Tornando
dal lavoro, in aperta campagna, a un’ampia curva poco dopo un cascinale, vede
già da lontano sulla strada bagnata, proprio al centro della carreggiata, un
animale morto: non riesce a riconoscerlo, ma dalle misure può essere solo un
cane di taglia medio-grossa. Situazione ricorrente che sempre lo trova
disarmato; questa volta però è soprattutto la difficoltà del riconoscimento, lo
stupore di trovarsi di fronte a una decifrazione insieme certa ed evasiva, a
colpirlo, obbligandolo a un diverso regime percettivo. Di solito vede la forma,
da lontano o da vicino poco importa, realizza immediatamente che l’animale è
morto e immediatamente ne distoglie lo sguardo, perché subito l’ha riconosciuto
e ha potuto dargli un nome: cane gatto topo porcospino o altro che sia. Tutto
il resto scompare o viene rimosso; allontana ogni altra parola o percezione. La
cancellazione non dipende dalla velocità, dato che basta un niente per fissare
i contorni dei vari particolari, come se la vista venisse acuita proprio da ciò
che vorrebbe evitare: semplicemente lui non permette alle immagini di fissarsi.
Più che per lo schifo, forse, come per un senso di colpa, di corresponsabilità
che gli piomba addosso inevitabile, quasi che l'inevitabilità renda più
colpevole la concorrenza laterale, più che la cooperazione diretta che non c’è
stata, a quello che egli confusamente considera come un omicidio, per di più
aggravato dall’omissione di soccorso, la sua e quella di tutti coloro che
l’hanno preceduto.
L’animale che sta fissando adesso, invece, si
rifiuta al sollievo del nome, limitandosi a suggerire una forma, come la più
probabile, attraverso la sola estensione dello sfacelo. Per questo gli occhi
non hanno potuto operare la solita manovra diversiva e sono stati costretti a
fissare per tutto il tempo permesso dalla limitata velocità e poi a richiamare
il ricordo ancora più a lungo, come se l’immagine si fosse stampata in modo
indelebile sulla retina. L’assenza di una forma precisa, o piuttosto la non
ritagliabilità di contorni e lineamenti, e la difficoltà di nominare, hanno
cioè permesso alla materialità di presentarsi nell’enigmatica solidità
dell’evidenza.
Vede
perfettamente il pelo, il suo colore nero sena sfumature, la sua lunghezza e
densità, lo spessore; guarda la carne e le sue differenze, dipendenti sì ma
totalmente avulse ormai dagli organi, e il sangue, liquido, compatto e senza
grumi, ridotto a puro colore. Sembra che le interiora continuino a vibrare; le
vede muoversi anche se sa benissimo che la morte non è recente; non solo, ma,
per la fitta nebbia che solo ora va momentaneamente diradandosi, che non una
volta sola l’animale è stato investito, e che lo sarebbe stato ancora. Sente e
vede distintamente, con estrema minuzia e come al rallentatore, tutte le ruote
che lo hanno investito e che lo investiranno, il sobbalzo sempre più leggero
che forse il conducente finirà col non avvertire più, e subito avverte e
reprime un conato di vomito. Sente la sua avanguardia salirgli per la gola fino
a invadere la bocca, in un succedersi di contrazioni di disuguale violenza;
rifiuto e desiderio di assoggettarvisi che dura per alcuni chilometri, fino a
quando, giunto alla zona abitata, non si costringe a sbrigare commissioni
inutili per non pensarci più.
Il
giorno dopo, passando dallo stesso posto più o meno alla stessa ora, per
attrazione e ripugnanza, gli occhi vanno automaticamente e cercare i resti
dell’animale, nonostante, o forse proprio per la certezza di non trovare più
niente, nemmeno una traccia di colore, come sempre avviene. Se non che, alla
stesa identica altezza, sebbene ai bordi e non più al centro della strada, c’è
un altro cadavere: un altro cane, di colore fulvo e di taglia medio-piccola
stavolta, molto simile al suo pensa per un istante, per subito rassicurarsi.
Stavolta perfettamente riconoscibile come cane. Il pensiero del suo e la
coincidenza del luogo lo costringono di nuovo a fissare lo sguardo. Stranamente
ha schiacciato solo il ventre, secondo un’unica e rapidissima traiettoria si
direbbe tracciata con intento geometrico; tutto il resto in un ordine perfetto
che l’assenza di sangue rende quasi irreale. Sdraiato sul fianco destro, con le
zampe rivolte verso l’asfalto, incrociate come le mette il suo quando si gode
il sole, , e la testa, sul ciglio brinato, verso il cascinale. L’orecchio
sinistro, rigido, come gelato, è teso verso l’alto, a un ascolto definitivo che
l’uomo di colpo invidia di non poter condividere.
Immagine: Domenico Purificato - Cane (Cambi casa d'aste)
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