Stamattina
ho fatto una scoperta: ho scoperto che mi piace scoprire l'acqua calda.
Ma
allora, stamattina, le scoperte sono due!
O
tre: ho scoperto che ho scoperto che mi piace scoprire... e così via: quattro,
cinque; sempre più vuote, infinite, infinite come il vuoto, vuote come
l'infinito...
(Una
delle citazioni in cui mi imbatto più spesso di questi tempi è quella di Nietzsche
sullo scrutare l'abisso e esserne scrutati ecc.: come se ci fosse qualcosa da
vedere. A sentirla, invece di qualche riflessione abissale, mi viene in mente
solo un'immagine, un'immagine vuota, sulla riflessione però: quella di due
niente speculari, che si riflettono e si con-fondono, senza capire la reciproca
differenza, e spesso senza che ce ne sia...)
Ma
torniamo alla prima scoperta, quella che mi ha fatto scoprire che mi piace
scoprire l'acqua calda.
Stamattina
dovevo scrivere una cosa, anzi due, che rimando da tempo; anzi, da cui rifuggo
da tempo: qualcosa da cui continuo a sfuggire come se fosse sgradevole, che mi
raggela, o come si rifugge da un amore infelice (al quale però il pensiero
ritorna sempre, – finché non lo dimentica), anche se nessuna di queste due cose
da scrivere mi raggela o assomiglia a un amore infelice. (Ma allora perché le
ho paragonate? perché assomiglia momentaneamente l'effetto.)
Non
so perché non mi decido a metterci mano per chiuderle; è già tutto scritto:
appunti, scheletro formale, struttura dell'argomentazione... ma non mi decido a
dargli la forma finale. Non mi convince il tono, forse. Forse non ho ancora la
nota, non la trovo: la voce ondeggia, imbocca strade che subito abbandona,
abbozza solfeggi per saggiare, non si sa mai... ma l'orecchio latita, il
respiro non si accorda.
Allora
sono uscito a camminare. Volevo andare più tardi, una volta scritto: ma niente,
meglio uscire subito. Appena fuori casa, ho visto due signori con due giacche a
strisce arancione catarifrangenti, segnaletiche, camminare lungo l'inferriata
di quella che una volta era casa mia, a una decina di metri l'uno dall'altro,
sul lato sinistro della strada, contromano, uniti l'uno all'altro da una lunga
corda bianca.
Ogni
volta che ci arrivo di fronte, cioè almeno due volte al giorno, vedo solo lo
scempio che sta al posto di casa mia, e, sopra, il vuoto che mi ha lasciato,
che abbiamo prodotto non essendo stati capaci di proteggerla. Il resto lo vedo
dopo, se lo vedo.
Così,
per esempio, oggi la corda l'ho vista dopo; e solo in un terzo momento ho visto
che a tenerla, a tenderla in alcuni punti ma lasciandola molle, lasca, in
altri, era un gruppetto di sette o otto bambini.
Fermo
allo stop, con nessuno alle spalle che mi spingeva a partire (a entrare
nell'abisso), ho guardato la fila dei bambini che procedeva irregolare, un po'
ondeggiante, uno che si voltava, l'altra che rideva, e i due uomini ai capi
della corda, e, sorpreso, mi è scesa dentro, nel vuoto dentro, una tenue
dolcezza.
Ecco:
mi si è scaldato il cuore, e la giornata ha preso subito un'altra piega. Buona.
Credo
che sia una cosa diffusa. Chiederò a Achille, che era il capocordata, come si
chiama questa iniziativa e quanti vi aderiscono. Poi mi è venuto in mente che
ho visto anche i cartelli, per il paese. Sì, ho controllato: scandiscono le
fermate del percorso con il relativo orario (8,10... 8,13), il colore della
linea (quella delle mie parti è arancione; lungo la provinciale è viola) e un
fumetto che richiama il nome dell'iniziativa, Il Millepiedi.
In queste vie c'è la fermata dello scuolabus; se passa
anche Il Millepiedi significa che ci sono ancora dei genitori
intelligenti che fanno camminare i figli, che non vedono pericoli a ogni
angolo, che si fidano di persone magari sconosciute e non temono che i figli
prendano freddo o si accaldino troppo. Ma significa anche che ci sono degli
adulti che si offrono per accompagnarli. Quanti sono, gli uni e gli altri? È
più alta la richiesta degli uni o la disponibilità degli altri? Da quanto è in
funzione il servizio? Mi informerò, ma al momento non mi sembra così
importante. Lo è che Il Millepiedi
esista e funzioni bene.
Poi,
più avanti, arrivato al fiume, sono entrato nel regno della rugiada. Le sponde
in ferro e le traversine di legno del ponte, le foglie che le coprivano a
tratti, era tutte umide; la guazza, fitta, era sospesa sull'acqua e si
condensava, cioè sembrava più densa, in lontananza; ma non mi sono soffermato a
ammirare, come faccio di solito; ero impaziente di giungere al prato che si
affaccia sul canale poco prima del ponticello dell'Adda vecchia. Lì, ieri, mi
aveva colpito la rifrazione della luce radente sull'erba nel punto in cui il
terreno si ingobbisce. Avrei voluto fotografarlo, ma non avevo la macchinetta.
Così l'ho portata oggi, ma non era lo stesso: il sole era già più alto, la luce
cadeva e non tagliava; era già diffusa, e soffusa a causa dell'umidità, anche
se un po' di angolazione restava.
Ho
fotografato lo stesso. E mentre mi piegavo sulle ginocchia per accorpare in
un'unica massa i riflessi della rugiada ho visto le ragnatele. Ragnatele di
rugiada; cioè, più correttamente, ragnatele che la rugiada rendeva più visibili
e faceva brillare, come se le disegnasse, e insieme evidenziasse tutta la
mappatura, la cartografia che le regnatele disegnavano sul prato, giù fino la
riva, tese tra filo e filo d'erba, tante, quante non ne avevo mai notato prima,
quante nemmeno immaginavo che ce ne potessero essere in uno spazio tutto
sommato
così esiguo. La rugiada le metteva in evidenza. In un primo momento ho pensato
che fosse la rugiada, da sola, a tracciare percorsi da uno stelo all'altro, a
intrecciare catene di gocce collegate da fili invisibili. A stendere passaggi
sull'abisso dall'uno all'altro; piccole reti sul vuoto che l'erba fitta nasconde.
Brillanti. Fragili, ma su cui si può camminare. O cadere, se si perde
l'equilibrio. Magari tengono.
(Ecco:
non volevo scrivere, e di cose da scrivere, come le sorprese, ne ho avuto due.
E
questa è la terza.)
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