Tra
le varie e belle mostre che si possono vedere in questo periodo a Milano, due
in particolare meritano una visita ravvicinata, perché, oltre che presentare
l’opera di maestri peraltro già noti, mi sembra che illustrino alla perfezione
due opposti ma complementari modi di concepire la fotografia. Conviene
cominciare da quella di Alexander
Rodčenko
(1891-1956), non solo per rispetto
della cronologia, ma perché illustra un momento della storia della fotografia
in cui sono evidenti, e significativi, i legami che essa ancora intrattiene con
l’arte (direi “ufficiale”, anche se
trattandosi di un costruttivista ci sarebbero vari distinguo da fare) e
le sollecitazioni positive che da questa parentela, insieme negata e mantenuta,
essa ha ricavato. Questa mostra in particolare ne illustra la varietà dei
rapporti in modo molto efficace.
La
prima cosa che balza all’occhio è l’aria di famiglia che deriva dalla scelta
degli oggetti: ritratti, per lo più di famiglia (di sangue o per affinità),
nature morte (bicchieri, ingranaggi), paesaggi naturali o urbani, composizioni
tendenti all’astrazione, contaminazione con altri generi artistici
(fotomontaggi, collages, design, come le copertine della rivista del LEF, il
Fronte dell’Arte di Sinistra). Per primi colpiscono i ritratti, per lo più di
protagonisti dell’avanguardia artistica sovietica degli anni Venti: Osip Brik e
sua moglie Lili, la moglie di
Rodčenko
stesso Varvara Stepanova, e soprattutto
quelli straordinari di Majkovskij. Ma esaurita questa impressione, accresciuta
dalla curiosità storica e per niente intaccata dalla notorietà di molte
immagini, a conquistare definitivamente l’attenzione è un altro aspetto,
complementare del primo, e cioè che tutto ciò che è fotografato sia in realtà
secondario, non per importanza (ma anche...), quanto perché emerge solo come
effetto.
Guardando
queste immagini di ginnasti, alberi, canali, cantieri e antenne, piazze e
palazzi, scale e scalinate, appare infatti evidente come a
Rodčenko
non
interessino in sé gli oggetti che vengono fotografati e che per lui la realtà,
che certo non sparisce (in una foto è difficile), esiste già in partenza solo
come forma. Ogni cosa, e persino ogni persona e attività umana (in particolare
si vedano le foto di eventi sportivi) è occasione per la forma e soltanto da
essa (dopo di essa) emerge in quanto realtà. Non è la realtà ad avere forma, ma
la forma a indicare la realtà. C’è una grande libertà e inventiva nella scelta
delle angolature, delle distanze, delle luci e delle ombre, ma sempre
sottomessa all’imperativo della forma.
La
pittura non è lontana, anzi è vicinissima, non perché subordini a sé la
fotografia e la definizione stessa della realtà fotografata, quanto piuttosto
perché resta visibile come modello di ciò che la fotografia fa in un ambito puramente
fotografico (sottolineo “puramente”). Le cose, gli spazi, i luoghi e le
costruzioni, persino il corpo umano (se si eccettuano alcuni ritratti), vengono
dopo, affiorano, e si danno a vedere, come una sorpresa, solo dalla forma, e ad
essa di nuovo rimandano, ma non naturalisticamente: come negazione, anzi, di
tutto ciò che rimanda a una presunta visione “naturale”. Del resto, sembrano
dire, anche la visone “naturale” è già “in-formata”, e anzi lo è tanto da far
sparire ciò che vorrebbe mostrare nell’atto stesso di mostrarlo: la visione
“naturale” non vede niente se non se stessa, e quando mostra qualcosa è ancora
se stessa, e la propria cecità, che mostra. Di conseguenza niente viene
fotografato come lo vedrebbe un uomo “normalmente” in piedi, o seduto. Per
vedere in questo altro modo, lo sguardo deve compiere acrobazie, e, di più,
anche il corpo del fotografo, le sue mani che tengono la macchina, la macchina
stessa. Gli esercizi che compiono i ginnasti e gli artisti del circo sono gli
stessi compiuti dal fotografo.
Colpisce,
questo, in un’arte che si vuole materialista (e persino al servizio del
materialismo, nonostante le stupide accuse di qualche funzionario che come al
solito aveva capito tutto), perché qui la realtà immediata (ammesso che la si
possa cogliere nella sua immediatezza) è negata, si è eclissata e ricompare
solo dopo la negazione (ma allora è dialettica!), ma, ripeto, solo come effetto
straniato di una forma. La si riconosce nel suo rimando al mondo solo dopo che
la si è conosciuta nella trasformazione che su di essa è stata operata:
sorprende, perturba, diverte, solo se è “nuova”, cioè solo dopo che si è
lottato con la maschera con cui si offre assicurando che si tratta del viso.
Allora il funzionario, come sempre, aveva ragione, si tratta di formalismo, ma
solo nel senso di una trasformazione che nega il dato attraverso il lavoro
della forma perché non sia più, semplicemente, “dato”. Così si intendeva, una
volta, il materialismo, mi pare.
In
Robert Doisneau (1912-1994) invece (per quanto a sua volta non solo amico e
fotografo di artisti, ma molto più intellettuale di quanto non voglia far
credere; celebre la sua frase: “il fotografo quando scatta le foto deve essere
stupido”, ma solo quando le scatta, non prima né dopo, come chiosa F. Scianna),
non sembra che ci sia preoccupazione artistica (cioè legata a qualche
concezione particolare dell’arte, anche se di solito sono questi i casi in cui
più all’erta deve stare l’attenzione), e la fotografia sembra presentarsi,
nuda, di fronte a un’altrettanto nuda realtà. Nessun virtuosismo esplicito, la
foto sempre centrata sul suo soggetto, per lo più umano: c’è sì una forte
soggettività, partecipe o divertita, tenera o ironica, ma sempre in relazione
al reale, colto nell’istante, che di volta in volta la suscita o ne viene
investito. A volte è colto talmente bene, in modo così “tipico”, da far
sospettare che una tale naturalezza debba essere costruita. E in molti casi
infatti lo è (celebri le storie del bacio più famoso della storia della
fotografia, “il bacio dell’Hôtel de Ville”, e del pittore sul Pont des Arts,
per non dire di certe scene di bistrot,
e della serie “lo sguardo obliquo”, del 1948, vera candid camera
fotografica).
La
naturalezza di Doisneau si rivela quindi “pensata”: le foto costruite non sono
quindi (solo) un gioco momentaneo, e tanto meno un infortunio (alcune delle
migliori non a caso appartengono a questa categoria), ma al contrario rivelano
il meccanismo anche delle altre. E questo meccanismo è di tipo narrativo. Cioè,
come in Rodčenko, anche qui il “naturale” viene negato per essere poi
ricostruito, ma come effetto narrativo e non come shock o forma. Anche la
narrazione è una forma, è chiaro, ma in questo caso è una forma sottile, che si
sottrae, pudica, delicata, anche se non per questo meno forte. Doisneau sa che
l’innocenza non è data, e che proprio per questo va cercata senza ingenuità né
rimpianti, ed anzi con una certa “scaltrezza, con disincanto e con ironia”
(come dice Thierry de Duve in un altro contesto). Le migliori tra sue foto
hanno proprio questa qualità: sono “istantanee” ad alta densità che trasmettono
con immediatezza, al di là dei soggetti scelti (e in certi casi a loro
dispetto), sentimenti che poi si scopre composti di complesse trame di sguardi,
posture ed espressioni, e a cui concorrono con rigorosissima economia
funzionale tutti i particolari che sembrano colti per puro caso, per
l’accidente dell’istante. Così, per un paradosso solo apparente, se in
Rodčenko
le forme rivelano la realtà, in Doisneau è la realtà a mostrare le
forme. I risultati, in entrambi i casi, sono splendidi.
Alexander
Rodčenko,
Fotografie 1924-1940,
Galleria Carla Sozzani, Milano, fino al 14 aprile 1996
Robert Doisneau, Milano, Galleria del
Credito Valtellinese, fino al 20 aprile 1996
1- 5-6 Doisneau
2-3-4 Rodchenko
Nessun commento:
Posta un commento