Era
da molto che non entravo a leggere nell'altissimo salone della biblioteca
Angelo Mai, dove ho ambientato il finale del mio primo e meritatamente (forse)
inedito romanzo quasi 40 anni fa, di cui al momento non ricordo il titolo.
Curioso! E anche stavolta ci sono entrato per caso, perché, giunto in largo
anticipo a un appuntamento in Piazza Vecchia con un professore (e scrittore e
pittore) colombiano (gente che mica si accontenta di una sola cosa... forze
della natura!) e la sua (e mia) cocca Federica, e con un libro che mi bruciava
in tasca, ne ho approfittato per cercare di finirlo.
Le
ultime volte c'ero sempre stato per cerimonie, presentazioni o premiazioni; per
leggere invece, era tantissimo che mancavo. Ci venivo da ragazzo, in autostop
fino a Bergamo, con il pollice destro rivolto alla strada e lo sguardo sulle
pagine di un libro che tenevo nella sinistra, indifferente al traffico, senza
preoccuparmi del tempo che ci avrei impiegato. Ma in genere non dovevo
aspettare tanto, perché quando uno mostra indifferenza verso tutto, e ancor di
più verso qualcosa che pure sta facendo, trova sempre qualcuno che, risentito,
vuole infrangerla, se non altro per curiosità. Non era una tecnica volontaria,
ma funzionava lo stesso. L'autostop richiede pazienza, e io non volevo perdere
tempo (tutto il tempo libero che non dedicavo alla lettura mi sembrava perso:
sempre questa smania di fare qualcosa! il dovere, la colpa...): così leggevo, e
gli automobilisti, un po' sconcertati da questa esca inedita, abboccavano.
Giorni
fa ho scritto un raccontino in cui, tra l'altro, si parlava dell'arte di
confezionare esche, un'arte che vorremmo padroneggiare tutti, mentre invece,
nella stragrande maggioranza, siamo esperti solo in quella di abboccare. E se
qualcuno abbocca a noi, è indipendentemente dai nostri propositi, per qualche
ragione che non sospettiamo neppure, perché noi stessi siamo l'inconsapevole
esca, l'oggetto di qualche desiderio che spesso, a sua volta, si ignora. Sempre
una consolazione, comunque. Una dolcezza. E' bello essere l'oggetto, parziale
quanto si voglia, di un desiderio, consapevole o meno, debole o intenso, e
persino superficiale e istantaneo come quello degli automobilisti che si
fermavano e, dopo aver aperto la portiera, subito esclamavano, come sorpresi
dalla loro disponibilità: "di solito non do passaggi...".
Mi
sono seduto al tavolo centrale della fila centrale (un'ardita novità nelle mie
consuetudini prossematiche), equidistante da tre studiosi davanti a me e da 4
studentesse verso il fondo. Dare la schiena a quattro belle ragazze: dovevo
proprio essere impazzito! D'altra parte, se uno vuole leggere è meglio che non
sia distratto. E poi, non scherziamo, mica sono un lumacone con la bava alla
bocca. Dignità! Un pizzico, almeno, per favore (chi ha orecchie per intendere...).
I
tre studiosi davanti a me erano due anziani, un uomo sulla settantina, una
donna ben oltre quella soglia, della quale vedevo solo il foltissimo caschetto
di capelli bianchi, così compatti da sembrare una parrucca, non fosse che per alcuni
fili e un ciuffo scomposto e vivo che fuoriuscivano qua e là, e infine, sulla
destra, una suorina di mezz'età. Tutti consultavano grossi tomi, quelli delle
due donne piuttosto vecchi, a giudicare dalle rilegature. In particolare quello
della suorina, che probabilmente era una raccolta di documenti, registri o
cronache manoscritte, non antiche, ma a occhio di almeno un paio di secoli.
Tutti e tre avevano un pc portatile acceso accanto. (Nessuna delle studentesse
l'aveva, invece. Mi era già parso a un primo sguardo, entrando, ma mi sono
voltato apposta a controllare. Mi piaceva questa specie di ribaltamento.
Studiavano sottolineando con vigore i propri libri, quasi arandoli. Se
pareba boves, alba pratalia araba...)
Il
libro della signora dal candido caschetto era aperto su una specie di leggio
imbottito, foderato di stoffa verde, un cuscino sul quale le pagine (alba
pratalia) si adagiavano comode, che quasi quasi, immagino, gli veniva sonno (a
me sarebbe venuto). Ma ci pensava la lettrice a tenerle sveglie, pizzicando gli
angoli a ogni cambio di foglio. Per il resto potevano sonnecchiare tranquille.
La
suorina prendeva appunti sul pc, o ricopiava con diligenza certi passaggi che
decifrava da quelle grafie curate ma senza troppi svolazzi, eppure per me più
incomprensibili di quelle semi-informi dei miei vecchi studenti. Il signore
compulsava grossi volumi dalla rilegatura rossa, prendendo pure appunti sul pc,
prima che a interromperlo intervenisse un altro anziano signore sbucato da una
porticina sul fondo che si era avvicinato a lui con amicizia e deferenza
insieme.
Io
sbirciavo ogni tanto, alzando la testa dal libro. E stavo bene. Forse per
questo, o per mimetismo, quasi senza accorgermene ho estratto la biro dal
taschino e ho cominciato a scrivere sui foglietti che tengo sempre come segnalibro,con l'idea di prendere un appunto su ciò che stavo
vedendo, una cosa veloce, un elenco e niente più. Invece la biro è andata per
conto suo e ha scritto tutto questo. E sono arrivato in ritardo
all'appuntamento. Leggero, ma pur sempre ritardo. Imperdonabile!
Condivido la fascinazione per la magnifica sala di lettura della Maj. Ci ho passato parecchio tempo da studente prima e da insegnante (in attesa dell'ora di lezione) poi, ai tempi della Florida, quando tenevo i corsi estivi a Bergamo.
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