
inquadramento, interpretazione e trasformazione del mondo che, dalla sua
instaurazione greca fino ai nostri giorni, ha dominato tutta la storia
dell’occidente tanto da identificarvisi. Non tanto quindi di questo o quel
sistema storicamente determinato e più o meno importante, quanto dello spazio
inaugurale e sempre attivo della loro proliferazione e diversità, spazio che li
ricongiunge in una fondamentale unità dominata dagli stessi valori trascendenti
(essere, verità, presenza, origine, fine, identità…) che,lungi dal limitarsi al
puro statuto concettuale, orientano persino le pieghe più banali della
quotidianità. Logos unitario e totalizzante o totalitario, che si vorrebbe
omogeneo e indiscutibile nella sua perfezione, che secondo Derrida non si
tratta con gesto facile, quanto illusorio di oltrepassare verso un impensabile
altrove magari simmetrico, bensì con giusta parola di decostruire. Il problema cioè non è di creare un’alternativa alla
metafisica e di opporle un puro al di fuori o una pura alterità o differenza:
tutte prospettive che rimarrebbero all’interno del suo orizzonte; quanto di
individuarne e far concorrere alla sua destrutturazione tutto ciò che, al suo
interno ma soprattutto lungo i margini, agisce da irriducibile eterogeneità:
falle supplementari e innesti che ne minano sin dall’origine e nel fondamento
la sferoide omogenea totalità.
A questo scopo l’analisi non si deve limitare alla
sola filosofia escludendo i campi
artistico e scientifico, né deve pensare il decostruttore di poterne erigere e
quindi organizzare i risultati a positività concettuale autonoma ovvero a nuovi
principi costitutivi. Sono soltanto infatti “strumenti di decostruzione” non
astraibili dai loro contesti concreti di emergenza e dalle letture che rendono
possibili, ciò che ne spiega e la successiva differenza e la pluralità non
unificabile (scrittura, disseminazione, traccia, margine…), indecidibili rispetto alla logica della
metafisica dato che dei concetti non hanno né identità né pienezza.
E’ una logica altra da quella classica dell’identità e
della differenza quella così articolata, una logica chiamata ad hoc da Derrida
della differenza (différance):
termine inesistente che solo la scrittura permette di distinguere da quello che
si aggiunge, e che serve a Derrida a mostrare che non si dà differenza specifica
al di fuori del movimento che, nel differenziare, differisce e ritarda, al di
fuori della spaziatura che è temporizzazione, divenir-spazio del tempo e
viceversa.
Ed è ancor sempre in tale ambito, trattasi di compito
infinito, che si situa anche questo ultimo libro, a prosecuzione, e in certi
casi esplicitandone le assise, di un percorso che, in altri testi da noi non
ancora tradotti, aveva toccato oltre alla filosofia, la letteratura, la
psicanalisi e la pittura (La dissémination, Paris, Le seuil, 1972; Marges – de la philosophie, Paris,
Minuit, 1972; Glas, Paris, Galilée,
1974; La vérité en peinture, Paris,
Flammarion, 1978). Questa volta l’obiettivo, paradossale e polemico, sin nel
titolo, è la “metafisica postale”.
Polemico soprattutto verso quella lettura di Freud che
si riassume nel nome di Lacan: è infatti all’analisi di un suo testo che si
rivolge uno dei quattro saggi inclusi in questo libro (saggio pubblicato
indipendentemente su Poétique, 21,1975,
e in traduzione italiana Il fattore della
verità, Milano, Adelphi, 1978, e che, essendo già stato largamente
discusso, non verrà qui preso in esame), nonché alla discussione spesso
criptica e allusiva delle divisioni del movimento analitico il quarto, sotto
forma di breve intervista. Anche a prescindere dai riferimenti diretti, molto
scarsi al di fuori di Il fattore della
verità, che sarebbe inoltre impossibile non pensare a Lacan sia nella
“cartolina” del titolo, con allusione al suo molteplice uso della “lettera”
(rubata, freudiana, dell’inconscio…), sia nel “Freud e al di là” del
sottotitolo. Comunque, e fortunatamente, in nessuno dei due casi ci si ferma
all’istanza polemica.
La cartolina infatti domina tutta la prima parte del
libro, la metà esatta, nella triplice veste di occasione, oggetto e anche
strumento del discorso. Occasione come cartolina reale trovata da Derrida a
Oxford, riproducente un’illustrazione tratta da un manoscritto del XIII sec.,
un libro di predizioni della fortuna. Vi vediamo un Socrate giovinetto, dai bei
lineamenti e vezzosamente abbigliato, seduto ad uno scrittoio in atto di
intingere una penna nel calamaio con la destra e di grattare col raschietto che
tiene con la sinistra una pergamena ancora vergine davanti a lui, mentre alle
sue spalle, vecchiotto bruttino e vestito da povero diavolo, un Platone di
dimensioni ridotte ce lo indica con la destra e dirige il nostro sguardo chissà
dove, in alto verso il margine, o fuori, con la sinistra.
D’accordo, si tratta probabilmente dell’errore di un
copista poco accurato, ma Derrida mica si accontenta: questa cartolina ci dice
qualcosa di importante, pensa, o meglio, ci mostra “il negativo di una
fotografia da sviluppare da 25 secoli” (p. 14), il negativo della metafisica,
forse. E proprio in questa cartolina, della metafisica ci rivela anche un
aspetto fondamentale, quello postale, del quale viene specificata la
costellazione concettuale che ne costituisce la struttura (e siamo
all’oggetto), in una lettura che trova soprattutto, e prevedibilmente, in
Nietzsche, Heidegger e Freud i parametri tanto di riferimento che di
discussione.
Partendo dalla coppia stenografica S/P (Socrate e
Platone certo, ma anche soggetto e predicato, processo primario e secondario…)
questa struttura si specifica prima nel complesso sistema di collegamenti che
uniscono cartolina e lettera a posta, e questa a posizione tesi e tema da un
lato, e a destinazione destinare e destino (il Geschick heideggeriano, che è anche “abilità”, significato che
rientra pure in adresse, “indirizzo”;
vedi p.71) dall’altro, e poi, sempre concettualmente ma anche e soprattutto
linguisticamente, in quello dell’andare-venire, dell’incamminamento, del vicino
e del lontano, della verità, del transfert, della genealogia, del passare ecc.
(vedi p. 238 e 240).
Sistema coestensivo di ogni nostra possibilità di
discorso e di pensiero, che “ha invaso (persino) la nostra domesticità più
privata” (p. 32), e dal cui spazio uscire è forse impossibile, dato che anche
lo spazio si costituisce a partire da esso.
Forse impossibile e quasi certamente catastrofico,
ripete spesso Derrida con un certo pathos che la diffusa ironia non basta
comunque a ridimensionare. E’ la nostra condanna (ma Survivre è il titolo di una futura pubblicazione annunciata in
queste stesse pagine); e la paralisi è il segno sotto cui ci muoviamo, nel
senso, greco, che “non c’è più legame, che ogni vincolo è stato sciolto
(altrimenti detto, certamente, analizzato) e che proprio per questo, perché si
è ‘esenti’ prosciolti da tutto, niente va più, niente si tiene insieme, niente
avanza più” (p. 138-139).
Nati tutti sotto Saturno? Quel che ci resta da fare
allora, in questo sistema, è forse solo misurarne i bordi, (ri)scriverlo in una
pratica plurale che non si deneghi e cerchi contemporaneamente di sfuggire ai
tranelli che la metafisica è sempre pronta a far scattare al minimo segno di
rilassamento. E’ la paranoia della metafisica potremmo dire, con genitivo
soggettivo e oggettivo insieme, of course. Quel che soprattutto si deve evitare
è l’ingenuità di volerla battere limitandosi ai suoi strumenti, nel senso
almeno in cui essa ce li fornisce. E con questo siamo al terzo aspetto della
cartolina. Come strumento di decostruzione della metafisica postale infatti, la
cartolina, quella stessa che ci mostra la scena tra Socrate e Platone, la
“scena primitiva” si potrebbe dire, manifesta ottimi requisiti: “fatta per
circolare come una lettera aperta ma illeggibile” (p. 16) è “semi-privata
semi-pubblicata” (p. 70), può essere letta da chiunque, se capitatagli in mano
o intercettata – basta un secondo – il messaggio non ha più alcuna possibilità
di raggiungere alcunché di determinabile, in nessun luogo (determinabile)
possibile” (p. 58), con buona pace di tutti i “guardiani della lettera”, dice Derrida, siamo filosofi, giornalisti, psicanalisti o, ovviamente, letterati.
Così non c’è posto in essa per la verità, col suo
seguito di tesi, referenzialità e dimostrazioni, la sua logica è indecidibile e
non può essere disgiunta né dal rispetto e dall’attenzione alla lingua che,
seguendo magari altre modalità, caratterizza più che i poeti la poesia (meglio
ancora: la Dichtung), né da un nuovo
modo di intendere e utilizzare la “finzione”, non tanto terrorizzandola quanto
mettendola in atto. Come puntualmente accade infatti, sotto forma di lettera
d’amore, lettera farcita (satura),
divagazione e deviazione, autobiografia e parodia, in tutta questa prima parte
di La carte postale.
Ma “finzione” è
anche, nel senso che non rientra nei tradizionali canoni metafisici, la nozione
di speculazione che Freud utilizza per distinguere il suo discorso sia dalla
filosofia sia dalla scienza sia dalla letteratura in Al di là del principio del
piacere, al quale appunto per questo Derrida dedica un lungo e orientato
commento. Ma anche qui, naturalmente, non si tratta di elaborarne
esplicitamente la teoria o il metodo in modo estraibile dal contesto operativo:
la speculazione non è niente al di fuori del complesso reticolo di argomenti
con cui è consolidale nella scrittura di Derrida (per es. l’eredità freudiana,
la scienza e il nome proprio, Freud e Nietzsche, Heidegger, gli scritti di
Jacob e Canguilhem) e nel percorso di Al di
là…
Caratteristica principale della speculazione come
finzione è di non correre mai ad alcuna istanza finale che instauri valori o
fondamenti di carattere trascendentale, dato che è legata a quelle “intime e
profonde predilezioni” di cui Freud parla nel VI capitolo, “senza le quali il
movimento stesso della ricerca, scientifica e speculativa, non sarebbe nemmeno
dato” (p. 406), dal momento che l’indispensabile passaggio al linguaggio in
essa ne è segnato sempre e comunque a tutti i livelli.
Non solo a causa dell’impossibilità di nominare la
“cosa stessa” e della conseguente irriducibile necessità di abitare una “lingua
d’immagini” (Bildersprache) che
struttura anche la scienza immettendola fin dal suo sorgere in una serie di
movimenti in tran, o in Uber, – transizione, trascrizione,
traduzione, trasposizione, trasgressione, transfert, metafora (Ubertragung) – che la sottrae a
qualsiasi riferimento a un “originale”, ma anche perché la speculazione da
questi medesimi tragitti costituita “orientata, destina, calcola il ‘primo passo’ più originale e più passivo sulla
soglia stessa della percezione. E questa percezione, il suo desiderio o il suo
concetto, appartiene al destino di questo calcolo. Come ogni discorso tenuto a
questo soggetto” (p. 409).
In tal modo quindi ogni ricerca è costituzionalmente
una deviazione, che non nasconde però nessun tragitto proprio, nessun cammino
diretto: l’origine è sottratta e il/la fine non possono nemmeno venir posti,
ogni posizione viene incessantemente sospesa e l’interminabile è la legge,
mentre del tutto inutile è provarne nostalgia e desiderare una lingua
“finalmente propria”. La necessità di ciò che la speculazione enuncia, risiede
soltanto nel giogo delle sue “metafore” (cioè dei suoi movimenti in trans) “a titolo di metafore” (p. 410).
Non si dà perciò oggetto della speculazione disgiunto
dal suo linguaggio e dal suo effettivo operare: è per questo che ogni tesi
viene sospesa, esattamente come fa Freud in Al
di là…, ad ogni suo porsi per aprire la strada a sempre nuove deviazioni;
che il procedimento della ricerca è anche quello del suo oggetto (per es. la
coazione a ripetere di Freud che scrive, logica e linguistica a un tempo); e
che le “intime e profonde predilezioni” comportando la messa in gioco, portando
così tra l’altro a una ridefinizione del concetto di autobiografia, del
“soggetto” stesso che specula (come è noto infatti Freud scopre la coazione a
ripetere in un nipote; è della morte nella sua famiglia e tra i suoi discepoli
e amici che Freud parla anche, sebbene ci tenga a distinguere, giustamente,
questi fatti dalla sua morte; e molte delle precisazioni teoriche sono legate
alle deviazioni del movimento legato al suo nome).
Si apre così lo spazio di una nuova logica nella quale
non è più l’opposizione che domina, benché da essa procedano pure “effetti”
dialettici, ma “l’irresoluzione” (p. 428). In essa l’obiettivo di ogni percorso
non è che “un limite ideale, come dire una finzione” (p. 304), niente si dà
nella sua purezza e tutto si muove in una “struttura di alterazione senza
opposizione” (come all’interno o a partire dal principio di piacere in cui
appare “il principio di realtà come il suo
altro, e la pulsione di morte come il suo
altro” (p. 377), basata sulle differenze e deviazioni prodotte dalla
dif/ferenza.
Ma data l’indistinguibilità di procedimento e oggetto,
allora la dif/ferenza diventa anche la legge del vivente, o meglio la
deviazione a partire dalla quale soltanto essa si dà, così che l’evoluzione
della vita non è che deviazione dall’inorganico in vista di se stesso, una
corsa alla morte” (p. 377) e “ciò che si chiama realtà non è niente al di fuori
di questa legge della dif/ferenza. Ne è un effetto. (p. 427).
La dif/ferenza, la deviazione, la sottrazione
d’origine, la metafora: come si vede sono le stesse cose, in fondo che Derrida
ripete da quindici anni ad ogni nuova pubblicazione e, se questo fosse tutto,
anche questo suo ultimo lavoro nient’altro avrebbe fatto se non apportare un
nuovo anello, fosse pure importante, ad un “sistema” che riceverebbe sì, dal
suo punto di vista, un’ulteriore conferma e una migliore saldatura dei suoi
nessi, ma rimarrebbe in sostanza immobile e inalterato. Ma come si è detto
l’obiettivo di Derrida non è di costruire un suo sistema, quanto di decostruire
quel sistema che è la metafisica, e naturalmente niente impedisce di utilizzare
strumenti a volte identici o simili laddove e fin quando si dimostrino
efficaci, cioè produttivi di una lettura disarticolante.
Il ritorno di risultati analoghi in campi differenti,
inoltre, potrebbe anche significare tanto che non sono dovuti al caso né alla
scelta di esempi ad hoc, quanto che il riproporsi di certe incrinature o di
certe eterogeneità indica nel tessuto della metafisica i punti di più difficile
riduzione e quindi di maggiore importanza strategica per la decostruzione, sui
quali è perciò opportuno insistere. Tanto più che non è su di essi che Derrida
insiste, visto che li pone quasi a cifre vuote di sostanza autonoma, quanto
sulla lettura specifica e concreta che attraverso o in essi si opera.
Tuttavia se affermazioni di questo genere avevano dato
in passato adito a critiche che ne limitavano la portata al puro livello
teorico, mentre più rari erano coloro che sostenevano che anche la dif/ferenza,
nonostante le affermazioni in contrario di Derrida, finiva col diventare essa
pure principio costitutivo e fondamentale, e quindi rivestirsi di tutte quelle
valenze che nella decostruzione invece si attribuiscono alla metafisica, è più
probabile invece che le obiezioni a La
carte postale saranno più numerose in questa direzione, data l’esplicita
identificazione tra dif/ferenza e legge della vita e della realtà, pur fatta in
modo tale che soltanto a partire dalla pluralità delle differenze essa sia desumibile.
Obiezione certamente prevista da Derrida, come non meno prevedibile è la difesa
che egli potrebbe a sua volta opporre.
J. Derrida - La
carte postale -de Socrate à Freud ed au-delà, Coll. La philosophie en effet,
Paris, Ed. Aubier-Flammarion, 1980