Senza
il baseball sarebbe perfetto, confidava con malcelato orgoglio alle amiche,
come a scusarsi della propria felicità. Meno male che un difetto ce l’ha,
pensavano loro celando la propria invidia. Il baseball è la perfezione,
sosteneva invece lui, da perfetto esteta.
Non per niente aveva studiato nella capitale quelle
materie astruse, come le giudicava lei, del tutto estranee alle attività di
famiglia nelle quali era scontato che si sarebbe inserito di lì a poco accanto
al fratello maggiore, ma di fatto, perlomeno i primi tempi, sotto la sua guida
(cioè il suo controllo). Gli studi nella capitale erano stati la concessione
della famiglia alle stravaganze della giovinezza, non era nemmeno pensabile ma
che li mettesse a frutto in una attività autonoma. D’altra parte, secondo il
giudizio unanime, lui non aveva sufficiente carattere per farlo, a prescindere
dalla follia di rinunciare alla ricchezza assicurata dalla famiglia e dal
disonore di cui si sarebbe macchiato (e che soprattutto le avrebbe inferto).
Prima però avrebbe dovuto completare nuovi studi, più utili. E sposarsi (cioè
mettere la testa a posto). La data del matrimonio era stata già fissata per la
primavera dell’anno successivo.
Lei
avrebbe aspettato con pazienza (che altro avrebbe potuto fare?), ma anche con
gioia, l’evento che i suoi genitori nella loro saggezza avevano predisposto per
il suo futuro, una volta tanto venendo esattamente incontro ai suoi desideri
(altrimenti cosa sarebbero stati saggi a fare?). Si preparava alla cerimonia
ripetendo ogni gesto e espressione e parola dei riti tradizionali fino a
raggiungere la perfezione della naturalezza, e pensava al proprio futuro nella
forma della casa che lei avrebbe arredato (contribuito ad arredare, ma
imprimendole sempre più il proprio tocco personale).
La
prima volta che i fidanzati si recarono insieme, con i crismi dell’ufficialità,
nel capoluogo della regione (in treno, perché lui odiava guidare e per nulla al
mondo avrebbe chiesto al padre di usufruire dei servigi del suo autista), lui
insistette per visitare innanzitutto il vecchio stadio della sua squadra del
cuore, che lì aveva vissuto le stagioni migliori. Da quando si era trasferita
nel modernissimo nuovo impianto, era entrata nella mediocrità e non ne era più
uscita (il tifoso se ne frega della nobiltà della sconfitta). Per lui, più che
una visita, quello era un pellegrinaggio; e lei, sia pure con qualche
adattamento, si era sforzata di capirlo (era molto religiosa). Poi avrebbero
dedicato il pomeriggio a un giro esplorativo per negozi e empori, soprattutto
di arredamento, per vedere da vicino alcuni oggetti e mobili che già avevano
individuato nelle riviste specializzate e nei progetti fantasiosi dei
cosiddetti architetti d’interni.
Avevano
deciso che la loro casa, che nei primi tempi sarebbe stato un grande
appartamento con attico in uno dei palazzi di proprietà della famiglia di lui,
se la sarebbero sistemata per proprio conto, senza troppe ingerenze. Avrebbero
consultato i famigliari più avanti, per rispetto, sicuri della loro
approvazione e disposti a concedere qualcosa, purché non stravolgesse l’armonia
complessiva. Lui aveva gusti precisi (roba postmoderna e ultratecnologica),
anche se un po’ troppo radicali per lei, che comunque, avendo ricevuto
un’educazione tradizionale, non si sarebbe mai permessa di muovere obiezioni,
esplicite quantomeno. Col tempo li avrebbe addirittura condivisi: sono i
portati dell’amore.
Lo
stadio, cinto da un obi di strade sopraelevate, sorgeva in un sobborgo
periferico di esemplare squallore moderno, composto quasi esclusivamente da
palazzine per uffici, magazzini, parcheggi, pochi bar e ristoranti, parcheggi
e, nelle viuzze più nascoste, da qualche locale equivoco (quanto mai esplicito,
cioè). La sera il quartiere si sarebbe svuotato come una vescica, per riempirsi
probabilmente, come una vescica, di altre scorie, umane e non; ma di giorno li
accolse quasi festoso, tra strade e marciapiedi intasati da gente indaffarata,
con insegne colorate, tabelloni elettronici e scritte luminose, tra le quali
spiccavano, proprio sopra l’ingresso principale dello stadio che ne era
interamente tappezzato, le sagome al neon di una giovane coppietta sormontate
da una scritta lampeggiante che propagandava casette prefabbricate.
I
fidanzati (lui nascondendo a fatica l’emozione) si fermarono nel piazzale
antistante ad ammirare lo spettacolo imprevisto e a decifrare immagini, scritte
e, lui, l’ossatura nascosta dello stadio, poi, sorridendosi con complicità,
imboccarono la porta monumentale. All’uscita del tunnel c’era un parcheggio che
si diramava a raggiera a partire dall’area vuota di casabase, con le due fasce
centrali che terminavano esattamente dove una volta c’erano la prima e la terza
base. Dietro il parcheggio, protetto dalle gradinate solo in parte smantellate,
c’era un piccolo quartiere di casette prefabbricate addossate l’una all’altra,
di varia forma e grandezza, ma tutte di tipo occidentale (svizzero, bavarese,
mediterraneo, inglese, scandinavo, americano: non c’era che da scegliere).
Lui
rimase come folgorato; lei solo sorpresa, piacevolmente però. Prendendola per
mano, lui raggiunse di corsa il luogo corrispondente al piatto di battuta e vi
sostò immobile e silenzioso per un tempo che a lei sembrò infinito; poi ruotò
un paio di volte su se stesso, lentamente, senza allentare la presa come se
stringesse una mazza, per avere una panoramica completa dell’interno dello
stadio (costringendola in tal modo a ruotare attorno a lui con passettini goffi
che la fecero arrossire) e infine, come uno che abbia preso una decisione
repentina ma definitiva, puntò con passo risoluto verso le villette e, scortato
da un venditore che si era immediatamente quanto cerimoniosamente avvicinato,
la costrinse a visitare tutto il quartiere nel dettaglio.
La
visita durò tre ore: lei ne fu prima divertita, poi incantata e infine
sfiancata, ma sempre confusa. Mentre passavano da una casetta all’altra,
ciascuna arredata con mobili in stile ma con qualche concessione alle
consuetudini nazionali, lui si informò sui prezzi, le condizioni di vendita, la
tipologia degli acquirenti, le differenti possibilità di combinazione delle
componenti prefabbricate e i problemi relativi al loro trasporto, con un tale
enigmatico puntiglio che a un certo punto il venditore, disorientato, fu
costretto a chiamare il suo superiore, sia perché non era in grado di
rispondere a molte domande, sia perché anche lui aveva cominciato a porsene su
quello strano cliente, se mai lo era, e a chiedersi perciò se era il caso di
fornirgli anche le risposte che conosceva. Dopo aver parlottato brevemente con
il visitatore, il capo disse al venditore di offrire un tè (o una coca) alla
signorina e si chiuse con lui nel piccolo cubo dell’ufficio, dove rimasero
un’oretta a discutere. Uscirono entrambi sorridenti, lui con una cartelletta
ricolma di fogli e depliant.
Dopo
un breve spuntino, non rimase molto tempo per i negozi, ma non importava: lui
era allegro, la faceva ridere e la sommergeva di regalini; lei pensava a quale
delle casette avrebbe preferito abitare e quale era piaciuta di più a lui, che
si era soffermato a lungo in una piuttosto grande, di modello americano, in
fondo al quartierino, appena sotto le gradinate. Ma poi non le aveva detto
niente: forse aveva già una idea sua e voleva farle una sorpresa.
Alla
stazione, lui fu tentato di fermarsi a dormire in città per assistere alla
partita della sua squadra, che in quel turno avrebbe giocato di sera, e farla
partire da sola (che si fermasse a dormire anche lei era fuori discussione), ma
bastò una breve riflessione a convincerlo che non era il caso di metterla in
imbarazzo, e tantomeno di rovinare una giornata perfetta con l’amarezza finale
di una sconfitta certa. Così salì sul treno assieme a lei, che, esausta, dormì
per tutto il viaggio.
Nelle
settimane successive lo vide poco: era sempre negli uffici direttivi del gruppo
di famiglia a rovistare negli archivi informatici, a studiare mappe,
capitolati, liste clienti e bilanci, e a seguire nelle loro differenti mansioni
il padre e il fratello, che non sapevano come spiegarsi tanta improvvisa
dedizione. Alla fine chiese loro un colloquio formale e, col sussidio di
tabelle, grafici e animazioni digitali, illustrò agli stupefatti famigliari
come fosse arrivato alla conclusione che le loro attività, soprattutto quelle
immobiliari, potevano espandersi notevolmente grazie alla saturazione del
mercato metropolitano e al prezzo ormai folle raggiunto dalle abitazioni, per
tacere del degrado della qualità della vita. A suo parere il numero dei
cittadini che nell’immediato si sarebbe trasferito in provincia, per scelta o
per necessità, sarebbe aumentato in misura esponenziale e il loro dipartimento
sarebbe stato una delle mete privilegiate, in virtù dello sfruttamento ancora
limitato del territorio e dell’abbondanza dei servizi e delle comunicazioni.
Per non parlare delle bellezze del paesaggio, a cui i connazionali erano così
sensibili. Pertanto si rendeva indispensabile creare una succursale in città
che si dedicasse alla ricerca di alleanze imprenditoriali e commerciali, alla promozione
e alle relazioni sociali, e lui propose che gliene fosse affidata la direzione.
In merito aveva già delle idee che tratteggiò in modo sintetico, fermo restando
che ogni decisione sarebbe stata rimessa al consiglio direttivo (in pratica
all’arbitrio paterno).
Padre
e fratello, colpiti dalla sua intraprendenza e dalle ragioni che aveva addotto
mettendo finalmente a frutto la sua immaginazione su problemi concreti, avevano
accondisceso con sollievo, quasi con commozione. Al padre, che proprio perché agnostico
si dilettava a leggere classici delle religioni, tornò alla memoria la parabola
del figliol prodigo; in ogni caso, per alleviarlo dalle incombenze pratiche e
fornirgli il supporto tecnico indispensabile (per controllare che la sua testa
balzana non si risvegliasse di punto in bianco con sorprese sgradevoli), gli
avrebbe affiancato come vicedirettore un uomo di fiducia.
La sorpresa venne più avanti, quando, organizzate
infrastrutture e maestranze e avviata in modo alquanto promettente l’attività,
ed essendo il matrimonio imminente, si pose il problema dell’abitazione
cittadina per la nuova famigliola. Lui era stanco della spola settimanale,
voleva ragionevolmente avere la moglie accanto e, altrettanto ragionevolmente,
non si sarebbe più adattato a vivere in un albergo, per quanto lussuoso:
dichiarò che voleva affittare una delle casette dello stadio e che non si
sarebbe accontentato di nient’altro. Le casette, per la verità, servivano solo
da dimostrazione e quindi non erano in vendita né tantomeno potevano essere
affittate, ma l’ostacolo, disse, si poteva aggirare approfittando delle
conoscenze che aveva stretto nel settore e proponendo un affitto alto (per il
momento, preferì tacere di avere acquistato in borsa con buona parte del
patrimonio personale una quota, non grande ma significativa, dell’immobiliare
che costruiva le villette). Se qualcuno avesse veramente vissuto in una di
esse, spiegò ai responsabili (che invece aveva messo a conoscenza della sua
partecipazione), i visitatori avrebbero potuto verificarne la comodità e la
funzionalità; la moglie non avrebbe rifiutato di far entrare nella loro
abitazione chi lo avesse richiesto e inoltre, di notte, loro avrebbero fatto in
un certo modo da sorveglianti permanenti, in aggiunta a quelli dell’istituto
privato, che però si preoccupavano soprattutto di fare la ronda attorno allo
stadio.
Insomma,
la cosa andò in porto e, celebrate le nozze, i due si trasferirono proprio
nella villetta a ridosso delle gradinate in cui si erano soffermati in
occasione della prima visita, rinunciando a ogni progetto di nuovo arredamento
e accontentandosi di migliorare quello già esistente. Le giornate passavano
tranquille: lui nei suoi uffici, dove dimostrava in modo sempre più convincente
la bontà delle sue intuizioni; lei nella casetta, dapprima un po’ sola e
intimidita, poi felice delle amicizie con venditori e impiegati e squisita nel
ricevere i pochi visitatori che avevano l’ardire di chiedere di entrare. Tra
l’altro, anche l’idea di mostrare concretamente l’abitabilità del prodotto si
rivelò eccellente: le vendite aumentarono e con esse i guadagni suoi e della
famiglia perché, una volta verificata la bontà della sua intuizione, non solo
aveva informato la famiglia della sua partecipazione nell’immobiliare, ma
l’aveva anche indotta a stringere degli accordi per la compravendita dei
terreni e la commercializzazione nella provincia.
La
sera gli sposini restavano soli, a parte la comparsa sporadica delle guardie
che ogni tanto davano un’occhiata anche all’interno, ma si guardavano bene dal
disturbarli se non espressamente invitati. La primavera era al colmo della sua
perfezione, la temperatura era mite e lui, quando non uscivano, la portava nei
vari settori delle gradinate e le raccontava delle partite a cui aveva assistito
in compagnia del padre o del fratello, ne ricordava con precisione fiamminga
ogni dettaglio e momento, le illustrava i momenti decisivi delle serie di
playoff e finali, che conosceva a memoria per averne visto e rivisto le
registrazioni, le specificava la disposizione dei giocatori, i nomi, i ruoli,
le qualità, i numeri e le statistiche, mimando i gesti più spettacolari, le
salvezze più acrobatiche e le battute di sacrificio, indicando la traiettoria e
la velocità degli strike, la direzione e la lunghezza delle valide e
soffermandosi a illustrare in tutta la loro gloria i fuoricampo più
spettacolari (tutti).
Talvolta
scendevano nel quartiere e lui si fermava tra i vialetti o entrava nelle case
per segnalare i punti esatti delle eliminazioni al volo o dove era caduta la
pallina che aveva permesso ai corridori di portare a casa i punti decisivi. Nel
farlo, come preso da sacro furore o perso in contemplazioni estatiche,
aggiungeva considerazioni che sembravano non aver nulla a che fare col gioco (e
che lei comunque non capiva: né in un senso, quello letterale, né nell’altro,
qualunque esso fosse) e ogni tanto la abbracciava; e non era raro che la
tenerezza si tramutasse in ardore, che spesso veniva spento sul posto,
giardinetto, stanza o marciapiede che fosse.
Lei
ne era estasiata. Era come se la passione che animava il marito e che aveva
impregnato lo stadio lungo tutta la sua storia fosse tornata a sprigionarsi e a
circolare in lui, con un flusso ininterrotto, da un aspetto della sua
personalità e dei suoi pensieri a ogni altro, e quindi da lui a lei e da
entrambi ai luoghi in cui vivevano e si amavano per tornare ampliati allo
stadio stesso, che all’inizio le aveva trasmesso un senso di solitudine e di
smarrimento, mentre ora le appariva come un meraviglioso hortus conclusus,
un’isola incantata da cui il mondo si allontanava con uno schiocco di dita, un
cosmico ventre materno a cielo aperto.
Per
lui lo stadio non aveva misteri. Fin dai primi giorni, quando aveva qualche
momento libero, aveva cominciato a perlustrarlo in ogni angolo: conosceva gli
scantinati, le rampe che portavano ai diversi ordini di sedili, i sottoscala e
i corridoi sotto le gradinate, i magazzini e gli spogliatoi, i locali che erano
serviti da bar e da rivendite di ricordi e gadget, quelli del piccolo museo con
i trofei, le foto e il composito reliquiario che testimoniava della storia
della squadra, ogni bugigattolo, per quanto minuscolo e mimetizzato, dove
venivano ammassate scope, stracci e detersivi, tubi di gomma, materiale di riparazione
e attrezzi per accudire il terreno da gioco. Ogni volta tornava con qualche
piccolo trofeo: una pallina, biglietti e depliant delle stagioni più disparate,
cappellini, parastinchi, frammenti di mazze, che poi ripuliva, stirava,
classificava in raccoglitori o incorniciava per esporli sulle pareti del
salotto o della stanza, o, i più preziosi, in un tokonoma che aveva
personalmente costruito contro l’unica parete cieca del salotto, curando con
devozione ogni dettaglio e ricercando le stoffe più raffinate, che cambiava a
seconda dell’oggetto esposto, accompagnato da calligrafie eseguite di suo
pugno, alle quali dedicava intere serate di esercizio (perché non potevano
essere meno che perfette).
Ogni
tanto, nei weekend, lui invitava vecchi compagni di studi o di passione con i
quali imbastiva delle partite nello spazio deserto del parcheggio. Equipaggiati
di tutto punto, segnavano con il gesso le basi, creavano un provvisorio monte
di lancio spostando con una carriola detriti e sabbia e giocavano per tutto il
pomeriggio, fino allo sfinimento, tra discussioni di ogni genere e un
ragguardevole consumo di birra. Il fatto che talvolta una palla finisse tra le
case, di cui si erano premurati di chiudere le imposte, non faceva che rendere
il gioco più complesso e divertente, dando il via a nuovi ricordi e a scherzi
che i giovanotti trovavano divertentissimi. Intanto dalle gradinate lei, in
compagnia di mogli e fidanzate, faceva il tifo da vera esperta e poi preparava
la cena, che si sarebbe protratta fino a notte inoltrata. Capitava anche che
qualche coppia si fermasse a dormire in qualche casetta, con la clausola di
rassettarla alla perfezione prima di lasciarla.
Passarono
così due anni e i due già cominciavano a pensare a un figlio che suggellasse
con un supplemento glorioso la perfezione della loro unione (perché non è vero,
diceva lui, che la perfezione, bastando a se stessa, si chiude soddisfatta a
quanto la circonda: al contrario, trabocca senza venir meno), quando giunse
l’ordinanza comunale di sgombero perché lo stadio doveva essere smantellato.
Era noto anche a loro che il contratto di affitto dello stadio era a termine,
ma, nonostante l’immobiliare avesse già predisposto lo sgombero e trovato nuovi
spazi di esposizione, gli sposini ne avevano rimosso persino l’idea.
Cercarono
in tutti i modi di allontanare la minaccia, ma alla fine dovettero cedere e
tornarono in provincia, dove intanto, a loro insaputa, i famigliari avevano
fatto costruire una copia perfetta della loro casa nel terreno più suggestivo
delle loro proprietà, sul prestigioso “declivio degli aceri”. Lui però rifiutò
di metterci piede: non voleva che la nuova vita fosse una replica tristemente
imperfetta della vecchia; per la casa trovò senza difficoltà un acquirente e ne
scelse una del tutto diversa e molto più ampia.
La
vita sembrò riprendere il suo tran-tran, per quanto più attutito (ma sempre
felice): lei si dedicava alla cura della nuova abitazione che si riempiva
spesso di parenti e vecchie amiche in precedenza un po’ trascurate (colpa della
distanza), lui si recava in città al mattino e tornava a tarda sera. A volte
doveva trattenersi più a lungo per i molti impegni, e allora si fermava a
dormire in un hotel nei pressi dell’ufficio. Ogni tanto sentiva il desiderio di
andare a vedere come procedeva lo sgombero dello stadio, ma si faceva forza e
se ne teneva lontano.
Una
settimana rimase in città tutte le notti e non tornò a casa nemmeno per il
weekend. In ufficio non rispondeva, all’hotel dissero che, pur non avendo
disdetto la camera, non lo vedevano da mercoledì mattina e che il suo cellulare
risultava sempre spento. La moglie, preoccupata, chiamò il cognato, con il
quale era entrata in affettuosa confidenza, ma sia lui sia suo padre non
avevano notizie da qualche giorno e persino i collaboratori più stretti e la
segretaria non sapevano che cosa dire. Comunque non era il caso di
preoccuparsi, si affrettò ad aggiungere il fratello: forse lui le aveva
accennato qualcosa di sfuggita e aveva dimenticato di darne conferma (ma il
primo pensiero di tutti fu un’amante); forse gli si era presentata
l’opportunità, allettante quanto improrogabile, di un affare in cui si era
gettato a corpo morto; ormai doveva essere abituata alle sue intuizioni
improvvise che talvolta lo assorbivano tanto da fargli dimenticare tutto e
tutti: probabilmente sarebbe spuntato da un momento all’altro, come se niente
fosse. La convinsero ad aspettare il lunedì senza lasciarsi prendere dal panico
(e intanto già pensavano a mettere in moto con discrezione una ricerca
capillare, a 360 gradi, come si espresse il padre).
Il
lunedì lui non aveva ancora dato sue notizie e non si presentò al lavoro. Lei
si ricordò dello stadio e suggerì di cercarlo lì. Allo stadio, però, il
caposquadra della demolizione affermò con sicurezza di non avere mai visto
estranei all’interno del cantiere; del resto, l’ingresso era proibito e la
sorveglianza continua, specie nei giorni che avevano preceduto lo
smantellamento delle tribune con cariche esplosive. Un’ultima ispezione
minuziosa era stata effettuata prima di far brillare le cariche. L’implosione
aveva avuto luogo senza incidenti il giovedì prima: uno spettacolo grandioso
che era stato trasmesso anche nei notiziari televisivi.
Dello scomparso non si ebbero più
notizie, ma pare che nello sgombero, tra le macerie destinate alla costruzione
di un nuovo molo nel porto cittadino, un ruspista abbia intravisto, nella benna
gigantesca che stava scaricando su un camion pronto a partire, un guantone
impolverato che teneva una pallina e, dentro il guantone, una mano e un
avambraccio, bianchi, forse di gesso; ma era uno che beveva e l’aveva
raccontato, come se fosse stata una fulminea allucinazione, solo ai compagni
più fidati nella festicciola di chiusura dei lavori. Nessuno gli aveva creduto.
La giovane abbandonata, o vedova che dir si voglia,
dopo un paio di settimane scoprì di essere incinta. Nei primi tempi, quando
ancora tutti speravano che il marito tornasse da un momento all’altro, i
suoceri e il cognato (celibe) le furono molto vicini, e ancora di più quando
diede alla luce un bel maschietto. Trascorso il tempo legale perché la
scomparsa fosse riconosciuta come definitiva, ma previo prudenziale divorzio
(non si sa mai), il cognato le chiese se voleva sposarlo. Lei rispose di sì:
per il bambino era come se già fosse il padre. E poi era una persona molto
tenera, praticamente perfetta, se si escludeva una certa passione per il poker.
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