A mezzogiorno il
tempo aveva girato al brutto. La valle, da bianchissima, era passata al grigio,
sempre più scuro nel precoce declino della luce. Poi ci sarebbe stato il buio
più totale. Nero il cielo, nero l’orizzonte, nera la neve per terra, nera la neve
che sarebbe caduta sulla terra nera di neve dal cielo nero. I lavori erano
terminati verso mezzogiorno, così, dopo un veloce rancio sul posto con i viveri
K, seduti sullo zaino protetti dalle pareti della pista che avevamo scavato per
5 giorni, potemmo tornare un po’ prima del previsto al mucchietto di malghe
diroccate che costituivano il nostro accampamento. I più fortunati, tra i quali
io, ci avrebbero messo un’ora, quelli all’altro capo dello scavo, almeno due:
gente scelta apposta tra i più carogna e resistenti, contrabbandieri, papponi,
artisti del coltello, picchiatori non fascisti, anarchici, contestatori e
dissidenti generici e assoluti, ladruncoli, borseggiatori e via a scalare fino
ai mansueti, o presunti tali, come il sottoscritto (presunti da loro stessi,
s’intende). Alle mezzeseghe, o ai mezzo imboscati. I veri imboscati erano
appunto imboscati: non lì e nemmeno nei paraggi.
L’atmosfera era
allegra, perché avremmo potuto riposare e poi dormire un po’ di più. E ne
avevamo tutti bisogno. La partenza era prevista per le 6, ma la sveglia era
programmata per le 4 perché prima c’era la colazione da fare calda e
abbondante, i bisogni da sbrigare, se possibile, intanto che non si era ancora
infagottati e sigillati, l’accampamento da smontare, i muli da accudire e
caricare (e da convincere a ubbidire) e tutta la carovana da organizzare.
Infine si sarebbero avviati ufficiali, sottufficiali, soldati e animali in
sequenze rigidamente prestabilite e da incanalare con i giusti intervalli nella
pista, in fila indiana: tutte cose che richiedevano tempo. Lavarsi non era
contemplato, per quei giorni; inscenarne la pantomima nella neve, in assenza di
acqua corrente perché l’abbeveratoio era ghiacciato, era l’atto eroico dei più
intransigenti, o fanatici, gente che ci teneva a sbandierare la propria
virilità anche in quel frangente dove da sbandierare non c’era nient’altro, o
un gesto aperto di sfida dei più ribelli o dei più cialtroni, a scelta. Io mi
lavavo.
Di farsi la barba
però non se ne parlava proprio: ci sarebbe stata l’opportunità la sera, ma
eravamo sempre troppo stanchi, nessuno si azzardava a mettersi a torso nudo
nemmeno al coperto e non c’era né acqua calda per insaponarsi né corrente
elettrica per i rasoi. Le pile o erano consumate o erano riservate a cose più
importanti: e poi chi aveva rasoi elettrici? Chi era così idiota da appesantire
uno zaino con un rasoio o altra roba inutile? Io avevo tre libri, tra cui il
Fedone, in vista di un esame.
Poi, con una
marcia che, a seconda delle condizioni meteorologiche e di altre trascurabili
varianti, sarebbe durata tra le 6 e le 9 ore, ci saremmo lasciati finalmente
alle spalle quella prima durissima parte di campo invernale. Saremmo arrivati
in una caserma, ci saremmo scartavetrati unto e fango sotto una lunghissima
doccia bollente; avremmo riparato gli abiti strappati o scuciti, e io mi sarei
rasato pelo e contropelo, fino alle radici, asportando anche l’ultimo
invisibile strato di pelle morta, bruciata dal gelo e dal sole, tanto da non
lasciare la minima asperità sulle guance, non rilevabile nemmeno dalla
pressione della carezza più appassionata, benedizione che peraltro non
riuscivo, allora, nemmeno a immaginare.
Prima della
ritirata il maggiore (o capitano o tenente colonnello, o quel che era), ci
illustrò a grandi linee quello che ci aspettava il giorno successivo senza
entrare nei dettagli per non guastarci la sorpresa. Ricordo solo che disse:
“domani sarà una giornata storica”, frase che allora attribuii certamente alla
retorica militare, e che avrei subito dimenticato, come tutto il resto. Come si
dimenticano i dettagli del nulla. Ammesso che ne abbia.
Si riferiva,
l’oratore, se la memoria non mi inganna come fa a volte quando si accosta a
punti dolenti, alla circostanza a suo dire epocale che quello “scavalcamento”
non l’aveva mai tentato nessuno, da anni e anni almeno. Durante la guerra
qualcuno probabilmente l’aveva effettuato, spinto dalla disperazione, braccato
dal nemico, per raggiungere compagni lontani o salvare la pelle (o disertare),
ma non ne erano rimaste testimonianze, e quindi...! L’idea era tutta sua! Aveva
faticato a demolire la resistenza dei generali in capo e dei coordinatori delle
diverse esercitazioni previste per quel periodo; alcuni all’inizio si erano
opposti, altri avevano ironizzato, ma alla fine ce l’aveva fatta. Se i tempi ci
imbandiscono una gioventù di femminucce, invertiti, drogati, lazzaroni e
sedicenti rivoluzionari, noi mostreremo al resto dell’esercito, e al paese tutto,
come raddrizzarli! Come farne dei veri uomini! Dei soldati!, per dirla con una
sola parola. Con la parola definitiva! Così lo aveva sentito vantarsi in mensa
ufficiali il dottore, non appena giunto il dispaccio del comando con
l’approvazione del campo invernale. Aveva ideato lui il tragitto; lui aveva
organizzato le tappe e tracciato sulle carte il percorso, che poi avrebbe
conservato per sempre il suo nome, con il solo aggiornamento periodico del
grado in seguito all’avanzata ineluttabile della sua carriera. Il suo
personalissimo cursus honorum. Il suo gradus ad Parnassum, pace o non pace di
questi tempi infami! Un classico sarebbe diventato! Un passaggio obbligato per
ogni esercitazione dei secoli a venire! Se l’era studiato ben bene, lo
scavalcamento. Non c’è spazio per l’improvvisazione in queste cose. Ci vuole
gente seria e preparata. Gente coraggiosa!
I valligiani e
gli spalloni che stavano servendo la patria nella nostra caserma (che, con
mortificante sorpresa, ho scoperto essere qualificata come punitiva non appena
mi ci sono trovato assegnato, senza avere nessuna colpa da espiare se non
quelle strettamente ontologiche) gli avevano detto che, mentre la prima parte
del tragitto era stata scavata sul versante protetto della valle, la seconda, passati
dietro la malga grande, era tutta sul lato sbagliato della montagna, quello più
esposto, che scendeva a strapiombo senza un’ombra di vegetazione, e quindi più
pericoloso, ma lui non gli aveva dato ascolto. Che ne sanno di sicurezza quegli
analfabeti! Non saprebbero leggere una mappa nemmeno in scala 1:1! E tutto era
filato liscio, che meglio non si poteva. Fino a oggi anche il tempo ci aveva
assistito e avevamo sì lavorato al gelo, ma almeno all’asciutto. All’asciutto
nella neve. Confortati dal tepore dell’astro luminoso!, disse a sigillo
conclusivo. Per saldare la bara dell’orazione. Scemenze così... insulsaggini
professionali.
Il tempo infatti
ci era stato propizio per tutta la settimana, dopo la nevicata della marcia
notturna di 26 km che aveva gloriosamente inaugurato le tre settimane di campo
invernale, e l’altra di qualche giorno dopo quando avevamo raggiunto le malghe
salendo per non so più quante ore fino a quasi 2000 metri, dai 600 della base,
e con i muli da convincere a passare per strettoie che non erano più nemmeno
mulattiere, ma tratturi da capre, tracciati fantasma col terreno scivoloso,
radici nascoste nella neve o appena affioranti a sgambettare gli affaticati e i
distratti, alberi cresciuti di traverso, o piegati o spezzati dal vento o dal
tempo, tratti di strada ai margini di scarpate perpendicolari (“precipizi”
suonerebbe una vanteria), pezzi di obice mal legati che cadevano dai basti,
muli che si ingegnavano a dire la loro, sempre più forte, inascoltati, e anzi bastonati, come i cocchi
di mamma che si lasciavano cadere tra la neve, magari scegliendo accuratamente
dove era più alta e soffice, giurando che da lì non si sarebbero mossi,
sollevati per le ascelle e spinti avanti a calci in culo; mentre io salivo in
tutta scioltezza, il passo elastico e dinoccolato, esibendo un’oltraggiosa
nonchalance. La prospettiva di un riposo più lungo era poi cresciuta di almeno
un’ora in seguito all’arrivo imprevisto alla grande malga superiore, mentre
ancora stavamo ultimando i lavori, di alpini di un’altra caserma, che ci
avevano chiesto di lasciarli passare approfittando dei nostri scavi perché
avevano dovuto modificare all’ultimo momento il loro percorso, pare a causa di
uno smottamento o di una slavina in una valle vicina. Erano più leggeri, senza
muli o pezzi d’obice da trasportare, senza altro ingombro che gli zaini. Alpini
semplici, mica artiglieri di montagna come noi! Se anche fosse nevicato,
avrebbero liberato il passaggio ben prima del nostro arrivo e in più ci
avrebbero pressato con i loro passi la neve fresca che minacciava di cadere già
dal pomeriggio, come effettivamente successe.
Il capitano (o il
maggiore o il tenente colonnello o quell’ecc. che era) aveva fatto buon viso a
cattivo gioco, perché anche lui era stato avvisato all’ultimo momento, con
ordine tassativo di obbedire, e ce lo aveva comunicato senza risparmiare
complimenti sferzanti sul corpo, di cui peraltro facevamo parte anche noi
artiglieri, sia pure in qualità di figli minori (trascurati, reietti!), sulla
compagnia, gli ufficiali e i soldati, che sarebbero poi i meno colpevoli, che
ci erano passati davanti. Non si può organizzare un campo in questo modo!
Arrivare a uno scavalcamento, non si dice senza dottore e infermiere che quelli
va be’, ma anche senza pale e picconi, con l’attrezzatura ridotta ai minimi
termini. Il cervello l’avranno portato o pesava troppo anche quello? Ammesso
che non sia una camera d’aria e basta. Rideva da solo delle sue battute
esilaranti. Con qualche flebile eco dovuta a un paio di ufficiali di complemento.
A crepapelle, rideva. Non ce la faceva a trattenersi. Un peccato mortale, per
un oratore. Va capito: troppa adrenalina. Non avrebbe dormito, sicuro come
l’oro. Ne aveva meno bisogno di tutti, del resto, essendo rimasto nel suo
alloggio in caserma fino al giorno prima e avendo percorso a piedi solo
l’ultimo sentiero.
Speriamo che la
pista non venga rovinata, concluse, dopo aver ritrovato, per un attimo, un po’
di fiato. Alcuni soldati risero. (Lui li guardò stranito.)
Durante la notte
la nevicata si era trasformata in bufera. O così sembrava dai sibili del vento
attraverso le fessure dei muri diroccati e gli squarci del tetto, con folate
che crescevano di intensità e rumore passando dalle finestre vuote e
rimbalzando contro le pareti sconnesse e portavano fino ai nostri nasi e ai
capelli che sbucavano dai sacchi a pelo dei fiocchi la cui origine e entità
nessuno osava verificare, e che si poteva solo immaginare alla debole luce di
qualche pila proiettata contro il soffitto e le feritoie delle finestre tra un
sonno e l’altro, sonni corti, leggeri, subito interrotti dal freddo e
dall’ansia, dal mormorio dei compagni, dai sospiri e da un grido strozzato che
qualcuno non era riuscito a reprimere del tutto o da quelli volontari emessi
ogni tanto dai più furiosi, o dal rivoltolarsi di quelli troppo stanchi anche
solo per assopirsi. Nessuno riusciva a dormire davvero. Ci saremmo alzati tutti
con le ossa rotte, la testa pesante, i muscoli indolenziti, ancora gonfi di
acido lattico non smaltito, imbastiti e legnosi, senza sapere con quali risorse
avremmo potuto affrontare la fatica e lo stress che di sicuro ci attendevano
l’indomani. Avremmo sistemato lo zaino alla benemeglio, strofinato le stringhe
gelate durante la notte per poterle allacciare, e poi ci saremmo infilati gli
scarponi, avremmo indossato il pastrano, bevuto qualcosa di caldo che nel
frattempo qualche santo ci aveva preparato, con i guanti, il passamontagna e il
cappello già addosso, e infine svolto a memoria le nostre rispettive mansioni,
con sicurezza, ginnici!, e ci saremmo disposti in ordine, per essere pronti
senza esitazioni al comando di partenza che sarebbe arrivato ad ora incerta, ma
sempre troppo presto, quando in molti per questo o quel contrattempo non
avrebbero ancora finito di sbrigare i loro doveri e bisogni. Come detto io ero
fortunato perché sarei partito in coda, e quindi avrei avuto una mezz’ora in
più a mia disposizione, ma c’era sempre qualche graduato a farmi fretta, a
ricordarmi che ero come gli altri, come tutti, e anzi peggio di tutti, a
inventarmi lì per lì qualche compito che mi facesse scontare il delitto di
essere come ero: di essere chi ero.
(Continua qui:
http://grazioliluigimario.blogspot.it/2017/02/soldati-morti-quarantanni-fa-2-parte.html)
http://grazioliluigimario.blogspot.it/2017/02/soldati-morti-quarantanni-fa-2-parte.html)
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