Nina Berberova e Vladislav Chodasevič
Che
ne è della vita degli artisti, dei loro gusti e amori, dei loro bisogni e dei
loro rapporti sociali? Se la figura dell’autore come antecedente, padre e
padrone dell’opera, e l’immagine della vita come punto di riferimento
imprescindibile per la sua comprensione sono state ormai cancellate
dall’orizzonte esclusivo del testo, significa che diari, biografie e memorie
vanno considerate d’ora in poi soltanto sotto il profilo storico-documentario,
per non dire feticistico? Oppure ci sono già in essi tutte le condizioni della
letteratura proprio perché, come dice Giorgio Manganelli, scrivere della vita
di uno scrittore è impossibile e immorale?
Di tutt’altro tenore sono il discorso e l’atteggiamento di Prokosch, che anzi a prima vista sembrano ridursi a quelli di un sia pure particolare ammiratore di divi. Colpito dai primi incontri infantili con grandi personaggi (specie Thomas Mann, amico del padre), Prokosch dedica parte della sua vita a rinnovarli, registrando fedelmente ogni particolare. Tuttavia presto anche qualcosa d’altro si insinua nel suo percorso ed egli, nei diversi interlocutori e al di là di essi, comincia a cercare “l’artista come eroe, come enigma, come martire, come rivelazione e infine come frammento dell’umanità”. Il viaggio alla sua ricerca, diventato Prokosch scrittore a sua volta, si trasforma inoltre nella ininterrotta formazione del viaggiatore stesso, che si ricerca come individuo e insieme come parte di una forza che lo trascende e di cui è preda (scrive il suo primo romanzo, Gli asiatici, come in trance), ma che intende conoscere e controllare sempre di più per servirla meglio, per rendersene degno. Egli si rende conto cioè di partecipare di qualcosa (l’arte, la bellezza, la creazione) il cui mistero non finisce di stupirlo e di restargli incomprensibile, ed è per questo che cerca di avvicinare coloro che al suo nucleo gli sembra che si siano maggiormente avvicinati. Proprio in quanto tali essi – che sono di volta in volta, o allo stesso tempo, i suoi specchi, gli amici, i modelli, gli eroi e gli uomini nella loro singolarità e estraneità – non solo non deludono mai Prokosch, ma possono a buon diritto, con le loro parole e la loro quotidianità, marcare le tappe fondamentali di un’autobiografia intellettuale in cui appunto tutti questi aspetti sono sottaciuti o elisi.
Due
libri recentemente editi da Adelphi possono aiutarci ad abbozzare una risposta:
si tratta di Voci (tradotto da G.
Forti) dello scrittore americano Frederic Prokosch, e di Necropoli del poeta russo Vladislav Chodasevič (1886-1939), curato da N. Pucci e prefato da Nina
Berberova, che fu a lungo compagna dell’autore.
Il
primo è un’autobiografia stranamente formata in gran parte dai resoconti di 50
incontri che Prokosch ha avuto e cercato nella sua lunga vita con ballerine,
tennisti, spie e soprattutto con alcuni dei maggiori scrittori del secolo (Joyce,
Stein, Eliot, Pound, Woolf, Blixen, Nabokov...); il secondo è composto da
magnifici saggi di prevalente taglio memorialistico su protagonisti (Belyj,
Blok, Esenin, Gor’kij...) del grande e drammatico periodo che anche
artisticamente la Russia ha vissuto tra l’inizio del Novecento e l’affermazione
della Rivoluzione d’ottobre. La generazione che ha dissipato i suoi poeti, secondo l'espressione di Roman Jakobson. Pur non dimenticando le notevoli testimonianze e i
curiosi aneddoti di cui sono ricchi (tanto che difficilmente si sbaglierebbe
anche scegliendo a caso: si tratti di Dylan Thomas che si bagna nudo nel mare
autunnale di Ostia, di Brecht che pontifica in uno squallido bar newyorkese o
del vecchio Santayana nel suo convento, in Voci...;
o delle bugie e delle lacrime di Gor’kij, delle equivoche compagnie di Esenin o
dei tanti tragici suicidi in Necropoli),
questi due libri ci interessano qui proprio per il grande spazio che danno alla
figura umana e storica dell’artista e per i diversi atteggiamenti adottati nei
suoi confronti dai rispettivi autori.
Cominciamo
da Vladislav Chodasevič: in Necropoli,
talvolta da conoscente tal altra da amico, ma sempre come critico che conserva
una sua personale visione e capacità di resa oggettiva anche nei momenti di
maggior coinvolgimento, egli narra soprattutto la storia di una generazione,
quella simbolista, che, non ammettendo “che si separassero lo scrittore
dall’uomo, la biografia letteraria da quella personale”, proprio per la
costante ricerca di “una sorta di pietra filosofale” che permettesse di
saldarle finì per tramutarsi spesso in “una storia di vite infrante e di
potenzialità artistiche non realizzate fino in fondo”. Per questo Chodasevič accorda la propria attenzione
anche a personaggi che artisticamente poca o nessuna traccia hanno lasciato di
sé.
“Ricordalo:
comunque sono esistito”, gli dice uno di questi, ed egli se lo ricorda,
consapevole che anche in questi tentativi di legare arte e vita, “in alcuni
casi autenticamente eroici”, sta la “profonda verità, forse irrealizzabile” del
simbolismo. Non per questo però trascura di analizzarne l’equivoco essenziale,
il quale (paragonabile a quello opposto di coloro che considerano l’assenza di
vita come condizione dell’opera, secondo una malintesa santificazione del
modello kafkiano, che di fatto spesso giustifica solo la vuotezza dell’una e la
pochezza dell’altra), consisteva appunto nell’istituire una relazione di
diretta implicazione tra le due realtà, e anzi di reciproca alterna
subordinazione: così, per esempio, “bastava che fosse innamorato, e l’individuo
si vedeva assicurati tutti gli articoli di prima necessità lirica: la Passione,
la Disperazione, l’Estasi” ecc.; e viceversa le tensioni e i contenuti
dell’opera dovevano riversarsi a ogni costo nella vita.
Subordinate
in tal modo l’una all’altra, non è da stupirsi che potessero finir mancate
entrambe. Eppure proprio ciò che i simbolisti russi non riuscirono a
progettare, e nemmeno a prevedere (destino o storia), ha talvolta portato a
compimento quello che altrimenti sarebbe stato solo l’involucro di un
nato-morto, premurandosi di offrire una soluzione alle loro velleità, così
colmandole. Per questo, come forse in ogni opera, anche le speranze dei
simbolisti si realizzarono sotto il segno dell’involontario e le loro vite
diventarono opera solo evadendo i loro progetti, e a noi si offrono sotto un
segno che oltrepassa di molto il patetico a cui sembravano destinate. Grande
merito di Chodasevič è di aver
trovato l’esatta misura per raccontarcele, con una sobrietà che è già e sempre
esercizio di intelligenza, da una distanza che non esclude la partecipazione e
come una testimonianza che scherma con il suo tono oggettivo una personale meditazione
sui territori della morte: Necropoli.
Di tutt’altro tenore sono il discorso e l’atteggiamento di Prokosch, che anzi a prima vista sembrano ridursi a quelli di un sia pure particolare ammiratore di divi. Colpito dai primi incontri infantili con grandi personaggi (specie Thomas Mann, amico del padre), Prokosch dedica parte della sua vita a rinnovarli, registrando fedelmente ogni particolare. Tuttavia presto anche qualcosa d’altro si insinua nel suo percorso ed egli, nei diversi interlocutori e al di là di essi, comincia a cercare “l’artista come eroe, come enigma, come martire, come rivelazione e infine come frammento dell’umanità”. Il viaggio alla sua ricerca, diventato Prokosch scrittore a sua volta, si trasforma inoltre nella ininterrotta formazione del viaggiatore stesso, che si ricerca come individuo e insieme come parte di una forza che lo trascende e di cui è preda (scrive il suo primo romanzo, Gli asiatici, come in trance), ma che intende conoscere e controllare sempre di più per servirla meglio, per rendersene degno. Egli si rende conto cioè di partecipare di qualcosa (l’arte, la bellezza, la creazione) il cui mistero non finisce di stupirlo e di restargli incomprensibile, ed è per questo che cerca di avvicinare coloro che al suo nucleo gli sembra che si siano maggiormente avvicinati. Proprio in quanto tali essi – che sono di volta in volta, o allo stesso tempo, i suoi specchi, gli amici, i modelli, gli eroi e gli uomini nella loro singolarità e estraneità – non solo non deludono mai Prokosch, ma possono a buon diritto, con le loro parole e la loro quotidianità, marcare le tappe fondamentali di un’autobiografia intellettuale in cui appunto tutti questi aspetti sono sottaciuti o elisi.
Ma
se da questi artisti Prokosch ricava indicazioni e suggestioni più o meno
importanti, non per questo si dilegua il mistero inaugurale, che anzi gli
oppone in modo tanto più netto la propria oscurità quanto più viene messo in
chiaro ciò che avrebbe dovuto approssimarlo (ma forse è questo lavoro di
sgombero l’essenziale). Né da essi egli apprende la saggezza che ponga termine
alla sua anche geografica instabilità, che invece gli si rivela parlando con
due vecchietti che non si sono mai mossi dal loro villaggio natale, ma solo
quando egli stesso è ormai pronto a riceverla. Come questa saggezza però, così
anche i risultati di tanto affannarsi non appaiono alla fine particolarmente
sorprendenti, né poteva essere altrimenti in chi cercava da altri una sicurezza
e risposte che non sapeva rinvenire da sé e in sé, né nei testi dei suoi
maestri.
E
tuttavia Prokosch ha imparato certamente più di quanto riesca a dire: lo
dimostrano i suoi romanzi e questo stesso libro. Voci infatti, a uno sguardo più approfondito, si rivela più di una
pur bella autobiografia: proprio l’atteggiamento deferente del discepolo, la
mimesi e l’adesione totale ai vari personaggi e al loro stile, ripreso nei
ritratti e nelle ambientazioni, non solo permettono a Prokosch di praticare
quella forma indiretta di critica che è sempre il pastiche, ma anche di aggiungere surrettiziamente, in alcuni casi,
delle appendici apocrife all’opera dei suoi modelli.
Che
cosa ha dunque imparato Prokosch e dovrebbero imparare quei lettori che ancora
non lo sanno? Che ciò che è misterioso e non si riesce a formulare direttamente
può sempre diventare un’opera e solo in essa manifestarsi; che il frutto della
creazione è più misterioso e molteplice della sua origine, del suo processo di
emergenza e del suo tramite o autore; che la domanda sulla causa è meno
importante e interessante dei suoi effetti; che gli effetti sono la vera causa.
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