C’è questo mio vago conoscente che non passa giorno
che non si senta in dovere di prendersi cura di qualcosa o qualcuno. Non che lo
voglia, o addirittura lo cerchi: non può farne a meno. Non resiste. Non è una
cura per tutto e per tutti, astratta, indiscriminata (teorica): basta che qualcuno
o qualcosa entri nel suo spazio vitale, e già scatta la molla della
responsabilità. Anche qualcosa di elementare, una bazzecola, un gesto. Roba così. Che poi spesso (non sempre) non riesca a darle uno sbocco
concreto, non fa che aumentare il suo cruccio.
“Smettila di preoccuparti per
tutto,” gli ho detto più di una volta. “Le cose brutte ci sono. Non è colpa tua
se uno perde il lavoro, ha litigato con il fidanzato o la moglie, se non riesce
a risolvere un problema, o ha il mal di testa... Non sei tu il responsabile se
a me le cose non vanno sempre bene o se qualche tuo conoscente, per qualsiasi
motivo, soffre. Smettila!”
“Sì, sì, hai ragione,” risponde lui.
“Lo so anch’io. Lo so...”
Però, dentro di sé, sommesso,
aggiunge: “Sì, lo sono... Lo sono.”
Vedi anche Sì, lo sono. 2.0 (Versione Siddartha).
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