C’era
questa agitazione al centro del fiume stamattina, con pesci che spiccavano
zompi di mezzo metro e poi si allontanavano a tutta velocità pattinando sulla
superficie, prima di inabissarsi e tanti saluti. Me ne stavo lì a godermi lo
spettacolo quando le acque, proprio in quel punto, hanno preso a ribollire e lentamente
è emersa dai flutti una creatura mitologica (ma questa non lo era, dato che io
l’ho vista). Le acque che bollono, i fumi che si alzano, il fuggi fuggi della
fauna, sono lo scenario classico dell’epifania numinosa. Non capisco perché gli
dei e affini non riescano a rinunciare a questi effetti hollywoodiani: come se
temessero, se non mettono su un qualche teatrino, di non essere riconosciuti. Hanno
pure loro i loro bei problemi di identità… Ci credo: l’esemplare di oggi faceva
piuttosto schifo, pur non mancando di una sua maestà. Ultimamente il disgusto
gode di crescente pregio.
Dicevo
dell’essere mitologico, o mostro o semidivinità: era gigantesco, ma non
tantissimo… diciamo semigigantesco, come Margutte (siamo sull’Adda, mica sul
Rio delle Amazzoni o sul Congo), con una testa quasi umana, ma senza orecchie,
il naso appena accennato, occhi gonfi, labbra grosse, sporgenti e viscide, con
la pelle del cranio pelato che luccicava al sole nascente e bagliori iridescenti
che balenavano lungo le spalle e il petto. Brandiva minaccioso un forcone con
la destra, mentre nella sinistra si agitava un grosso cavedano che forse era
rimasto impigliato tra le sottili membrane fangose che univano le dita. Era
proprio un forcone, e non un tridente, e piuttosto rudimentale anche, certo ricavato
da un tronco sradicato da qualche piena. La dotazione di queste infime divinità
lascia un po’ a desiderare, ultimamente: l’armamentario non viene più rinnovato
da secoli e loro si devono arrangiare con quel che c’è in magazzino o altre
trouvailles, e poi ricorrere al bricolage. Solo che quanto a manualità sono
piuttosto deficitari. Non è colpa loro comunque: nessuno gliel’ha insegnato.
Cresciuti nella bambagia e poi abbandonati al loro destino. È triste.
Sembrava
piuttosto arrabbiato, il bestione. Ha lanciato verso riva quello che potrei
chiamare un urlo muto, dal momento che non ho sentito nulla, mentre ho notato
l’acqua incresparsi davanti a lui e le foglie della riva percorse da un lungo
fremito causato dello spostamento d’aria del suo fiato. Poi la bocca ha cominciato
a articolare, o meglio: a mimare una prosodia arcaica (micenea, a occhio, o di
poco successiva), silenziosa ma terribile. Come una poesia dadaista (quella è
comica però). Io non capivo un’acca, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo
da quelle labbra bavose: ne seguivo incantato ogni movimento, sillabando
mentalmente il loro ritmo, anche dopo
che lui si era di nuovo inabissato nelle basse acque del fiume: tatatatà tatatatà
tatà tàta, terrorizzato da quella voce non mia che martellava dentro di me
qualcosa che ignoravo, dal suo puro e semplice tono.
Nessun commento:
Posta un commento