A
tredici anni dalla sua apparizione in Francia e a sei dalla sua riduzione
cinematografica che ha valso all’autore (in collaborazione con B. Queysanne) il
Prix Vigo per la regia, viene ora tradotto nella giovane ma già molto
interessante collana di Prosa contemporanea delle edizioni Guanda, Un uomo che dorme di Georges Perec
(trad. Maria Pia Tosti Croce, Guanda, 1981).
Romanziere
e saggista quarantacinquenne, già autore di una dozzina di opere, Perec si è
imposto in Francia, giustamente, come uno degli scrittori più importanti dell’ultimo
decennio. Da noi non è ancora molto noto, ma si può prevedere che lo diventerà
non appena La vie – mode d’emploi (La vita – Istruzioni per l’uso),
voluminoso e notevole romanzo con cui ha vinto il Prix Médicis nel 1978, verrà
tradotto. Presto, si dice. Ma è consigliabile cominciare già a conoscerlo con
questo bel racconto, anche perché l’unico altro suo libro tradotto (Le cose, Mondadori, 1966) è di difficile
reperimento. Sarebbe però inutile parlarne se tutto si limitasse a questo e il
libro non avesse qualità su, e numerose, come difatti ha.
Alla
vigilia di un importante esame universitario, improvvisamente, senza motivo o
preparazione, un giovane ha “l’impressione dolciastra e soffocante di essere
senza muscoli e senza ossa, di essere un sacco di gesso in mezzo a sacchi di
gesso”, e decide, pur non rinunciando alla vita, di non resisterle e di non
adattarvisi più.
Tutto
il libro è il racconto di questo progetto impossibile di non avere più
progetti, desideri o sogni, di diventare neutro, indifferente, senza
significato e senza verità da trasmettere, come un albero o un oggetto. Senza
essere pressato dall’esteriorità, ma anche senza tutti quei fastidiosi impulsi
che salgono dal corpo e dalla mente a condizionarti, a farti muovere o tendere
a qualcosa, persino a disturbarti il sonno con i sogni. Un sonno da svegli
insomma, ma a occhi chiusi e senza sogni, come quello che il protagonista
indaga, sdraiato sul tavolo della sua minuscola soffitta, all’inizio del
racconto.
Appunto
come avviene nel sonno, ogni investimento viene ritirato dalla realtà, il corpo
è dimenticato o scomparso, e tutto quel che importa ormai è seguire i percorsi
e le metamorfosi delle macchie inafferrabili e inespressive, dei filamenti e
dei bagliori che la pressione delle palpebre o la luce che esse producono nel
buio omogeneo.
Ma
non sono tanto le metamorfosi ad assumere valore, quanto piuttosto
l’omogeneità, che si allarga poi a permeare anche lo spazio concreto in cui si
muove il protagonista: la campagna dove abitano i genitori, ma soprattutto la
città in cui vive, una Parigi vampirizzata di ogni senso e spessore, campo
livellato di pura contiguità di immagini equivalenti che trovano, più che nella
discrezione, nell’elencazione scarna, inqualificata e ossessiva la loro cifra
stilistica esatta.
E
pura successione diventa anche il tempo, che perde quella ritmicità fatta di
discordanze che conferisce la vita, tendenzialmente ridotto a zero dalla sua
perdita di valore, non superato da qualche desiderio psicologico o metafisico,
dimensioni queste del tutto assenti dal testo e dalla sua scrittura.
Non
resta che una parata di gesti, atti, abitudini, luoghi, persone e cose che si
risolvono nel loro semplice essere, nell’essere viste o fatte, che niente nascondono e niente rivelano., né
esistenza né storia: puri simulacri. Non “dicono” più, soprattutto, niente:
riflessi di cui il protagonista fa parte, o vorrebbe far parte, allo stesso
livello di annullamento.
Ma
già il “tu” che regge la narrazione (che sia quello del narratore verso il suo
personaggio o di quest’ultimo a se stesso non importa, dal momento in cui il
primo si è totalmente calato nel secondo), anche se è un “tu” senza passione,
disincantato, di pura constatazione, tradisce l’incongruenza della decisione e
l’esito della sconfitta. Dire “tu” è già aprire un colloquio, fosse pure con se
stesso, instaurare dei soggetti e delle differenze, ciò che mal si combina con
la ricerca dell’indifferenza come passione o come metodo. Così il progetto di
cancellazione del protagonista è già segnato dall’inizio, dal momento in cui
egli comincia a parlare, o a parlarsi.
E
se anche, evidentemente, non è certo la consequenzialità logica di un
ragionamento astratto ciò che gli interessa, il suo tragitto resta pur sempre
quello della dimostrazione di impossibilità già dalle premesse: negarsi
completamente alla realtà per assoggettarla, per costringerla finalmente a
rivelarsi, la allontana invece sempre di più, ma nel senso opposto a quello che
il metodo implicava: “il mondo non si è mosso e tu non sei cambiato.
L’indifferenza non ti ha reso differente”.
Il
disincanto assoluto non ha portato né alla morte, né alla pazzia e tantomeno a
qualche illuminazione o spiraglio di uscita. Il tempo ha continuato a passare e
non ha portato quella risposta che forse conosceva. L’intangibilità che il
protagonista perseguiva, il rifiuto della storia, è diventata la sua storia,
rivelandogli e gettandogli in faccia ciò stesso che, taciuto, incompreso,
rimosso, aveva inaugurato la sua avventura: la paura. La paura tipica dell’uomo
delle città di essere uguale, che lo aveva portato a eguagliare tutto
nell’indifferenza; la paura dell’imprevedibilità del tempo che gli aveva fatto
sperare di poterlo annullare. “Non sei più l’inaccessibile, il limpido, il
trasparente. Hai paura, aspetti. Aspetti, a place Clichy, che la pioggia smetta
di cadere.”
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