4 testi su
Antonio Moresco e una piccola nota finale
1 Clandestinità, Boringhieri, Torino 1993,
p.163
il manifesto 7-10-1993
Ci sono dei
libri che rincorrono il lettore, con modi che possono variare dal servilismo
alla più nobile seduzione; altri gli vanno incontro come a un eguale con cui
discutere e confrontarsi; e altri infine, meno numerosi, che sembrano quasi
difendersene e sottrarsi alla sua vicinanza, disseminando difficoltà e facendo
perdere le proprie tracce non appena intravisti: se uno vuole rincorrerli,
bene; altrimenti poco importa. Una volta raggiunti però, sono quelli che spesso
lo accompagnano più a lungo. Libri pazienti. E' presto per dire se anche a
Clandestinità, opera d'esordio del quarantaseienne Antonio Moresco, toccherà
questa sorte generosa, quel che è certo è che esso rientra di diritto
nell'ultima categoria e che ne condivide molti dei meriti.
Le storie che
Moresco racconta di accattivante hanno ben poco al primo approccio, sono dure,
senza consolazioni, talvolta sgradevoli, come la realtà che guardano con occhio
impassibile e che narrano con voce inflessibile, priva di cedimenti e di
modulazioni. A riassumerle sembrerebbero comuni (più si riassume, più tutto lo
diventa): la scoperta del sesso in La camera blu, il mondo e le fantasie di
un'infanzia orfana in La buca; la fuga continua di un uomo braccato da
ossessioni di cui si ignora l'origine in
quello che dà il titolo al libro; ma poi, guardando più da vicino, di comune
resta ben poco. E da vicino non si può evitare di guardare non solo perché così
esige ogni narrazione, ma perché proprio nella concatenazione di dettagli e
nella scomposizione di azioni e eventi, senza psicologia né concettualizzazioni
o esplicazioni, le storie di questo libro prendono forma. Fatti e cose sono
visti dall'alto e da lontano, da una scala, dagli alberi o dal tetto, o nella
vicinanza intoccabile che permette il binocolo, che frammenta il mondo
dilatandone la mostruosità ma anche impedendo il contatto, riparo dalla
contaminazione ma anche impossibilità di conforto.
L'effetto è
contemporaneamente di aderenza totale e di assoluto distacco: oggettività
radicale dello stile, che non esita a seguire fino al limite, senza remissioni
ma anche senza compiacimenti, le descrizioni e le vicende più scabrose,
riducendo all'osso l'apporto retorico e rifuggendo da ogni simbolismo diretto o
estrinseco(che è poi la strategia migliore per far diventare tutto immagine
secondo modalità dettate dalla sola narrazione); aderenza dei protagonisti,
rispetto ad un mondo in cui si perdono i confini di reale e immaginario e che
si manifesta loro solo col volto della singolarità di volta in volta presente.
Ad essi, che dall'orrore che nei dettagli traspare cercano in tutti i modi di
salvaguardarsi, il distacco non è mai concesso. "La goccia di orina sul
punto di cadere" che brilla
"in fondo al cespo di peli" sotto il "ventre gonfio, deformato
dall'ernia" della vecchia Signorina cieca che vive nella camera blu; la
macchiolina di sangue sul muro della stanza del fratellino o la vita brulicante
nell'universo scatologico della latrina in La buca; i brandelli di un
palloncino scoppiato nella vagina della signora dell'appartamento di fronte e
quelli del cadavere che esplode nella vasca da bagno in Clandestinità, sono
rivelazioni e esiti di un mondo, e di soggetti, rispetto ai quali non ci può
essere una giusta distanza che permetta almeno l'ombra di una visione
complessiva. Non sono nemmeno frammenti di un insieme di cui tentare la
ricostruzione, ma appunto brandelli, frattaglie, scaglie, deiezioni, resti e
frantumi, nauseabondi come i "tumori, polipi, arti amputati, garze
insanguinate e infettate dal pus" che, in La camera blu, il ragazzino vede
bruciare dalle suore nel forno del vicino ospedale, o indecifrabili e
persecutori come i rumori delle tubature e degli appartamenti contigui e gli
sguardi dei numerosi animali che si aggirano per le stanze e i cortili di
questo libro.
Di queste
singolarità sconnesse i protagonisti dapprima, come il bambino del primo
racconto, subiscono il fascino, che è insieme attrazione e paura, meraviglia e sgomento; per poi cercare
confusamente di interpretarle, come fa, senza averne precisa coscienza,
l'adolescente del secondo quando, dai libri che si trova tra le mani, ricopia i
brani più disparati su foglietti che
nasconde, assieme alle pagine del diario, nel cavo di una testa in gesso
del Parini, la cui apertura verrà infine sigillata, e mimetizzata, con una
delle pallottole ritrovate scavando in cortile; finendo tuttavia coll'esserne
ossessionati, come l'adulto del terzo, che si vedrà costretto ad una fuga senza
fine, nella vana ricerca di un luogo
dove abbia inizio "il silenzio" nel quale "scomparire".
Clandestinità
impossibile, che trova un ostacolo insormontabile già nel corpo: quello degli
altri, con le sue manifestazioni spaventose, con le sue deformità e malattie, e
in definitiva con l'orrore della morte che lo infetta dall'origine, e il
proprio, alle cui trasformazioni e necessità i protagonisti non riescono ad
assuefarsi, doppiamente minacciato dall'esterno e dall'interno, perché tutto
può e vuole entrare; poco esce, e ancora con fatica e dolore; il resto è come una
bomba che si accumula dentro. Ogni contatto con l'esterno, e soprattutto con
gli uomini, finisce per rivelarsi doloroso e violento; in ogni caso mortale.
Meglio difendersene allora, starne alla larga. Ma non è così facile; a volte ti
rifugi nel locale della caldaia, ascolti il suo ronron e ti plachi al suo
tepore, ma se ti avvicini ti scotti; un'altra ti trovi a qualche metro di
distanza da una donna su una strada solitaria, vai sull'altro marciapiede per
segnalarle che non la stai seguendo, poi riattraversi quando ti accorgi che il
tuo gesto l'ha impaurita, e quando decidi di sorpassarla per rassicurarla e la
vedi bloccarsi contro il muro: "E' come me! E' come me!", ti accorgi
all'improvviso.
2 Lettere a nessuno, Bollati Boringhieri, p. 280
il
manifesto, la talpa libri, 6-03-1997
Lettere a nessuno, terzo libro di Antonio
Moresco che conferma il suo notevole talento manifestato con Clandestinità e La cipolla (Bollati Boringhieri, ‘93 e ‘95), è una sorta di diario
scritto tra il 1981 e il ’91. La sua redazione è fitta nei primi e negli ultimi
anni, mentre si dirada in quelli tra il 1984 e il 1989, occupati dalla stesura
di un grosso romanzo intitolato Gli
esordi.
Il
diario inizia con queste parole: “Non esisto più per nessuno. Non esiste più
nessuno.” Inizia dunque, e finirà poi, in una situazione di isolamento assoluto
ed è la narrazione dei reiterati tentavi da parte dell’autore di romperlo: al
di fuori, mediante l’invio a varie case editrici dei testi che va scrivendo, e
al di dentro, attraverso le lettere che scrive a coloro coi quali ha condiviso,
direttamente o idealmente, i momenti più importanti della sua vita,
dall’infanzia al seminario, ai due lustri di militanza in “Servire il popolo”.
Ma i destinatari di queste lettere non le riceveranno, e quindi non possono
rispondere, perché alcuni di essi sono nel frattempo morti e con gli altri
Moresco ha ormai troncato ogni rapporto da quando si è allontanato dalla
militanza, mentre coloro che ora, scrivendo, cerca come nuovi interlocutori a
loro volta non rispondono, perché non lo vogliono.
“Non
esiste più nessuno che scriva lettere, non esiste più nessuno che legga lettere
e non esistono neppure lettere. Se si vuole scrivere a qualcuno, bisogna per
forza scrivere a nessuno.” E lui le scrive e continua a farlo anche quando
qualche interlocutore Maria Corti, Fofi, Facchinelli, Raboni...) sembra
disposto a prestargli un po’ d’ascolto, che tuttavia viene subito meno. Parla
dei suoi libri; si assume “la pena” di “doversi da se stesso lodare” e di “mendicare
come un pezzente anche la sola lettura” di essi; si scaglia contro una
concezione epigonale della letteratura e contro i signori dell’industria
culturale; segue la parabola di tanti suoi famosi ex-compagni che hanno operato
più o meno disinvolti cambiamenti di rotta; ricorda il destino di molti anonimi
che invece si sono persi per strada, rinsecchiti, malati, chi impazzito, chi
suicida e chi diventato comune assassino.
Si
tratta insomma di un libro privato, scritto solo per sé con “la mano sinistra”
e del quale solo come tale Moresco ha accettato la pubblicazione, senza
ritocchi né camuffamenti, nella speranza che possa facilitare quella degli Esordi, senza dover aspettare, come con Clandestinità, dodici anni, quelli che
grosso modo coincidono con queste lettere.
Ma
una volta pubblicato il suo statuto cambia, si complica e diventa più ambiguo,
avvicinandosi di più a quello di un romanzo (e così ho il sospetto che abbia
finito per percepirlo anche Moresco stesso). Chi ha conosciuto l’autore in
passato o lo conosce ora, così come chi conosce i personaggi pubblici che col
compaiono in queste pagine o ha vissuto alcuni degli eventi narrati, farà
fatica a districarsi in questa ambiguità, ma è probabile che proprio da essa il
libro tragga parte del suo fascino.
La
scrittura è in presa diretta, come avviene in ogni testo privato che non finga
con se stesso (e questo certo non finge; anzi, la sua sincerità è spesso
“scorticata”, dolorosa in primo luogo già per chi sta scrivendo), e tuttavia è
sempre quella di uno che non scrive occasionalmente, e che quindi non dimentica
mai di star scrivendo (tanto più quando, come Moresco, pensa che le parole,
sequestrate dalla “società della dimensione audiovisiva e dello spettacolo” che
le ha svuotate di senso o viceversa ridotte a “colto colesterolo” da chi “tiene
ferma la distinzione tra «alta» e «bassa» cultura” , “sono un terreno di
guerra” e che ormai si deve lavorare “in una lingua che è diventata una
fessura”).
E
pure la realtà dei fatti riportati è indubitabile, anche se è certo che la
ricostruzione degli anni di militanza (l’occupazione di case a Verona, gli
scontri di piazza ma anche i contrasti con gli altri gruppi, la Bologna del
’77, un campo di lavoro a Cuba...) e l’immagine di alcuni suoi protagonisti
(Leonetti, Brandirali, Bifo, Fiori...) appariranno a qualcuno parziali o
distorte, e comunque troppo legate ad una vicenda personale per poter assumere
una qualche forma di oggettività, ferma restando la serietà della riflessione
di cui sono oggetto.
Ma
è appunto qui che la complicazione fornita dallo statuto romanzesco può aiutare
a leggere queste Lettere. Credo
infatti che la vera storia del libro sia quella di una vocazione che cerca se
stessa in maniera cieca e persino furiosa, aderendo in modo totale ad ogni condizione
che sembra di volta in volta incarnarla, e che poi, una volta riconosciutasi
nella scrittura, affronta l’angoscia di una quotidianità sempre da conquistare,
nell’assenza di ogni riscontro oggettivo nonostante la certezza di aver
incontrato il proprio destino. La sua materia è molto simile a quella degli Esordi, ma mentre in quello tutto appare
trasfigurato e depurato da ogni riferimento realistico o psicologico, qui
l’aspetto autobiografico è dominante, come se Moresco avesse dovuto affrontarlo
di petto per potersene allontanare e liberare prima di intraprendere il compito
che si era assunto per gli anni a venire. Anzi, io credo che abbia dovuto scrivere questo libro per poter scrivere l’altro, anche se poi
questo è diventato un libro autonomo e, aggiungo, di grande valore, che niente
impedisce di leggere come un romanzo. Chi dice io infatti, pian piano per il
lettore acquisisce la fisionomia di un personaggio coerente, dai tratti in
qualche modo dostoevskijani, in bilico tra l’uomo del sottosuolo, preda da
sempre di un senso do “incolmabile esclusione”, e il rivoluzionario che con
candore e fanatismo, anche a costo di qualsiasi sacrificio, segue la strada
degli altri perché vuole essere come loro, salvo poi sentirsi “sempre un po’
come un infiltrato” o trovarsi in uno “stato di immensa solitudine” anche al
primo congresso del partito di cui è
“membro fondatore”, mistico anche nella politica e impegnato a modo suo
nella ricerca dell’assoluto. Tramite le vicende di questo personaggio,
indirettamente, una storia privata finisce per coinvolgere, e in certi casi
travolgere, anche quelle di altri, fino a diventare per certi aspetti
generazionale, ma lo diventa solo in quanto personale, non per la sua
esemplarità. Il mondo da esso descritto è conflittuale, l’opposizione in ogni
caso inconciliabile: “io mi sento in guerra totale con tutto quanto mi
circonda”, scrive, anche se poi aggiunge: “ma lo sono a tal punto da sentirmi,
a volte, quasi in pace con esso.” Col mondo, non con gli uomini, perché con
loro il rapporto resta sempre interrotto. La sua clandestinità è tanto subita
quanto voluta, addirittura cercata a dispetto del dolore che comporta. Solo coi
morti e con gli assenti riesce a parlare, e a esprimere una tenerezza che nella
realtà fatica a trovare sbocchi, perché sembra aver perso ogni speranza (sembra
aver timore) di ogni rapporto coi vivi. Essa deriva sì dalla dissoluzione delle
illusioni, per dirla col suo amato Leopardi, a cui si era votato senza
risparmio, dalle frustrazioni e dai rifiuti ricevuti, ma anche dalla sua
incapacità, preso dal proprio demone, di andare loro incontro, dal suo impulso
a fuggire per sottrarsi al confronto diretto: in tal modo anche la durezza con
se stesso può diventare la via migliore per evitare il giudizio degli altri, l’isolamento
una marca di elezione. Coloro con cui davvero vuole conciliarsi non ci sono
più, gli altri non ci sono ancora. E il resto è sopraffazione. Ma scrivere è
qualcosa di più che tenere una porta aperta, è “opporre la gentilezza alla
sopraffazione”; farsi da persona personaggio e lasciare che un diario si
tramuti in romanzo è esporsi senza diritto di risposta: un atto di coraggio e
di generosità. Un libro che riesce a compiere questa trasformazione merita di
essere letto.
3 - 1998 inedito
scritto
per il manifesto che però per un disguido l'aveva già commissionato a un altro
(Dario Voltolini: bravissimo, e più veloce del sottocritto)
Gli esordi, quarto libro di
Antonio Moresco, è un romanzo che esige dal lettore una grande complicità e
direi quasi un abbandono paziente, generoso, proprio mentre esso sembra non
concedergli nulla, negando ogni allettamento aneddotico, documentario o biografico:
allettamento che poteva invece suscitare, ma si trattava di un falso bersaglio,
il precedente Lettere a nessuno,
diario degli anni che coprono la prima stesura di questo romanzo, la sua
preparazione e le prime reazioni degli editori, e che affronta esplicitamente
la materia qui lasciata in sottofondo.
Eppure
questa materia sarebbe di quelle che farebbero felici i tanti che spasimano per
il vissuto e gli affreschi storici: infatti il libro prima affronta
l’adolescenza del narratore, che passa gli anni del boom economico tra il
seminario e una villa padronale della bassa padana; poi lo segue nella
giovinezza, completamente assorbita dalla militanza politica che sfocia per i
suoi compagni nel terrorismo (Moresco fu tra i fondatori di Servire il popolo);
e infine si conclude con l’adulto isolato da tutto e da tutti negli anni dello
spettacolo, della moda e dell’industria culturale.
Moresco
invece non solo si sottrae ad ogni tentazione memorialistica, ma adotta un
punto di vista risolutamente romanzesco, cancellando o mascherando ogni
riferimento a eventi, luoghi e persone riconoscibili e sgretolando la
narrazione in un nugolo di episodi e frammenti che nulla rilevano delle
convenzioni realistiche.
Ma
è proprio a partire da questo rifiuto, e dalla costellazione concettuale di cui
fa parte, che conviene leggere Gli esordi.
Silenzio, antagonismo, differenza, separazione, alterità e sottrazione sono
esplicitamente già annunciati dalla frase di apertura: “Io invece mi trovavo a
mio agio in quel silenzio”. Io è la
prima parola, ma sarà anche l’unica volta in cui il pronome viene scritto in
tutte le 540 fitte pagine di un libro ricco di personaggi ma tutto focalizzato
sulla figura del narratore; invece è
la seconda, ma inseparabile dalla prima, un ‘invece’ che sembra essere l’unico
elemento che permette di definire questo ‘io’ che nel suo atteggiamento di
fondo resta inalterato pur nel mutare di scenari e attività, sempre vissuti, ma
meglio si direbbe assunti e insieme subiti, con identica radicale intensità.
Più
che un soggetto di, infatti, il
narratore appare come soggetto a,
preda di tre successive vocazioni (religiosa, politica e letteraria) che
corrispondono alle tre scene (del
silenzio, della storia e della festa) in cui il libro è suddiviso, alle quali
egli si abbandona a corpo morto, che però abbandona non appena pronunciato il
‘sì’ dell’accettazione. Le prime due, quanto meno.
Tutte
e tre le scene si concludono con un ‘sì’, ma è un sì che di fatto è un ‘no’:
non per nulla, subito dopo, la scena cambia. Tuttavia, mentre le prime due
volte a pronunciare questo sì che nega è il protagonista (singhiozzando nel
primo caso, e facendo una smorfia nel secondo), in chiusura, a volerglielo far
pronunciare è l’editore, che vorrebbe indurlo nella tentazione di distruggere,
“come se niente fosse”, il manoscritto che gli ha sottoposto, e proprio in
ragione della sua eccezionalità.
Il
libro termina senza la risposta del narratore, e questo silenzio, che fa il
pari con quello dell’inizio, suona come un no che stavolta è un sì: non ci sarà
cambiamento di scena stavolta, l’ultima vocazione è quella buona. Non c’è
bisogno di altre parole perché proprio delle parole egli ora si nutre e perché
proprio il modo in cui ha deciso di assumere le parole è la più decisa
negazione del ‘come se niente fosse’, della sua logica superficiale e
consolatoria che tutti sembrano aver assunto accettando questo o quel sistema
rassicurante di interpretazione della realtà da cui sente di egli sente invece
di essersi distaccato per sempre.
La
presenza solo in filigrana degli eventi non è che una conseguenza di questa
negazione, o meglio del riconoscimento del doppio binario su cui si era
svolta la sua vita fino al momento
dell’ultima decisiva vocazione: quello pubblico, sociale, fatto di atti di cui
spesso non conservava nemmeno la coscienza di averli compiuti, e quello di un
mondo interiore che col primo non riusciva a conciliarsi e che quando
incontrava la realtà era solo come sorpresa e interrogazione, incanto e
sgomento. Quando sente esaurita l’attività politica è per dedicarsi
completamente alla riscoperta e alla ricostruzione di questo secondo binario.
Nella terza scena il narratore ha già scritto un libro, che produce i suoi
effetti nonostante le l’atteggiamento ironico e ostruzionistico dell’editore, e
soprattutto il protagonista ha definitivamente accettato ormai di vivere in una
dimensione in cui realtà e fantasia, vivi e morti, persone reali e personaggi
di invenzione convivono indissolubilmente e si scambiano i ruoli, in un tempo
che contiene tutti i tempi, non come bazar di contaminazioni, ma con scarti,
dilatazioni e accelerazioni che alla fine tuttavia si traducono in un eterno
presente, quello della narrazione.
Allo
stesso modo convivono e si ribaltano in continuazione l’una nell’altra la
visione ravvicinatissima e quella dall’alto e da lontano, grande e piccolo,
infimo e cosmico, repellente e sublime, ma sempre in una raffigurazione di tale
immediatezza percettiva da tramutarsi in visionaria. Tutto sta, anche qui,
nella tensione: tensione radicale di linguaggio che sola legittima,
allontanando ogni patetismo da una parte e ogni ridicolo eroismo dall’altra, la
radicalità delle scelte del protagonista. Appunto da questa tensione derivano
l’inutilità di ogni discorso teorico o astratto e l’impossibilità di leggere
come simboli o allegorie i molti episodi che sembrano alludervi. Narrazione e
descrizione non rimandano ad alcuna trascendenza, fosse pure quella di una
presunta realtà o di un senso ulteriore, ma si pongono come autosufficienti, chiusi
in se stessi. Eppure, se la bellezza di molti passaggi basterebbe a
giustificare questa autocentratura, nondimeno il movimento della significazione
non accetta di esaurirsi al suo interno e esige un’opposta tensione verso il
fuori, anche se destinata come un elastico a tornare al punto in cui è fissata,
o a spezzarsi. La posta in gioco di Moresco è questa, e la sua sfida sta nel
portarla fino in fondo, anche se lui pure forse sa che è impossibile aderirvi
senza mai deviare: atteggiamento a ben vedere mistico, come lo era quello che
aveva fatto aderire il suo narratore alla precedenti vocazioni. La differenza è
che ora, cancellato il rimando ad una realtà trascendente, religiosa o sociale,
la pretesa è quella di non ricorrere più ad alcuna rassicurante ideologia.
L’insensatezza,
prima, consisteva proprio nel desiderio ansioso di inquadrare realtà e vissuto
in un senso ricollegabile a un sistema interpretativo dotato anche solo di
un’apparente coerenza e come tale rassicurante; ma questo finiva per negare qualsiasi
senso che non fosse già predeterminato, così che tutto finiva per “sfarinarsi”,
dissolversi, preda delle fiamme come nell’incendio dei rifiuti nella villa. Ora
si tratta invece, per Moresco, di ricostruire un rapporto col mondo e con se
stessi al di qua di ogni assegnazione precostituita di senso per sperimentare
cosa ne risulta, in un atteggiamento né cieco (ogni scena del romanzo ne ha
uno) né pacificato, ma come “scorticato”, esposto non importa quanto
dolorosamente a ogni forma di contatto. Il romanzo è per lui l’unica
possibilità di questa ricostruzione. Gli
Esordi è la sua risposta a questa sfida.
4 Tavolo
doppiozero,
17-06-2013
Il
tavolo è spoglio, nudo. E’ un tavolo su cui tutto può essere accaduto, o
accadere. Un tavolo su cui qualcuno ha scritto o scriverà. O non farà nulla.
Stenderà le braccia ad angolo acuto, e vi appoggerà il capo, come in certi
disegni di Kafka. L’idea che vuol dare è nessuna idea. Niente. Un tavolo è un
tavolo. Il piano di un tavolo fotografato dall’alto è un piano. Un rettangolo.
Di legno. Un po’ usurato, ma lustro, ben tenuto. Un piano vuoto è un piano mai
usato, o liberato apposta di ogni cosa. La sua dimensione è il ricordo, ciò che
è stato senza quasi lasciare traccia, e l’attesa. Un’attesa senza
determinazione. Assoluta. Che si può benissimo confondere col suo semplice
essere. Con il puro stare.
La
sedia che vi fuoriesce è meno spartana. Il suo schienale è imbottito, a
suggerire che è di qualcuno che vi accomoda spesso. Che vi lavora, probabilmente,
piegato in avanti, e per questo ogni tanto ha bisogno di appoggiarsi
all’indietro, o di stirarsi, e per questo è opportuno che l’appoggio sia morbido.
Non troppo: solo un po’. Il colore è rosa carico, o rosso. Non come il sangue.
Un po’ meno. E’ un rosso a cui è stato sottratto ogni simbolismo. Esso pure
denudato.
Pur
essendo in una stanza di piccole dimensioni, quasi una cella monastica, tavolo
e sedia non sono addossati, e neppure vicini, a una parete: stanno al centro
del suo spazio. Lo occupano. Si stagliano davanti a una porta spalancata, da
cui entra un fiotto di luce che invade tutto. Con un bagliore quasi di
incendio. Sostano, come una sentinella, o un guardiano, davanti alla soglia.
Quella, invisibile, oltre il margine alto dell’immagine, dove i battenti si
uniscono agli stipiti. Quella che separa il dentro e il fuori. La fine e
l’inizio, verrebbe da dire. Ma non è così. Perché è soprattutto il limite che
si oltrepassa, o da cui si passa, verso un fuori che è sempre e comunque un
dentro. Quello della casa.
5 breve nota
la scrivo dopo. Intanto metto queste immagini dell'edizione Bacacay di La cipolla, 1994, fotocopie e cucitura a mano, con immagini originali di Antonio Mottolese, Manuela Sedmach, Marc Fourquet, Lino Gerosa e Luca Pancrazzi, tiratura 1oo copie, fuori commercio (prima che il libro fosse accettato da Bollati Boringhieri)
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