Se qualcuno fosse passato dalle nostre parti nei
giorni sbagliati, avrebbe pensato che quest’inverno non ha mai nevicato. E
invece la neve è caduta spesso, e pure abbondante; in certe occasioni anche per
alcuni giorni di seguito, con qualche pausa, ovvero per una sola giornata alla
volta, ma fitta e senza remissione. Sempre però è seguito un rialzo della
temperatura che nelle ultime ore trasformava la neve in pioggia, o che
non le permetteva di ghiacciare o di resistere ai bordi delle strade nelle montagnole
lasciate dal passaggio degli spazzaneve o create a lato di cancelli, garage o
portoni dai badili nervosi e inesperti dei privati cittadini.
E comunque era sempre neve umida, pesante, che anche
quando lasciava le strade presto sgombre, si ammassava sui tetti e sul fogliame
di cespugli e alberi ricoperti di edera e altri rampicanti o sempreverdi, e sui
rami degli altri, soprattutto dove sono più fitti o si biforcano, opprimendoli
con la sua massa pregna di acqua. Miriadi di gocce imprigionate nella rete fragile
e porosa dei fiocchi, che per un po’, o anche per ore, per giorni, riusciva a
trattenerle, resistendo al richiamo della gravità e anzi formando un sostegno
su cui veniva a posarsi quella che continuava a scendere o sarebbe scesa il
giorno dopo, fino a che il peso non avesse superato la soglia di resistenza o
di equilibrio dei supporti. A quel punto di solito l’elasticità dei rami la fa
slittare di lato e scivolare verso il basso, in nevicate posticipate e
circoscritte, mentre a un passo c’è il sole, o l’aria grigia ma sgombra. Ma può
anche capitare che il supporto si spezzi. Più l’accumulo è durato e la
pressione è stata forte, maggiori sono stati i danni.
Mai come quest’anno ho visto tanti alberi sradicati
dal suo peso o piegati con le angolazioni più varie. Mai ho visto tanti tronchi
e rami spezzati, cespugli e rovi e canneti schiacciati a terra senza più la
forza di rialzarsi. La visuale dell’interno del bosco e delle rive del fiume, o
quella della palude dal ponticello o dal camminamento dell’alzaia del Naviglio,
già favorita dal diradarsi invernale della vegetazione, si è ulteriormente
aperta, gli spazi si sono ampliati, angoli nascosti sono venuti alla luce, i
dettagli fatti più evidenti, l’insieme più preciso, il passo più propenso a
rallentare e l’occhio a vagare. E il respiro è diventato più lento, e più
profondo. Come di rinascita, ad accogliere l’aria fresca e lo spazio tutto
attorno, ma per trattenerli dentro, senza nessuna intenzione di restituirli.
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