Alla Chapelle du Méjan, personali di David LaChapelle e Beat Streuli. Grande contrasto, contrapposizione ma anche, in un certo modo, complementarità.
LaChapelle ha ritratto con programmatico irrealismo, ironia, senso del paradosso e indefessa ricerca di sorprendere e divertire (oltre che divertirsi), stucchevole alla lunga, solo “bella gente” (attrici, cantanti, artisti e paperoni vari), vestita e svestita benissimo, tra scenografie sempre molto elaborate e debordanti di oggetti sfiziosi e improbabili, ripresa da angolature barocche, da torcicollo, in spazi distorti e con colori innaturali, elettronici, squillanti, eccessivi, sempre molto, molto glamour, sempre perfettamente a puntino, senza perdere un colpo, attento prima di tutto a evitare di scivolare sotto le righe (oh, very nice!).
Streuli, invece, ha fotografato per le strade di Marsiglia praticamente tutti quelli che passavano, cioè solo gente comune (e chi altro vuoi che se ne vada in giro per le strade di Marsiglia?) e ne ha tratto diapositive che qui vengono proiettate su tre grandi schemi adiacenti, all’incirca di 4 metri di altezza per 6 ciascuno, illuminati in sequenze e con ritmi all’apparenza irregolari, così che le immagini possono essere una o due o tre contemporaneamente, spesso diverse, o uguali per i singoli soggetti o per i gruppi ritratti ma con piccole variazioni nelle posture o nell’inclinazione dei volti, raramente uguali in tutto e per tutto su tutti e tre gli schermi o sovrapposte sullo stesso schermo in dissolvenze che sembrano creare movimento o trasformare un volto nell’altro, sostituite con cadenze variabili ma sempre lasciando il tempo di guardare con sufficiente attenzione: gente comune, dicevo, comunemente vestita (con maglioncini, tute, giacche, cappottini, tailleurs, magliette e pantaloni di varia foggia per lo più da grandi magazzini o mercati rionali; con borse e borsoni, tracolle, zainetti, caschi, foulard, chador, berretti, cappelli sportivi con o senza visiera, portati dritti o di traverso o all’indietro; con o senza occhiali, anelli, trucco, tatuaggi e piercing vari; calzati di scarpe con tacchi alti e bassi di ogni formato, mocassini, polacchine, scarponcini, sneakers, sandali, stivaletti e stivali in similpelle o in tela, verniciati o grezzi, lisci o a lacci intrecciati, e una miriade di calzature di lontane origini sportive, di semplice tela, da basket o che sembrano piccole astronavi, con lucine nelle suole, oblò, ammortizzatori per il lancio e l’atterraggio...), ripresa ora a figura intera ora a mezzo busto, più spesso in primi e primissimi piani; sola, con amici, famigliari, colleghi, compagni e sodali, o semplicemente accomunata dallo spazio urbano, dall’istante; in compagnia dell’auto, della bici, della moto o del furgoncino; casalinghe, lavoratori, pensionati, studenti, turisti, sfaccendati: gente di ogni provenienza e condizione (bassa o medio-bassa perlopiù) e razza, ma senza che il tormentone multietnico sia cercato o avvertito; con espressioni, posture, smorfie (poche e solo accennate), sguardi e gesti mai vistosi, “naturali”, di chi si sta facendo i fatti suoi, o sta lavorando, facendo la spesa o cercando qualcosa, o anche niente, eppure sempre intensi, individuati, a ciascuno il suo e solo il suo, e tutta, sempre, gente bella, proprio per questo.
Streuli, invece, ha fotografato per le strade di Marsiglia praticamente tutti quelli che passavano, cioè solo gente comune (e chi altro vuoi che se ne vada in giro per le strade di Marsiglia?) e ne ha tratto diapositive che qui vengono proiettate su tre grandi schemi adiacenti, all’incirca di 4 metri di altezza per 6 ciascuno, illuminati in sequenze e con ritmi all’apparenza irregolari, così che le immagini possono essere una o due o tre contemporaneamente, spesso diverse, o uguali per i singoli soggetti o per i gruppi ritratti ma con piccole variazioni nelle posture o nell’inclinazione dei volti, raramente uguali in tutto e per tutto su tutti e tre gli schermi o sovrapposte sullo stesso schermo in dissolvenze che sembrano creare movimento o trasformare un volto nell’altro, sostituite con cadenze variabili ma sempre lasciando il tempo di guardare con sufficiente attenzione: gente comune, dicevo, comunemente vestita (con maglioncini, tute, giacche, cappottini, tailleurs, magliette e pantaloni di varia foggia per lo più da grandi magazzini o mercati rionali; con borse e borsoni, tracolle, zainetti, caschi, foulard, chador, berretti, cappelli sportivi con o senza visiera, portati dritti o di traverso o all’indietro; con o senza occhiali, anelli, trucco, tatuaggi e piercing vari; calzati di scarpe con tacchi alti e bassi di ogni formato, mocassini, polacchine, scarponcini, sneakers, sandali, stivaletti e stivali in similpelle o in tela, verniciati o grezzi, lisci o a lacci intrecciati, e una miriade di calzature di lontane origini sportive, di semplice tela, da basket o che sembrano piccole astronavi, con lucine nelle suole, oblò, ammortizzatori per il lancio e l’atterraggio...), ripresa ora a figura intera ora a mezzo busto, più spesso in primi e primissimi piani; sola, con amici, famigliari, colleghi, compagni e sodali, o semplicemente accomunata dallo spazio urbano, dall’istante; in compagnia dell’auto, della bici, della moto o del furgoncino; casalinghe, lavoratori, pensionati, studenti, turisti, sfaccendati: gente di ogni provenienza e condizione (bassa o medio-bassa perlopiù) e razza, ma senza che il tormentone multietnico sia cercato o avvertito; con espressioni, posture, smorfie (poche e solo accennate), sguardi e gesti mai vistosi, “naturali”, di chi si sta facendo i fatti suoi, o sta lavorando, facendo la spesa o cercando qualcosa, o anche niente, eppure sempre intensi, individuati, a ciascuno il suo e solo il suo, e tutta, sempre, gente bella, proprio per questo.
Ero solo nella sala, seduto su una sedia di plastica dietro i proiettori. Me ne sono rimasto lì una mezz’oretta a guardare e basta, pacifico, finché mi è venuto l’impulso di alzarmi e di mettermi a camminare in mezzo ai fasci di luce emanati dai proiettori, così, senza scopo, come se sperassi, però, di scoprire anche la mia immagine prendere forma sugli schermi come una di quelle che vedevo, di vedere la mia faccia confondersi con esse o per verificare anch’io com’ero in quel momento, tra tanta grazia, forse con addosso un po’ di grazia anch’io, diretta o riflessa poco importa; ma naturalmente sugli schermi, c’era solo la mia ombra, anche se talvolta duplice o triplice.