La
cascina vibra sommessa al passaggio del treno lontano. L’uomo accoccolato
contro la cancellata è morto. Chi passa in bicicletta ne avverte l’assenza e la
interpreta come un indice sicuro eppure confuso di un qualche assoluto: un assoluto
d’accatto. Allora elenca nomi di piante arbusti e erbe, che comunque finiscono
presto. Del resto la casa è vicina. Gli effetti del cielo sull’asfalto sono
poco discosto, alle sue spalle: un’ombra indecisa. Quale consuntivo, la sua
sola ambizione sarebbe sparire senza lasciare traccia. Un bel risultato, a
riuscirci. La donna incinta che lo saluta è stupenda, come se davvero portasse
una nuova meraviglia. Lui muove la testa senza parlare, ancor meno di un cenno;
sorride in ritardo, da solo, nel tempo disidratato. Le case si susseguono a
distanza, in reciproca, disinvolta indifferenza, segno indiscutibile di
signorilità. Indaga con minuzia la strada e i giardini, a pedali fermi. Prima
di ricominciare misura l’inerzia: misera; intanto respira. Un terzetto di
elicotteri passa a media quota senza lasciare traccia, se non il sussulto del
primo frastuono e un presagio incongruo di ritorno. Gli insetti incrociano
distratti pensieri oziosi, pure divagazioni, specie le api, che vedono, e forse
guardano, i raggi ultravioletti, non lui, costretto a procedere a zig zag. Una
macchina bianca, una Cinquecento sopravvissuta, attraversa lentamente la strada
poco avanti, come di routine, e scompare dalla stretta visuale. Immediatamente
però, meno di un istante, ricompare nello stesso punto e riattraversa la strada
nella stessa direzione: un’impresa che certo non prevedeva testimoni. Nessuno
si sorprende, ma il duplice vuoto scavato nel paesaggio rimane e diffonde
un’inquietudine porosa, impersonale. A casa si siede sul balcone che dà verso i
campi e, accesa una sigaretta, segue il fumo che sale. Scampoli di nubi rosa e
viola chiazzano il cielo con impareggiabile sicurezza, come fossero eterne. Lo
sono.
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