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Lekh
il cacciatore, quando la sua selvatica e forse pazza amante lo evita troppo a
lungo, prende dalla gabbia uno dei suoi uccelli, lo dipinge con i colori più
variegati e lo porta nella foresta. Quando il canto del prigioniero ha fatto
accorrere molti compagni, Lekh lo libera così che possa volare a raggiungerli.
ma se gli altri avevano con sicurezza individuato la voce, non ne riconoscono
ora l’aspetto e prima cercano di emarginarlo, poi a turno lo attaccano fino a
ucciderlo.
È
la sorte a cui tenta di sfuggire lungo tutto il romanzo il protagonista di L’uccello dipinto, un bambino polacco di
origini forse ebraiche forse zingare che i genitori, nel 1939, mandano in
campagna per sottrarlo all’orrore dell’invasione nazista. Se non che, anche in
campagna, non sempre il suo aspetto passa inosservato, e ben presto quella che
doveva essere la relativa sicurezza di uno sfollato protetto dall’innocenza
dell’età, si trasforma in una lunga peregrinazione tragica.
Quasi
mai amato, raramente tollerato o superstiziosamente rispettato, più spesso
oggetto di violenze e persecuzioni, il bambino si trova così ad attraversare
tutto il panorama etnico sociale religioso e politico della Polonia durante i 6
anni di guerra, in una lunga fuga che, se lo ferisce, terrorizza e umilia da
una parte, diventa tuttavia la sua singolare scuola di sopravvivenza e
costituisce infine la sua iniziazione alla vita.
Se
però la crescita del protagonista fa da motivo conduttore e fornisce il legame
narrativo ai vari episodi del romanzo, sono questi nella loro specificità e
autonomia che prendono il più delle volte il sopravvento, come segnala anche il
loro incapsulamento separato in ciascun capitolo. Più che l’elemento della
formazione del bambino cioè, importa la parata del mondo davanti e attorno a
lui, il catalogo tendenzialmente esaustivo degli affetti, ma soprattutto delle
aberrazioni e degli orrori che sfila davanti ai suoi occhi o gli piomba
addosso.
La
presunta innocenza del testimone infantile, l’attenzione costante di colui che
tutto deve osservare per imparare e per difendersi ma che da tutto viene
attratto perché inedito e quindi significativo, sedotto anche, e forse più,
dalle atrocità, favorisce inoltre una scrittura che, lungi dall’attenuare,
intensifica in crudezza la rappresentazione delle esperienze vissute e
immaginate, senza che vada perso, in molti casi, il loro risvolto poetico.
Ne
risulta un romanzo originale e composito: romanzo di formazione in una
struttura narrativa picaresca incentrata sulla classica motivazione del viaggio
(qui della fuga), fortemente delimitata in senso tanto temporale (la durata
della guerra), quanto esistenziale (la contrastata accettazione della vita), ma
altrettanto fortemente elastica nelle componenti interne.
Come
dire che, stabiliti certi confini, si può in un certo senso parlare di tutto. E
di tutto appunto si parla in L’uccello
dipinto: della campagna, della foresta, della montagna e della città; dei
bambini, degli adolescenti, degli adulti e dei vecchi; dell’amore, della paura,
della mostruosità e della pazzia; della superstizione, della religione, del
nazismo e del comunismo; della tenerezza, della sopraffazione, del sesso e
dello stupro. Il limite ideale, ovvero il vincolo teorico della costruzione,
non è che la minuziosa redazione della mappa geografica, umana e immaginaria di
quella Polonia in cui Kosinski (già noto come autore di Presenze, Mondadori, 1980, da cui è stato tratto il film Oltre il giardino) ha vissuto fino a 24
anni, quando nel 1957 si è trasferito negli Stati Uniti.
È
lecito ignorare, o lasciare al discernimento del lettore, se Kosinki abbia
inteso conferire a questo suo romanzo qualche porta metaforica concernente le
contraddizioni del suo paese d’origine e la lunga storia delle violenze che ha
dovuto subire, o se il suo sguardo puntasse oltre, verso una più generale
condizione umana, o al di qua, alla liberazione da fantasmi forse non soltanto
suoi; quel che importa è che L’uccello
dipinto riesca come prima cosa a imporre con forza la ricchezza della sua
letteralità, come difatti succede sin dalle prime pagine. Al pari del bambino,
anche il lettore resta affascinato e insieme perturbato dal susseguirsi degli
avvenimenti, medusato da orrori da cui vorrebbe distogliere lo sguardo e
insieme boccheggiante verso le pause di umanità, e soprattutto verso il
desiderio di liberazione finale.
La
lettura diventa così una specie di coazione a proseguire, coinvolgente come
ormai capita sempre più raramente, ma anche, nello stesso tempo, pericolosa in
quanto distoglie in misura proporzionale dai meccanismo di scrittura e di
costruzione. È facile supporre che questo rientrasse negli obiettivi di
Kosinski, ed è indice del suo valore il fatto che li abbia raggiunti, e
tuttavia non bisogna dimenticare che la lettura si dispiega nel tempo e che
prima o poi il lettore ne emerge, per poco o molto che sia.
Gli
risulta evidente allora che proprio là dove risiede la ricchezza del libro, la
sua varietà, comincia anche il suo limite: saturare la mappa è impossibile e,
se manca o non è abbastanza forte qualche principio di coesione interna, la
collazione dei suoi elementi può diventare arbitraria o meccanica. Se però
vogliamo vedere nell’escalation delle atrocità, e nella loro denuncia (se di
questo si tratta) in alternanza alla poesia e alla tenerezza che forse solo la
natura e l’emarginazione possono offrire, il colante interno, allora risulta un
po’ forzata la conclusione ottimistica, a meno che non si voglia dare troppo
peso agli argomenti della forza della vita che continua e dell’amore parentale,
che banalizzerebbero però gran parte del romanzo, ribaltandolo a loro semplice
complemento negativo.
Ma
certo si tratta di appunti marginali: forse infatti, nonostante ogni desiderio
di razionalizzazione, è proprio nell’infinitezza della mappa, accanto alle già
citate qualità stilistiche e fantastiche , che deriva l’originalità del libro:
il cerchio non si chiude ed è inutile cercarne principi organizzativi, così
come la violenza va al di là di ogni tentativo di spiegazione.
Jerzy
Kosinski, L’uccello dipinto,
Longanesi & C, Milano, 1981
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