“Si scrive una sola opera”, dice Georges Perec in una
delle interviste raccolte in En dialogue avec l’époque (ed. Joseph K., 2011),
esprimendo un’idea non proprio originale, come capita spesso a quelle vere, e
proprio per questo si è fatto un punto d’onore che ogni suo nuovo libro
differisse dal precedente. Ha quindi moltiplicato gli accorgimenti per non
ripetersi, ancor prima di entrare nell’Oulipo, attraverso decostruzioni,
variazioni e contaminazioni di generi e registri, ricorsi a giochi e
restrizioni di ogni tipo (le famose contraintes: regole, vincoli,
passaggi obbligati), differenti declinazioni di personaggi e temi che prima o
poi finiscono per tornare e che allora tanto vale giostrare consapevolmente,
incursioni nel teatro e nel cinema, per non parlare delle innovazioni nella
scrittura e nelle tematiche saggistiche, tanto che verrebbe più facile pensare
a lui come a uno scrittore disperso in mille rivoli (e anche un po’ dispersivo,
non fosse che la morte prematura impedisce un giudizio sulla possibile
quadratura a venire) più che a uno che temesse di ripetersi e di risultare
monocorde. E invece i vari frammenti della sua opera, pur non perdendo la
propria unicità e specificità, sono andati a comporsi in un quadro unitario
come i pezzi di un puzzle tanto amati e ricorrenti anche nelle sue parole e nei
suoi testi, l’omogeneità di fondo è emersa anche tra le opere più disparate, e
la varietà è andata a formare un reticolo complesso e multidimensionale che
pian piano ha assunto i connotati del suo autore, come un (auto)ritratto a
chiave, una originale e completa autobiografia indiretta fatta di tanti
frammenti che tutto sono, all’apparenza, meno che autobiografici.
È anche questo che ha reso Perec una delle figure più
influenti della cultura, e non solo della narrativa, a cavallo dei due secoli,
come testimoniano anche i saggi che la rivista Europe (n. 993-994, febbraio-marzo 2012, a
cura di M. Decout) ha voluto dedicargli invitando a parlarne scrittori e
studiosi internazionali, tra i quali Vila-Matas, Celati, Josipovici, Sheringham
e Benabou. Ma è anche quello che permette, come dimostrano i saggi raccolti
nella rivista, da una parte di attingere a uno o più aspetti per articolarli in
un percorso di lettura coerente e rivelatrice, come altrettanti fili e
stratificazioni che da un’opera all’altra si sono venuti intrecciando e
stratificando, e dall’altra di ritrovare, pur nella diversità dei composti,
alcuni elementi base ricorrenti e per certi aspetti caratterizzanti del suo
lavoro: nuclei narrativi, oggetti, personaggi, reticenze o costruzioni a latere
o innalzate su un vuoto, o un silenzio programmatico (come la morte del padre
in guerra e la deportazione della madre e di molti famigliari ad Auschwitz). E
questo anche nelle numerose raccolte postume e negli inediti che sono stati via
via pubblicati.
Il 3 marzo, esattamente nel trentesimo anniversario
della sua scomparsa, è uscito da Seuil, per le affettuose cure di Claude
Burgelin che lo ha corredato di una prefazione acuta e ricca di ricordi e
informazioni, l’importante romanzo giovanile Le condottière (p. 203, E. 17; trad it. E. Ferrero, Ed. Voland, 2012), il primo che
Perec abbia giudicato davvero “finito”.
Scritta dopo due altri romanzi abbandonati con pochi
rimpianti, quella che abbiamo tra le mani è l’ultima delle quattro versioni
diverse anche nel titolo che si credevano tutte perse. Terminata nel 1960, cioè
cinque anni prima del vero libro d’esordio di Perec, Le cose, ristampato
l’anno scorso da Einaudi, che gli ha
subito dato una certa notorietà con la vittoria al Prix Renaudot, questa
ritrovata è la redazione che Perec riteneva definitiva, e che è stata rifiutata
da vari editori, in particolare da Gallimard che pure aveva dato
all’autore un incoraggiante anticipo. Non si può dargli torto. È infatti
un’opera molto interessante per gli studiosi e i tantissimi cultori di Perec,
ma che non mi sentirei di consigliare a un lettore che desideri cominciare a
conoscerlo, anche se ha il vantaggio di mostrare l’autore agli esordi.
Dopo molte trasformazioni, la trama si attesta sulla
storia di un giovane falsario, Gaspard Winckler, che dopo dodici anni di
felici, riusciti e impuniti, falsi di ogni genere e epoca, viene richiesto un
lavoro molto importante dal suo committente Anatole Madera, che gli concede la
più ampia libertà di tempo e di scelta dell’autore da falsificare. Gaspard si
orienta su un Antonello da Messina (si noti la somiglianza con il nome del
committente e l’uguaglianza delle iniziali) nell’intento di farne anche il
proprio capolavoro: non un semplice falso nato dall’isolamento di vari dettagli
da diverse opere dell’autore e dalla loro ricombinazione che dia luogo, come un
puzzle, a una nuova figurazione, ma un’opera originale che eguagli quella del
modello senza esserne una filiazione: che sia cioè “la creazione autentica di
un capolavoro del passato” (p. 58), qualcosa che dia la misura non della
propria abilità di contraffazione, ma dell’altezza di un’arte propria,
personale quanto più rinuncia al proprio marchio e nome per identificarsi
totalmente con quelli di Antonello. La scelta cade su un Condottiero,
simile a quello che Gaspard può ammirare al Louvre, concentrato di forza e
nobiltà e decisione che contrastano esemplarmente con i dati del suo carattere,
da cui in tale modo vuole liberarsi: dalla corazza che lega i suoi gesti e
insieme protegge la sua vita, che ha sempre più l’impressione di star mancando.
Dopo un anno e mezzo di preparazione e pochi giorni di lavoro febbrile una volta
trovato il passaggio verso il compimento dell’opera, smaltita l’esaltazione
finale, Gaspard si accorge di avere miseramente fallito il suo obiettivo. Il
fallimento diventa quello della sua vita, degli amori abbandonati che ora
mancano, delle decisioni non prese, di una immediatezza e naturalezza di cui si
sente espropriato e che ora cerca di recuperare sgozzando il suo protettore,
con quello che sente come il primo gesto “naturale” della sua vita (p. 196). Il
romanzo parte dall’omicidio e vi ruota attorno, raccontando gli antecedenti,
l’apprendistato e il lavoro di Gaspard, i suoi successi professionali, gli
incontri spesso mancati o mai davvero approfonditi, le responsabilità non
assunte, i tentativi di spiegazione del suo gesto che dà a se stesso e a un amico
nei numerosi dialoghi della seconda parte, in un susseguirsi di riflessioni che
si estendono a tutto campo alle tecniche, all’opera, al mercato dei falsi e
alle implicazioni intellettuali e esistenziali che questa attività ha assunto
nel tempo per lui.
Alcuni, incluso l’autore, in questa storia di
fallimento hanno visto una storia di presa di coscienza e di liberazione. A me
non pare. La forma che la vendetta, tema ricorrente nell’opera dello scrittore,
assume in questo Condottière, è grossolana e insoddisfacente, e appunto
per questo ha bisogno di fughe e infinite giustificazioni. In La vita istruzioni
per l’uso non c’è bisogno di nessuna spiegazione della vendetta che
Winckler prende su Bartlebooth perché essa è resa inutile dai fatti e dalla
perfezione del progetto in sé e del lavoro, che porta doppiamente a compimento
l’opera (quella di Winckler e il suicidio di Bartlebooth), mentre nel Condottière
la loro urgenza nasce proprio dal fallimento dell’opera (cioè del vero-falso
nuovo Antonello). E su un’opera fallita non si costruisce nessuna riuscita, per
quante parole ci si spendano sopra. Meglio abbandonarla, come fa Perec con
questo suo “primo romanzo compiuto”, dopo i dolorosi rifiuti ricevuti. Meglio
perderla, come le sue copie.
Mentre qui Winckler fugge, là si rinchiude, si separa:
qui la vendetta è la fuga dall’opera (fallita) nel tentativo di riprendersi la
propria vita; là è la concentrazione sull’opera, la dedizione totale ad essa in
vista di una riuscita che avrà solo un testimone, e forse nemmeno quello,
perché morirà con in mano la lettera del suo enigma irrisolto, il sigillo del
fallimento del suo progetto di vita, del suo “uso”: una W dove doveva esserci
una X. La sigla di un nome invece di quella dell’incognita.
L’incompletezza della vendetta è la stessa del
romanzo, e la sovrabbondanza delle giustificazioni la stessa della volontà di
esibire conoscenze e abilità da parte del giovane autore, irretito nelle parole
d’ordine dei tempi, come traspare anche dalla forte presenza di richiami alla sociologia
marxista e dalla declinazione in prevalenza esistenziale del tema del falso,
che peraltro tornerà talvolta anche in opere e dichiarazioni successive,
seppure in forme e toni meno ingenui. L’autentico, la vita, la libertà... cose
così.
L’altro importante ma significativo fallimento è
quello rintracciabile nella scrittura e nella struttura del libro, diviso in
due parti per nulla equilibrate né complementari, ricche entrambe di
sperimentazioni in genere non risolte in modo soddisfacente. Che Perec non
amasse il romanzo tradizionale è un dato di fatto, ma sostenere che fosse
ostile alla narrazione sarebbe un errore pacchiano. Del resto l’attitudine
sperimentale che caratterizza tutta la sua opera è sempre all’insegna della
massima leggibilità, senza farne una questione di stile o di marca personale
per darsi coerenza o riconoscibilità (o vendibilità: come un brand), ma
sfruttando ogni volta le specifiche risorse delle forme e dei generi adottati,
anche se spesso tendendo, nella scrittura, al grado zero di un tono neutro e
apparentemente solo referenziale o enumeratorio, attento solo ai luoghi e alle
cose (senza per forza fare del narratore un puro voyeur né sposare il nouveau
roman), e in realtà brulicante di riferimenti, citazioni, invenzioni e
memorie, anche dolorose.
Già in questo primo romanzo Perec esplora modalità
discorsive e narrative (per esempio il discorso in seconda persona che tornerà,
diversamente declinato in Un uomo che dorme, riedito da poco in nuova
traduzione da Quodlibet) e di
costruzione della trama che consentano una narrazione non improntata a modelli
canonici e tantomeno a una falsa e non problematica spontaneità. Alcuni pensano
che siano stati la successiva adesione all’Oulipo, i giochi linguistici e le contraintes
a distogliere Perec dalla narrazione: invece sono stati per lui un modo di
recuperarla dopo tanti tentativi e mezze riuscite, come quello del Condottière.
Non a caso dopo aver portato a termine La vita istruzioni per l’uso,
lo scrittore ha sostenuto di avere sì fatto “implodere il romanzo”, ma
aggiungendo spesso di aver scoperto, in questo lavoro di demolizione, il più
grande piacere di narrare, un vero e proprio “giubilo” di raccontare che non
aveva mai provato in vita sua: esattamente laddove il numero dei vincoli e dei
passaggi obbligati era stato più alto, e forse proprio grazie ad essi.
Nel Condottière questi esiti non si possono
nemmeno intravedere, e tuttavia la strada che vi porterà è già tracciata, nella
sua esigenza di base, pur tra le imperfezioni e le contraddizioni, che non
cancellano però le numerose pagine già molto acute e riuscite. La lettura offre
inoltre quindi numerosi altri motivi di interesse: l’ultimo che conviene
ricordare, ma non certo il minore, è quello di incontrare già qui personaggi,
temi, forme e persino stilemi tipici del Perec maturo. Trovare le radici
nascoste, il germe ancora imperfetto e informe dell’opera a venire che ora si
conosce in tutta la sua complessità, è una grande soddisfazione non solo per il
critico, ma anche per il lettore devoto, perché ne garantisce analisi e
predilezioni e proietta, su una molteplicità che poteva anche derivare da
capriccio o vaghezza di intenti, la luce della permanenza e della fedeltà a se
stesso, cioè di una necessità ben più solida di quella ricostruibile a
posteriori: radici vere, invece che immaginarie e solo immaginate.
In questo senso sarebbe però bello pensare che Le
Condottière è stato tenuto nascosto così a lungo per precisa volontà
dell’autore, che ne avrebbe dichiarato la scomparsa solo per gusto malizioso,
come l’ennesima casella vuota di tante sue opere, come la casella vuota della
sua opera stessa (non forse la vita stessa?), con gesto tipico del giocatore
che Perec fu. Ma ancora preferibile sarebbe, per me, se a partire da tracce
magari sue, da versioni davvero eliminate o perse, il libro fosse un falso da
lui commissionato o scritto di propria iniziativa da qualche amico, che però
glielo avrebbe per sempre tenuto nascosto.
L’articolo è apparso in forma ridotta su Il Sole 24
Ore e su doppiozero.com
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