I
profeti arrivano alla spicciolata. Sono quasi tutti a piedi e soli, facilmente
riconoscibili dagli abiti lunghi e sgargianti nonostante la polvere che li
ricopre. Sbucano a intervalli irregolari dalle viuzze che immettono
sull’immensa piazza in gran parte sterrata, stanchi e accaldati; eppure tutti,
anche i più anziani, hanno un portamento eretto che promana dignità.
Se
qualcuno maledice i responsabili che hanno organizzato il congresso proprio nella
stagione più afosa, non lo lascia trasparire. E dire che ne avrebbero tutte le
ragioni, specie coloro che hanno dovuto, o voluto, compiere il lungo viaggio
nel modo tradizionale, al massimo approfittando per brevi tratti di qualche
dromedario o dei poveri mezzi di fortuna, un carro o una motoretta, che ha
talvolta offerto spontaneamente gente di buon cuore che ignorava chi fossero. I
più fortunati avrebbero potuto farsi portare dalle loro limousine o dai taxi ad
aria condizionata fino all’ingresso del Grand Hotel, ma quasi tutti hanno
preferito scendere qualche centinaio di metri prima e fare l’ultima parte del
tragitto a piedi, in omaggio ai colleghi meno abbienti, o forse per vergogna o
per dissimulata ostentazione. Li si distingue perché indossano scarpe o sandali
nuovi e sono senza bagaglio, che gli autisti e i segretari stanno scaricando
nel frattempo all’ingresso posteriore o direttamente dal parcheggio
sotterraneo, mentre gli altri portano una sacca a tracolla che contiene tutti i
loro averi e, se non sono a piedi nudi, hanno sandali consunti e un lungo
bastone al quale spesso si appoggiano.
Io
sono qui già da qualche giorno e, quando non accompagno il mio vecchio maestro
in giro per la città, me ne sto sotto una tettoia di lamiera a distanza di voce
dall’albergo, per ogni evenienza. Intanto ne approfitto per guardarmi attorno e
imparare. Il mio maestro mi ha promesso che, quando saranno avviati i lavori,
troverà il modo di farmi entrare ad assistere, adducendo il motivo che lui, a
parte le sacre scritture che peraltro conosce a memoria, rifiuta di leggere
alcunché, infischiandosene del rischio di passare per analfabeta. Inoltre ormai
è quasi cieco e ha bisogno di me si può dire ogni momento, anche per cose che
fino a poco tempo fa si arrangiava a sbrigare da solo. Secondo me, ultimamente
è diventato un po’ pigro, con la scusa della vecchiaia; ma può anche darsi che
lo faccia per ammaestrami, dato che di carattere, a suo modo di vedere, sono un
po’ troppo baldanzoso e tendo spesso ad alzare la cresta. Senza contare che
sono molto attratto dalle grazie femminili e mi lascio facilmente distrarre da
tutto, debolezza che, proprio perché avrebbe dovuto indurre il maestro a non
prendermi nemmeno in considerazione come accompagnatore, sospetto sia invece stata
la ragione per cui mi ha scelto tra i tanti: da una parte come una sfida e
dall’altra perché la mia curiosità lo esime dall’esercitarla lui.
Quando
dico che mi ha scelto, lo intendo alla lettera, perché io a tutto pensavo meno
che a intraprendere questa professione (come qualsiasi altra, del resto),
talmente imprevedibile che mia madre, che Dio la benedica sempre, venutolo a
sapere non la smetteva più di piangere dalla gioia (dalla gioia di avere una
bocca in meno da sfamare, oltre che dal prestigio che proprio io, il più
fannullone dei suoi figli, mi sia meritato, chissà come, un tale privilegio).
Io me ne stavo all’ombra con gli amici a ridere dei candidati che facevano la
fila davanti al sant’uomo, enumerando i propri meriti e le proprie conoscenze.
A un certo momento mi deve essere scappata una battuta a voce troppo alta: è
stato allora che il maestro, che in precedenza aveva fatto mostra di non
accorgersi nemmeno dei nostri schiamazzi, ha levato gli occhi verso di noi e,
rivolgendomi uno sguardo sornione ma benevolo, mi ha chiamato e, tra la
sorpresa generale, ha detto senza possibilità di replica che ad accompagnarlo
nel suo lungo viaggio sarei stato io e gli altri andassero pure in pace, con la
sua benedizione.
Lì
per lì, «Manco per sogno» ho detto io, ma subito un energumeno mi
ha afferrato per le ascelle e mi ha trasportato come un vitello sacrificale
attraverso la piazza, tra la gente che si scostava intimorita, fino al cospetto
del maestro. Per la sorpresa, non ho neppure tentato di ribellarmi e, quando il
bestione mi ha lasciato cadere all’improvviso, è bastato un calcetto allo
stinco perché crollassi in ginocchio. Il maestro mi ha fatto cenno di alzarmi,
mi ha chiesto nome e patronimico, si è informato della mia famiglia, età e
studi (più o meno zero), e, dopo avere affermato solennemente che proprio me
cercava, si è fatto guidare accompagnato da mia madre (essendo mio padre
scomparso, sempre alla lettera, ancora prima della mia nascita, al pari dei
padri dei miei altri fratelli) per chiederle formalmente il permesso di
portarmi con sé (come se ce ne fosse bisogno).
Quando
mia madre lo ha visto venire verso la nostra capanna in mia compagnia, seguito
da un imponente corteo che comprendeva tutti gli abitanti del villaggio,
nessuno escluso (con le sue comari più perfide in prima fila), e in aggiunta
parecchi forestieri, gli è corsa incontro e si è gettata ai suoi piedi,
chiedendo perdono di qualsiasi cosa potessi aver combinato. Perché sarei un
bravo ragazzo, in fondo. Quando è venuta a sapere che ero stato prescelto come
accompagnatore (né servo né discepolo, o entrambi: tanto è lo stesso), è quasi
svenuta e ha coperto di lacrime e di saliva i piedi sudici e callosi del
profeta, che prima, credo, avrebbe al massimo sfiorato con le labbra per puro rispetto.
“Che schifo!”, ho pensato, e mi sono messo a ridacchiare. È così che mi sono preso il mio primo
scapaccione.
Ma
lasciamo perdere, perché se comincio a raccontare di tutti gli scapaccioni non
finisco più. Dovrei raccontare dei lunghi mesi di cammino, dei luoghi che
abbiamo visto, delle persone che ci hanno accolto o osteggiato, e persino di
quelli che ci hanno deriso suscitando da parte mia reazioni rabbiose che solo
un ennesimo scapaccione era in grado di spegnere. Sono stati i rischi per la
mia incolumità scatenati da queste reazioni che ci hanno costretto a accelerare
il cammino, mentre invece proprio presso i più ostili avrebbe voluto
soffermarsi più a lungo il mio maestro, sa solo lui il perché. Così siamo
arrivati in città con largo anticipo, per la gioia del sottoscritto che un
luogo del genere non solo non lo aveva mai visto, ma nemmeno nelle fantasie era
mai riuscito a immaginarlo con qualche approssimazione.
Non
avevamo ancora messo piede tra le baracche della periferia che il mio maestro
aveva già incominciato a parlare con tutti quelli che incrociavamo. Lui non
predica: rivolge la parola al primo che passa e, dopo un po’, ad ascoltarlo,
cioè a parlare con lui, si forma sempre un capannello che cresce via via, con
gente che si ferma ai margini per sapere cosa succede e poi spinge per vedere
di persona e partecipare direttamente alla discussione, o solo per toccare gli
abiti del maestro.
La
tecnica è tanto semplice da capire (se ci sono riuscito io…) quanto difficile
da applicare: il volpone si limita a chiedere alla gente come sta e come vanno
le cose, dov’è il mercato e se c’è modo di guadagnare qualcosa per un giovane
robusto (il sottoscritto), evitando di mostrarsi troppo impiccione. Visto che
non si vuole fare i fatti loro, tutti rispondono con piacere, perché una parola
a un vecchio viandante non si nega mai, specie se dall’aspetto insieme ascetico
e bonario come il suo, e, poiché lui ascolta con attenzione e ride a tutte le
sciocchezze che gli raccontano, prima o poi tutti si lasciano andare e
scodellano i fatti loro di propria iniziativa.
Cominciano
col vantarsi di quanto sono bravi e fortunati ma non ci vuole molto prima che
affiorino le magagne nascoste, a partire dalle malefatte del governo (per
tastare il terreno andando sul sicuro), per poi passare ai problemi del
villaggio e del proprio clan (che importano già di più), giù giù fino a ciò che
veramente è essenziale e imprescindibile, cioè alla sfera personale, a tutti i
disastri che non risparmiano nessuno (se c’è una giustizia). Il maestro si
appoggia al bastone e si limita a fare cenni con il capo, mostrando
comprensione per tutto e per tutti (e non per finta, questo è il bello); segue
ogni piega dei discorsi senza intervenire se non per sollecitare qualche
spiegazione o dettaglio supplementare, cosa che non manca di stupire
favorevolmente l’oratore; quando si arriva alla domanda: « Tu cosa avresti fatto al mio posto? non
ti saresti comportato così anche tu?»,
che è un passaggio obbligato in questo genere di discorsi, si schernisce fino a
che evitare di rispondere non rischia di apparire sgarbato.
Allora
riformula i problemi come a verificare se ha ben capito, anche se nel farlo
comincia già a spostare la prospettiva e a metterli in una luce diversa da
quella in cui gli erano stati presentati, e quando gli rispondono che le cose
stanno proprio così (è un drago!), accenna qualche ipotesi con grande
delicatezza e in tono dubitativo, senza affermare niente in tono reciso, così
che non sono pochi quelli che poi continuano a interrogarlo, o a rispondere
alle sue risposte. e a benvolergli. All’ora di cena, c’è sempre chi gli chiede
di fargli l’onore di essere suo ospite per tutto il tempo che vorrà (è un
doppio drago! un drago al quadrato!).
Anche
qui, come suo solito, il mio maestro accetta soltanto l’offerta di un po’ di
cibo e di un tetto per la notte, cambiando cortile quasi ogni sera per non
offendere nessuno e non creare invidie. Ci sono state anche proposte allettanti
di persone ricche, poche per la verità, che mettevano a completa disposizione
casa, giardino e servitù (e alcuni anche la piscina!) per tutto il tempo della
sua permanenza, ma in genere il maestro le declinava, eccetto in un paio di
occasioni di fronte a insistenze tali che rifiutare sarebbe stato interpretato
come un aperto oltraggio, comunque sempre per una sola notte, sufficiente
perché l’ospite si sentisse onorato e potesse poi concedergli di andare altrove
sfoggiando illuminata magnanimità (e con sollievo da parte di mogli e amanti
schizzinose).
A
me da un lato questa consuetudine non dispiace, perché mi dà modo di conoscere
gente sempre nuova, ma dall’altro la trovo irritante, specie quando nel cortile
abitano ragazze o donne giovani (ma talvolta anche non giovani) ai cui occhi,
certo di riflesso, non manco di suscitare varie forme di interesse, spesso
coincidenti con quelle che loro suscitano in me. (E questa, sia detto per
inciso, è forse la fonte di rimproveri, e di scappellotti, più frequente da
parte del maestro, ma io non lo sto molto ad ascoltare, perché mi sembra che,
dietro le parole e gli sguardi truci che ricevo, ci sia anche un fondo di
benevolo compiacimento, se non proprio di complicità, che mi fa pensare che, se
mi comportassi diversamente, forse lo deluderei più di quanto non faccia
eludendo le sue prescrizioni, o, meglio, le sue indicazioni, poiché di
prescrizioni non ne dà a nessuno; che è una delle ragioni per cui piace tanto a
quasi tutti, e di sicuro a me. E poi, non per fare il maligno, ma mi sa che ai
suoi bei tempi la cavallina non si è negato di saltarla nemmeno lui; e anche
adesso l’espressione sul viso di certe donne all’uscita dai colloqui privati
che gli hanno richiesto e che lui benevolmente non nega mai, qualche
sospettuccio me lo fa nascere anche controvoglia… perché vecchio, è vecchio, ma,
se devo giudicare dal passo vigoroso che prende quando ha fretta, forse è meno
malconcio di quanto si direbbe a prima vista.)
Mentre
noi esploravamo la periferia, altri profeti setacciavano il resto della città,
ricchissima di ogni merce e soprattutto di sfaccendati, ma, non essendosi
spartiti preventivamente il territorio di caccia, ogni tanto accadeva che più
d’uno si trovasse contemporaneamente nella stessa zona o in angoli diversi
dello stesso mercato o spiazzo, dove i più organizzati facevano allestire dei
piccoli palchi ricoperti di stuoie per dare ombra, arredati di sontuosi
sgabelli o poltrone e persino, i più ricchi, con tanto di microfoni e
altoparlanti alimentati a batteria. Così spesso le voci si sovrapponevano, i
discorsi si intrecciavano e si confondevano, e i profeti non potevano evitare
di rispondere direttamente o meno alle affermazioni altrui, magari
approfittandone per provocarsi a vicenda.
Era
inevitabile che alcuni astanti trovassero irriguardose le prevaricazioni dei
più rumorosi e ne fossero non poco irritati, ma la maggior parte, abituata alla
promicuità dei grandi mercati, non vi faceva caso e ne approfittava per
seguirli tutti, a turno o addirittura contemporaneamente, per fare poi i
confronti. I più maligni (gli immancabili scafati prodotti dalle metropoli o i
provocatori intenzionali) ne approfittavano per mettere zizzania tra i
monogami, suscitando discussioni che poi coinvolgevano quelli degli altri
gruppi che già tendevano a guardarsi in cagnesco l’un l’altro, e che in qualche
occasione degeneravano in risse. In genere bastava l’intervento diretto dei
profeti a sedarle, ma talvolta è stato necessario l’intervento delle forze
dell’ordine, peraltro già presenti, mimetizzate, tra la folla.
Un
giorno, mentre eravamo di passaggio, ci siamo finiti in mezzo anche noi, e così
ho potuto godere della bella opportunità di assaggiare anch’io qualche
manganellata nel tentativo di sottrarre alla ressa il mio maestro, che invece,
fosse dipeso da lui, non si sarebbe mosso di un centimetro da dove se ne stava
impalato e poi sarebbe rimasto impavido a godere lo spettacolo, per di più
sorridendo. (A volte mi sembra che gli manchi qualche rotella.)
Quando
il congresso ha cominciato a muovere i primi passi, ci siamo trasferiti, per
gran parte del giorno, io sotto le tettoie ai margini della piazza e lui al
fresco dell’aria condizionata dell’hotel. I lavori preliminari erano dedicati
alla definizione del vero profeta e ai metodi per accertare senza ombra di
dubbio chi lo è, e conseguentemente per smascherare i falsi profeti, con tutti
i corollari che ne discendono. Il problema non è solo teorico: da quando è
stato fondato il sindacato, le richieste di iscrizione da ogni parte del mondo
si sono infittite e molti sono venuti al congresso non invitati. Non solo si
sono installati a proprie spese occupando alcune delle camere migliori
dell’hotel, ma si sono anche intrufolati nei vari seminari, iscrivendosi a
parlare con una faccia tosta inaudita e intervenendo spesso nei dibattiti con
una saccenteria che da sola basterebbe a smascherarli. Pontificano a destra e a
manca, criticano senza il minimo rispetto quelli che loro chiamano colleghi e,
non appena vedono uno con un taccuino o un registratore in mano, lo rincorrono
per farsi intervistare, per tacere di quando spunta una telecamera, fosse pure
quella di un amatore, perché allora non di rado finisce che si mettono le mani
addosso tra di loro e con i vari tirapiedi per accaparrarsela. Così al problema di separare i veri dai falsi
profeti si è aggiunto quello di individuare gli abusivi. D’altra parte nessuno
può impedire che si aggirino nell’atrio o per l’hotel, dal momento che hanno
sborsato fior di moneta pregiata per alloggiarvi.
Del
resto, anche tra i profeti accreditati confluiti da tutto il continente non
mancano i sapientoni che hanno studiato in America o in qualche posto
equivalente e che sono venuti con la ferma intenzione di farsi qualche risata
alle nostre spalle, come chi ha già capito tutto e non si tira indietro quando
trova lo spunto per spiegartelo, con paterna bonomia. Nelle mie lunghe ore ai
margini della piazza, o quando ho potuto sostare nell’atrio dell’hotel, ho
avuto spesso occasione di origliare i discorsi che facevano tra di loro, e devo
dire che ho imparato molto. Alla fine saranno anche trucchetti banali, ma
possono sempre venire utili, sia per usarli sia per difendersene; tanto più a
un sempliciotto come me, che vengo dalla campagna e del mondo comincio a farmi
un’idea solo adesso, e con fatica.
Ma
per tornare ai lavori del congresso, la confusione suscitata da abusivi e
intrallazzatori ha avuto l’effetto indesiderato di complicare le problematiche
già nella sessione preliminare e questo ha indotto i relatori a perdersi in
sottigliezze impreviste, per non dire inutili.
Cito
a caso dalle indiscrezioni raccolte sulla piazza e dai rari commenti del mio
maestro: Sentire le voci è un requisito sufficiente o solo necessario (la
questione, lo ricordo, è come definire e riconoscere il vero profeta)? e avere
una propria dottrina? I miracoli fanno parte del corredo o sono facoltativi?
Come aiutare anche il profano a distinguere il profeta dal predicatore? E come
impedire che i preti, al solito, rovinino tutto? I preti, inoltre, sono
indispensabili? Che cosa è successo ai profeti che hanno esplicitamente
dichiarato che se ne può fare a meno? Non sarebbe meglio vietarli drasticamente
e condannare a priori chiunque pretenda di essere un portavoce privilegiato, o
anche assurga a tale ruolo su elezione altrui, fosse pure da parte dei fedeli
in virtù della sua santità? E poi: i libri sacri sono utili, in quanto
definiscono una volta per tutte la dottrina, o dannosi, poiché prima o poi la
irrigidiscono e danno origine al flagello dell’ortodossia? E ai riti, quale
funzione attribuire? Sono proprio essenziali? E se lo sono, come impedire che i
celebranti, o alcuni di essi, prima o poi diventino preti e aprano la strada
alle gerarchie e a tutte le perversioni che ne conseguono?
Ogni
questione ne suscita innumerevoli altre e tutto lascia prevedere, anche a chi non
è profeta, che i lavori si protrarranno molto a lungo e probabilmente si
dovranno aggiornare i meno urgenti al prossimo congresso, se mai ci sarà. Tutte
cose, sia detto senza offesa, che interessano la mia beata giovinezza quanto il
sistema digestivo delle giraffe e che, con mia grande sorpresa, ancor meno
interessano al mio maestro, che ha assistito alle prime giornate dei lavori
quel tanto da farsi una sommaria idea dei problemi e poi è uscito a liberarmi
dal solleone della piazza, in compagnia di un paio di colleghi che avevano
deciso che era meglio andare a zonzo per la metropoli a racimolare proseliti
(gente destinata a farne poca di strada, però, a mio modesto parere).
Al
mio maestro, invece, l’idea stessa di far proseliti appare ripugnante. Lui è un
profeta fatto così, che i proseliti li vede come il fumo negli occhi. Se
qualcuno è contento di essergli amico, buon per lui, ma se l’amicizia si
trasforma in devozione caccia i malcapitati con parole brusche, mentre li
congeda con affetto, senza negare le benedizioni richieste (che peraltro
farfuglia sottovoce, in una cantilena ipnotica), quando sono loro a uscirsene
imbarazzati che è giunta l’ora di andarsene. «Sì, sì, andate, che a casa vi aspettano», dice allora senza ironia. «Andate,
vi benedico»: e via con la sua nenia incomprensibile.
Per
questo, quando lo chiamo il mio maestro so di usare una denominazione impropria
(d’altra parte, chiamarlo il mio profeta sarebbe ancora peggio e lui sarebbe il
primo a riderne se lo facessi; e a rifilarmi l’ennesimo scapaccione). Lui non
mi ha mai insegnato niente, almeno in via diretta, a parte l’eccezione che dirò
tra poco: anche a me si rivolge solo con domande, e in genere si limita a
chiedermi di raccontargli delle mie esplorazioni negli insediamenti che sorgono
lungo la strada o di qualsiasi cosa mi capita sotto gli occhi e che poi non
resisto ad andare a vedere. Lo fa soprattutto perché la mia ignoranza mi porta
a interpretare le cose in un modo che lui trovava divertente, e poi perché
quello che non vedo lo invento e su quello che non conosco ricamo le fantasie
più stupide che lo fanno sempre ridere: e io sospetto che persiste a tenermi
con sé proprio per questo, perché gli piace ridere e è sempre di buon umore
anche nei frangenti più gravi, che ovviamente affronta come richiedono, ma con
il buonumore sempre in sottofondo. Quando a sera gli faccio il resoconto della
mia giornata e dei discorsi origliati, ride a crepapelle. Così rido anch’io.
Non so perché: in fin dei conti le cose che riferisco mi sembrano sensate, ma
rido lo stesso. Il mio insegnamento è questo, mi dice lui allora. (Sai che
sforzo, penso io.)
Forse
è per questi motivi, perché non alza mai la voce e non ambisce, non dico a una
posizione importante, centrale, ma proprio a nessuna posizione, che al
congresso, tra tanti che dirigono seminari, tengono relazioni o sono iscritti a
parlare, lui risulta solo nell’elenco dei presenti a qualche dibattito
secondario, ai quali è pressoché certo che non interverrà. E sì che, da quel
che ho capito, gode di buona nomea tra i suoi colleghi e sono in molti quelli
che vengono, di nascosto, a consultarlo e che gli vogliono bene, ma forse è
proprio perché non invade il loro campo e se ne sta ai margini di sua spontanea
volontà, buono buono. Quando lo confronto a certi tromboni che qui vanno per la
maggiore, sempre seguiti da un codazzo di seguaci, servitori, giornalisti e
belle donne, mi viene una rabbia che non riesco a tenere la bocca chiusa, mi
metto a sputare veleno a destra e a manca, e a volte gli rinfaccio perfino la
sua arrendevolezza, la sua scarsa ambizione. «Sta’ zitto, stupido»,
mi dice, e mi rifila ridendo l’ennesimo scapaccione. Io la maggior parte li
potrei evitare, perché in merito ho ormai sviluppato una mia preveggenza, ma
lascio che giungano sempre a segno. Se me li dà, ci sarà una ragione. E poi
mica mi fanno male, e a lui magari fanno del bene, perché così si scarica,
penso. (Sbagliando: perché di cosa dovrebbe mai scaricarsi, uno che è sempre
così tranquillo?)
Anche
se non ha niente da spartirci, gli organizzatori hanno inserito il mio maestro,
senza che lui avesse niente da ridire (figuriamoci!), nel gruppo dei profeti
minori, profeti occasionali, sporadici, dall’azione scostante, di raggio
limitato e efficacia circoscritta, o addirittura profeti domestici, che passano
la maggior parte del tempo “in sonno”, alcuni dedicandosi alle loro modeste
attività come tutti gli altri compaesani e che poi, non si sa come né perché,
si risvegliano all’improvviso, profferiscono verità incontrovertibili e immediatamente
rientrano nei ranghi. Sono in genere uomini timidi, che arrossiscono se qualche
turista vuole fotografarli, specializzati in profezie minime e spesso inutili,
ma non per questo meno vere, profezie che si avvolgono su se stesse formando
eleganti spirali, castelli di visioni dettagliate fino all’ultimo mattone, con
le condutture dell’acqua e le prese del telefono in ogni stanza, teoremi
fulminei di futuri ineluttabili eppure, con un po’ di buona volontà,
certissimamente rettificabili.
Molti
di loro non reggono il ritmo delle relazioni e spesso non le capiscono nemmeno,
per cui, fingendo necessità corporali o visite di parenti, abbandonano di
soppiatto le sale delle riunioni e vengono sulla piazza, dove si fermano a
discutere del tempo o di sport, o perlustrano le bancarelle per ammirare le
merci esposte confrontando i prezzi prima di acquistare qualche regalino da
portare a casa. Io a volte li seguo e mi metto a chiacchierare con loro, senza
dire chi è il mio maestro, perché altrimenti cominciano a balbettare e a
guardarmi con un rispetto piuttosto comico, chinano i loro testoni verso terra
e mi pregano di porgergli i loro omaggi prima di allontanarsi con qualche passo
all’indietro, lasciandomi allibito. La voce si è sparsa, ma per fortuna gli
ignari restano tanti, di modo che qualcuno con cui scambiare due parole lo
trovo sempre.
Di
tempo ne ho in abbondanza e spesso non so come buttarlo via. Per quanto sia
grande, della piazza ormai conosco anche i granelli di polvere, mentre le
chiacchiere sono inesauribili, e se gli argomenti non sono infiniti, è diversa
la gente e il modo in cui ne tratta. Questi profeti inferiori sono spesso
simpatici, se presi nel giusto modo, cioè come persone comuni quali di fatto
sono, e anche loro non vedono l’ora di parlare del più e del meno senza troppe
pretese; ma il bello è che proprio allora nei loro discorsi fioriscono profezie
involontarie, osservazioni meravigliose gettate lì come se niente fosse e di
cui nemmeno si accorgono, perché per loro sono scontate. A causa del contesto
banale di solito a esse non fa molto caso neanche chi ascolta, ma poi gli
esplodono nella testa come schioppettate al momento opportuno, senza che si
ricordi la loro origine. Io ormai ho l’orecchio esercitato e le colgo al volo,
le avvolgo una per una in un sacchettino e le deposito con cura nella sporta
della mia memoria, perché prima o poi sono certo che mi verranno buone. E già
da ora, comunque, mi accorgo di guardare le cose in modo diverso, che è sempre
un bel piacere per uno che ne ha pochi di altri.
Così
passo i giorni. Poi, la scorsa settimana, il Comitato di direzione ha deciso di
affidare le questioni preliminari a una sottocommissione e di dedicarsi agli
altri argomenti di discussione, perché altrimenti si rischiava che scadessero
le prenotazioni e che molti prosciugassero i risparmi (anche se i più ricchi
sarebbero disposti a mettere mano alle loro tasche) prima di riuscire a
concludere almeno le questioni più urgenti.
Il
problema dei profeti è che sono individualisti sfrenati, ancor più dei
dittatori. Si è mai sentito di profeti che profetavano in gruppo, o anche solo
in coppia? I famosi profeti Tizio e Caio sono sbarcati a Samarcanda! I profeti
Harpo, Groucho e Benno tuonano dal colle del Quirinale sulla città eterna!
Figuriamoci! I tiranni quanto meno si sposano, si assicurano una prole che ne
prenda il posto, hanno amanti, collaboratori, bracci destri, tutto un clan da
rimpinzare, intere tribù da favorire. I profeti, invece, niente. Anche i
discepoli prediletti, quando i profeti si degnano di averne uno, sono solo dei
seguaci di prima scelta, al massimo dei portaparola con certificato di
garanzia, ma nessuno di essi riceverà mai il testimone del vaticinio
irrefutabile e della parola vera. Semplici uomini, solo un po’ meglio degli altri.
Ma mica tanto. Infatti anche gli eletti qualche stupidaggine prima o poi la
combinano.
Quindi
è già un miracolo che i profeti attuali siano riusciti a mettere in piedi un
sindacato. Un segno del progresso se ce n’è uno. Il sindacato, oltretutto, si
sta ampliando a macchia d’olio, come una specie di Onu dello spirito. Tuttavia,
poiché è impossibile pensare che siano capaci di rinunciare al loro
individualismo, non si vede come il sindacato possa funzionare al di là delle
rivendicazioni di bassa lega o tutt’al più degli accordi e delle strategie
generiche riguardo a spartizioni di competenze e di territorio, parole d’ordine
di massima o scambi di esperienze limitati a
aspetti superficiali e di sicuro non ai segreti del mestiere, che
nessuno è così fesso da spifferare ai quattro venti.
A
meno che, come hanno avanzato i soliti maligni, sotto non ci sia un disegno
egemonico da parte di qualcuno dei più potenti, dell’aristocrazia dei profeti,
che intenderebbero sbarazzarsi dei concorrenti più temibili e ridurre al
silenzio o asservire con qualche carica o contentino la ciurmaglia dei
profetucoli di provincia, in attesa di fare i conti tra di loro.
Il
mio maestro se la ride di queste teorie e non crede che in ogni caso sarebbe un
progetto realizzabile, perché, dice, il vero profeta è un animale solitario,
che se talvolta ama circondarsi di seguaci e discepoli, si tiene ben lontano
dagli altri della sua specie, con i quali persino dividere il territorio gli
riesce difficile, a meno che non si tratti di predatori molto specializzati, il
che raramente accade. «Ma appunto
per questo» ribatto io; la fame vien
mangiando, e se non sono loro a coltivare queste ambizioni, saranno i seguaci,
che devono essere nutriti e nutrire le loro famiglie, e è noto che i discepoli
prima o poi si sganciano e si mettono in proprio, si fanno profeti pure loro,
veri o falsi che siano, e se sono falsi è ancora peggio, perché loro sanno di
esserlo e faranno di tutto perché gli altri non se ne accorgano e tenderanno di
conseguenza a monopolizzare l’attenzione e il potere eccetera eccetera. (Più mi
sento intelligente, più propendo a straparlare.) Al che il mio maestro dice che
i falsi profeti si smascherano da soli e non è il caso di perdere tempo con
loro. «Nondimeno...», tento di ribadire io; ma non riesco a
continuare perché mi arriva l’ineluttabile scapaccione. «Nondimeno!» dice ridendo. «Dove
hai imparato queste espressioni, cretino?»
Intanto,
grazie alle apparizioni televisive dei profeti più famosi e al battage porta a
porta dei loro seguaci, in città, e anche fuori a quanto mi dicono, si stanno
formando sette sempre più numerose di fanatici. A seconda dei quartieri e dei
villaggi, si organizzano comitati di preghiera o di vigilanza: in alcuni si
respira un’aria di esaltante misticismo, è tutto un fiorire di canti e di opere
di carità, la gente appare più leggera, cammina sfiorando il suolo come se
avesse sotto i piedi un sottilissimo e invisibile cuscinetto d’aria, si
abbraccia castamente per le strade, attende serena un evento prodigioso (o
tutta una serie, i più ottimisti); in altri, invece, si insinua un
atteggiamento più aggressivo, sui canti prevalgono le penitenze, il digiuno e
l’autoflagellazione, l’apostolato si manifesta con le buone o con le cattive,
gli intrusi vengono cacciati e i refrattari emarginati quando non apertamente
perseguitati, e c’è il timore che, una volta ripulita la zona, qualcuno voglia
passare a quelle limitrofe, che di solito operano con gli stessi metodi.
Quelli
che fanno più proseliti, ovviamente, sono i profeti di sventura, gli
affrescatori di apocalissi, che oltretutto sono i più avvezzi alle moderne
tecnologie e sanno sempre come comportarsi davanti a un microfono o a una
telecamera per amplificare il loro messaggio, già spettacolare di per sé. Non a
caso il seminario più seguito, quello che gode di maggiore risonanza, è proprio
il loro, intitolato appunto “L’apocalisse e il suo futuro”, la cui attesa è
stata accresciuta dal forzato rinvio di un paio di giorni perché il direttore
dei lavori è stato vittima di un incidente imprevisto. Per quanto le autorità,
non ignare di ciò che con buone probabilità sarebbe accaduto (ma al contempo
decise a non rinunciare a tutti i vantaggi economici e di immagine che la loro
povera e giovane democrazia potrebbe guadagnare da un evento di questa
portata), abbiano preparato le opportune contromisure e regolamentato lo spazio
concesso a ciascun profeta, invitando sottobanco i commentatori a privilegiare
i più miti, non hanno fatto i conti, però, né con la proverbiale capacità di
incendiare gli animi di questi superprofeti a cui basta niente per trascinare
anche i fedeli più distratti, né con la perfetta organizzazione di cui di
solito dispongono, radio e televisioni personali, seguaci agguerriti, impatto
pubblicitario, notorietà presso gli spettatori dei talkshow delle televisioni
commerciali e via dicendo.
Ma
sarebbe bastata la concentrazione di tutto questo po’ po’ di magnetismo
profetico a far saltare ogni calcolo preventivo. La prima cosa che mi ha
colpito, appena giunto in città, io che non c’ero mai stato e ho così poca
esperienza, è stato il forsennato attrarsi e respingersi senza un perché della
gente, tutti che si ammassano e si allontanano, si rinchiudono, escono, si
accalcano e poi si fanno spazio in ogni modo - e lo spazio non c’è. E di
profeti in giro ancora non se ne vedevano! Adesso, anche in questa piazza
immensa non trovi più un buco dove rannicchiarti in santa pace senza sentire
questo alone di forze contrastanti, una specie di elettricità che si accumula
nei corpi, a partire dalle piante dei piedi, per sprigionarsi al minimo
contatto, ma che, invece di fartelo rifuggire, è come se ti calamitasse e ti
costringesse a cercarlo anche controvoglia.
Per
scaricarla, tolgo i sandali, e quando sono seduto tengo i palmi ben premuti per
terra: all’ombra, perché altrimenti mi ustiono, col sole che c’è. Nondimeno
resto spesso intontito, con idee che si agitano disordinate e furiose nella mia
testa prima di trasmettersi al corpo: le tensioni contrapposte gli impediscono
di stare fermo, inducendo le membra a muoversi meccanicamente, come se fossero
quelle disarticolate di una marionetta governata da più burattinai intenti a
rappresentare storie che non hanno nulla a che fare l’una con l’altra. Mi
verrebbe da ridere, se non fossi spaventato. E come me vedo tanti altri
poveracci, altrettanto storditi, che sembrano percorsi da scosse
incontrollabili e si urtano e poi si discostano di scatto e si allontanano per
stare isolati o viceversa per riunirsi in gruppi compatti, in addensamenti
collosi, dai quali lanciano attorno sguardi insieme euforici e angosciati.
Si
tratta perlopiù di miserabili pronti a gettarsi su qualsiasi fola gli consenta
di evadere dalla loro condizione, o quantomeno di dimenticarla per qualche ora,
ma proprio per questo facilmente eccitabili, magari manovrabili all’inizio, ma
difficilmente governabili una volta scatenati. Come è possibile allora che le
autorità abbiano trascurato la loro suscettibilità, la disponibilità alla
violenza che sono pronti ad accogliere, da un momento all’altro, come una
vocazione fino ad allora ignorata? Lo sanno anche i bambini che l’attesa della
fine, di quella di tutti, dal primo all’ultimo, una volta tanto senza
eccezioni, è la miccia più facile da innescare, quella che non delude mai.
La
fine dispone di un fascino infallibile, sprigiona una melodia che incanta, che
ti scioglie da tutto e da tutti, per primo da te stesso, e in un modo o
nell’altro ti libera. In prossimità della fine tutto è permesso, e quindi
tutti, a cominciare dai parassiti e dalla gentaglia senza scrupoli che
costituiscono il resto degli abitanti della città, vi si gettano a capofitto.
Se c’è un’occasione di far baldoria o di raccattare qualcosa, quelli si
ammazzerebbero pur di non farsela sfuggire. Ci sguazzano, loro. È il loro brodo. A meno che le autorità
non abbiano previsto anche questo, nella speranza che proprio nella confusione
quanti più possibile si tolgano di mezzo a vicenda, senza doversi sporcare le
mani loro in prima persona, e altri si decidano a tornare nelle regioni di
provenienza alla ricerca se non altro di tranquillità, ammesso che i disordini
non raggiungano anche quelle. (Ma meglio ancora, in tal caso!)
Comunque
sia, i più solleciti ad andarsene sono stati proprio alcuni profeti delle zone
di confine e altri minori (come certi profeti individuali, che sono in grado di
prevedere solo pochi eventi specifici e solo per una specifica persona alla
volta, con la precisione e l’infallibilità dei cecchini però), e io stesso da
qualche giorno sono meno propenso al vagabondaggio e mi muovo più circospetto,
senza sbandierare chi è il mio maestro ogni volta che ne intravedo il vantaggio
(ma a lui non lo dico, come gli tacevo prima le mie vanterie). La sera lui si
ostina a non fermarsi a dormire in hotel, nonostante lo abbiano invitato a più
riprese (adesso ci sono molte camere libere già pagate) e attraversare la città
per raggiungere i quartieri dove siamo più conosciuti sia diventata
un’avventura.
È
vero che l’immagine del mio maestro non è mai comparsa in nessun servizio
televisivo o giornalistico, come se avesse la facoltà di diventare invisibile
ogni volta che si accende una telecamera o viene scattata una foto (l’ho visto
con i miei occhi partecipare serafico a foto di gruppo nelle quali poi non
figurava mai, e devo dire che la cosa un po’ mi spaventa), nondimeno è sempre
possibile incappare in qualche sfegatato che lo conosce o lo ha visto parlare
in mezzo a uno dei capannelli che gli fioriscono attorno non appena si ferma un
attimo da qualche parte, che ci aizzi contro i suoi compari bramosi di farci a
pezzi. Eppure, come con le foto, non è mai capitato che fosse riconosciuto. «Cos’hai da agitarti, cretinetti?», mi dice con l’accompagnamento del
rituale scapaccione. «Dài,
raccontami quello che è successo oggi, e sta’ tranquillo che non c’è niente di
cui preoccuparsi.» E io gli racconto
quasi tutto, ma non mi viene bene. Mi tradisco. Lui se ne accorge di certo, ma
tace e, fingendo di appoggiarsi alla mia spalla, mi dà una leggerissima
carezza.
Non
appena incontriamo qualche amico, invece, ci riconosce subito e ci invita a
casa sua. Io allora gli salto attorno, ballo, lo abbraccio, faccio il buffone,
finché, ridendo, non mi dà uno scapaccione lui pure. A volte mi viene il
sospetto che quella del mio maestro sia una confraternita segreta di
schiaffeggianti. Andiamo a casa del tizio, mangiamo quel poco che ha da offrire
e pian piano la casa si riempie di gente confluita da ogni parte, spesso con un
piatto in mano, anche se perlopiù della stessa robaccia. Se penso ai buffet
sempre imbanditi che ho saccheggiato le poche volte che ho avuto la fortuna di
entrare nell’hotel, mi prende una rabbia! Però mangio tutto di gusto e tengo la
bocca sempre occupata, così evito di dire sciocchezze (con la confraternita non
si sa mai). Non è raro che queste serate si trasformino in modesti e quieti
festini, a dispetto di tutto. Dopo i primi saluti e gli omaggi di rito, i
convenuti si mettono a parlottare tra loro sgranocchiando frutta o dolcetti che
qualche donna ha tenuto in serbo per l’occorrenza, e continuano con una
sommessa allegria anche quando noi siamo andati a dormire. Noi siamo talmente
stanchi che non li sentiamo nemmeno.
Il
mattino ci avviamo presto e facciamo sempre lunghi giri per verificare con i
nostri occhi cos’è successo in città. Le strade all’alba sono poco trafficate e
la polizia e la nettezza urbana, una meno efficiente dell’altra, non hanno
avuto ancora tempo di ripulirle, se non sommariamente. Così i marciapiedi,
quando ci sono, e i bordi delle strade sono ingombri di gente che non si riesce
a capire se è mineralizzata dal sonno alcolico o da quello eterno, con i
vestiti stracciati e macchiati di sangue, i capelli impiastrati di grumi, le
mani strette attorno a bottiglie, sassi e bastoni, le gambe rannicchiate o
divaricate in linee spezzate e i piedi rivolti verso tutti i quadranti della
rosa dei venti. I pochi viandanti e ciclisti eseguono slalom acrobatici senza
fissare lo sguardo su niente, sparati come missili teleguidati verso le loro
destinazioni, mentre i motorizzati, a causa della velocità a cui non intendono
rinunciare, spesso non riescono a evitare gli ostacoli e gli passano sopra,
siano essi corpi o masserizie, e talvolta si schiantano contro i muri,
proiettati dalla brusca sterzata che la resistenza o il volume dell’ostacolo li
induce controvoglia a compiere.
Non
pochi tetti sono sfondati, le porte e i serramenti delle case che ne erano
provviste sono sfasciate e divelte, aperte al primo venuto benintenzionato o
meno, e solo alcune sono state sostituite con assi inchiodate in tutta fretta.
Stracci e giornali, spostati dall’aria, volano a coprire con uno striminzito
sudario qualche volto, mentre in fondo ai vicoli si consumano fuochi residui.
Il mio maestro biascica sottovoce le sue nenie e io ne seguo il ritmo senza
capire, come a farmi coraggio e compagnia.
Da
quando si è avuta notizia dei primi disordini e il numero dei profeti si è
andato assottigliando, invece delle capatine furtive dei primi tempi il mio
maestro non perde più una riunione e ci resta fino a sera, non so se
partecipando attivamente o solo assistendo. Da allora io non ho più potuto
metter piede nell’hotel e le mie giornate sotto la tettoia sono diventate
lunghissime. Nei momenti di maggior tensione mi tengo lontano da ogni accenno di
assembramento e mi schiaccio contro i muri, fino a diventare uno strato della
polvere che li ricopre. Nonostante mi senta squassato da una specie di
insurrezione delle viscere, ho dovuto rinunciare alla mia più grande passione,
quella di conversare (diciamo così) di tutto con tutti: stringo le mascelle e
mando giù la poca saliva che mi rimane. Quasi non respiro. Nei momenti di
calma, invece, mi aggiro furtivo per la piazza o mi apposto vicino all’ingresso
dell’hotel e tendo le orecchie ai vari discorsi. I poliziotti che montano la
guardia mi conoscono e mi lasciano stazionare in un angolo buono buono. Aspetto
che il maestro mi chiami o mi faccia recapitare un biglietto con qualche
incarico da svolgere, ma non succede mai. Pur non avendo niente da fare, sono
sempre stanco per la costante tensione, consumato dall’incertezza.
Il
congresso ha dovuto prendere atto della situazione e delegare a un gruppo
ristretto le questioni concernenti l’organizzazione del sindacato per cui era
stato indetto. Per fortuna lo statuto era già stato approvato e il resto del
lavoro era a buon punto, e così è bastato che a definire gli ultimi dettagli in
merito alla scelta dell’edificio della sede centrale, le modalità pratiche di
iscrizione, l’ammontare dei versamenti per le pensioni e per la costituzione di
un fondo per i più bisognosi e per le malattie, si dedicassero i profeti più
versati nelle leggi e nella contabilità, con la consulenza di qualche
portaborse laureato.
Ma
mettersi d’accordo su cosa fare concretamente per fermare gli scontri non è
semplice. Tutti i profeti predicano la pace, ma le loro concezioni appaiono
incompatibili non solo alle orecchie dei seguaci. Presto i più intransigenti
hanno cominciato a litigare proclamando la propria la migliore, senza
discussioni, e nonostante in pubblico tutti si mostrino amichevoli e
sorridenti, dalle sale e dalle stanze dell’hotel sono risuonate urla e minacce
terribili. Le reciproche accuse di diretta responsabilità si sono fatte
esplicite e stavolta anche i più miti hanno fatto sentire la propria voce,
immediatamente zittiti («Taci tu,
pappamolla»). Altri invece sarebbero
addirittura passati alle vie di fatto e la zuffa si sarebbe estesa agli
assistenti presenti (quelli dei più potenti, ospiti accreditati, non i
poveracci come me), che se le sarebbero suonate di santa ragione. Sono voci che
circolano, probabilmente infondate: quel che è certo, però, è che nel primo
pomeriggio di ieri sono arrivate un paio di ambulanze nel parcheggio
sotterraneo e alcuni assistenti sono ricomparsi con vistose medicazioni e
fasciature mentre altri, si mormora, sarebbero ancora ricoverati in
osservazione. La versione ufficiale è che sono rotolati in massa dalle scale in
un momento di panico.
Queste
notizie, vere o false, sono state raccolte dai seguaci che bivaccano attorno
all’hotel e si sono diffuse per la città con le inevitabili distorsioni
progressive, inasprendo ulteriormente i conflitti già in atto, ormai estesi a
tutti i quartieri. Anche i quartieri che dapprima non erano stati coinvolti,
quelli delle classi più ricche e degli stranieri, sono ora campo di battaglia e
di saccheggi, perché coloro che si sono visti distruggere il proprio corrono a
rifarsi in quelli limitrofi, e così via, a macchia d’olio. Solo che le forze
dell’ordine, che prima avevano lasciato fare (se non addirittura fomentato i
disordini), ora intervengono a difesa degli interessi dei propri superiori, ma
la loro azione e i loro metodi sbrigativi spingono i gruppi più organizzati a
reagire in modo ancora più crudo, non contro di loro, che sanno come
difendersi, quanto contro tutti i malcapitati che incrociano fuggendo e gli
edifici e le cose più accessibili o sulle quali, per qualsiasi motivo, si
concentra il desiderio di rivincita o di possesso. Così incendiano auto,
sfondano porte, infrangono vetrine, arraffano piccoli elettrodomestici,
soprammobili, cibo, vestiti, scarpe e attrezzi di ogni genere, si caricano
sulle spalle o sui pickup, quelli che li hanno, televisori di grandi dimensioni
e frigoriferi, mobili, poltrone e, a mazzi, le biciclette e i motorini di cui
la città è piena. I sorveglianti di alcuni palazzi lussuosi e delle ville
recintate hanno reagito agli assalti sparando e numerosi saccheggiatori sono
morti; i sopravvissuti hanno consumato le loro vendette sulle case che avevano
meno difese e sui loro occupanti, sgozzati o stuprati a piacimento. Cantavano.
Anche
gli scontri tra i vari gruppi nelle strade si sono fatti più cruenti,
rinfocolati da nuove, o antiche, motivazioni in aggiunta a quelle religiose. Di
conseguenza l’assemblea dei profeti si è fatta ancora più tumultuosa.
Sollecitare a intervenire solo coloro a cui si ispirano i gruppi più sediziosi
sarebbe come attribuirgli una responsabilità diretta, e da parte loro
ammetterla; cambiare le predizioni, o anche solo attenuarle, significherebbe
dichiarare pubblicamente di essersi sbagliati o, peggio, di aver parlato alla
leggera; fare un comunicato comune comporterebbe un coinvolgimento anche da
parte dei più miti, che non c’entrano niente. Finalmente proprio da costoro,
più concilianti, viene proposta una bozza generica che, dopo gli opportuni
distinguo (e un intervento in prima persona dei capi della polizia e
dell’esercito con tanto di guardie del corpo armate fino ai denti, peraltro non
invitati), viene approvata a grande maggioranza, con scrutinio segreto. Due i
contrari e cinque gli astenuti.
Ma
non è finita, perché si presenta il problema di chi dovrà leggere il comunicato
o se addirittura non sarebbe meglio affidarlo a uno speaker estraneo (che
sarebbe una vigliaccata colossale, a mio modo di vedere).
Finalmente
viene deciso di affidare la lettura al profeta più anziano, che però è
analfabeta e deve impararsi il discorsetto a memoria, ciò che richiede il suo
tempo. Per l’ora prevista, la sala delle feste dell’hotel viene allestita con
un lungo tavolo: al centro, il profeta anziano tiene in mano i fogli e un
suggeritore è nascosto alle sue spalle nel caso abbia dei vuoti di memoria;
attorno, si è piazzata la batteria dei caporioni al completo, con gli altri sparpagliati
ai margini ma in modo tale che possano rientrare tutti nella stessa immagine.
Le televisioni nazionali e estere (compresa una nota rete americana) sono
presenti al gran completo, così come tutte le radio possibili e immaginabili,
in primo luogo quelle locali, che interrompono all’unisono le loro trasmissioni
per trasmettere il discorso dopo aver preavvisato i loro ascoltatori con
annunci ogni mezz’ora.
Le
forze dell’ordine schierate davanti all’hotel in assetto di guerra hanno
evacuato la piazza di tutti gli occupanti, che, raggruppati per convinzioni e
affinità, si sono ritirati nelle vie adiacenti. Io ho preferito non aspettare
l’ordine di evacuazione, ho fatto il giro dell’hotel per tempo e mi sono
intrufolato nel parcheggio sotterraneo attraverso un finestrino lasciato
socchiuso. Tanto nello sgabuzzino del custode c’è un televisore che posso
sbirciare non visto e, se non ci riuscissi, i grandi altoparlanti sistemati un
po’ ovunque mi permetteranno di sentire il discorso ugualmente.
Quando
il profeta decano inizia a parlare con voce tremante, la città è come
pietrificata. Anche negli angoli più remoti e poveri, nel silenzio generale è
la stessa voce che esce da tutte le radio accese; dove sono sopravvissuti, i
televisori vengono orientati verso la strada perché tutti possano vedere.
L’immagine del vecchio profeta, l’unico che abbia diritto a qualche primo
piano, e la sua voce incerta, sottile ma accorata, diffondono per l’aria un
senso ieratico da cui, finché dura il discorso, si sentono pervasi tutti, anche
i più stolidi, il cui sguardo per qualche attimo conosce l’inedita luce
dell’intelligenza, senza riuscire a trattenerla peraltro. Bastoni e coltelli
cadono dalle mani, opportunamente inquadrati da telecamere nascoste, e i volti
si distendono quali in sorrisi, quali in lacrime.
Ma
l’effetto dell’appello dura un attimo: non appena terminato il discorso, i
seguaci cominciano a discutere sulla posizione dei loro profeti lungo il
tavolo, molti cercano di interpretare le espressioni che gli sembrava trasparissero
dai loro volti miniaturizzati confusi nel mucchio. Certe espressioni vengono
lette come aperto spregio di questa o quella dottrina e soprattutto si ritiene
un’offesa intenzionale il fatto che il loro profeta non abbia avuto la
possibilità di chiarire direttamente la propria posizione e sia stato costretto
a mescolarsi con quella mandria di esseri impuri. Chi non ha individuato il suo
profeta si interroga sulla sua assenza, avanzando le ipotesi più cupe, che
vengono immediatamente riprese e accreditate senza ombra di dubbio, e non
facendosi scrupolo di esporle anche ai primi cronisti che si avventurano per le
vie che al momento sembrano sicure.
Le
insinuazioni ne provocano altre nelle parti opposte e si sommano agli
strascichi lasciati dagli scontri dei giorni precedenti. I differenti
interessi, per un istante sopiti, tornano a farsi sentire, surrogati dai
tradizionali imperativi di vendetta che molti sono pronti a riassumere. I
coltelli e i bastoni vengono prontamente raccattati da terra, dalle camicie
sbucano pistole e kalashnikov, e i padroni di casa si appostano sulla soglia
col machete di famiglia in mano.
Gli
scontri vengono presto interrotti dalla notizia che l’esercito ha circondato la
sede del congresso e che i profeti sono stati caricati su camionette per essere
condotti chi all’aeroporto chi al confine. Nonostante sia stato proclamato lo
stato d’assedio per il centro cittadino, quasi tutti i fedeli, temendo per la
sorte del proprio profeta, si dirigono verso la piazza dell’hotel ordinati in
gruppi in spontanea tregua reciproca, ma quando la raggiungono il corteo dei mezzi blindati l’ha già lasciata
da tempo. Venuto a mancare il loro obiettivo primario, i fedeli ne trovano
immediatamente il sostituto e si scatenano in massa contro l’hotel e, dopo
essersi velocemente sbarazzati dei pochi soldati lasciati a difesa, lo
devastano e lo saccheggiano. Completata l’opera, chi è soddisfatto del bottino
cerca di sgattaiolare verso casa ma viene aggredito da quelli rimasti a bocca
asciutta, mentre tutti coloro che non hanno potuto entrare si aggrediscono tra
loro senza guardar troppo per il sottile.
Ancora
prima che i blindati arrivino all’hotel, il mio maestro, come sapendo in
anticipo dove mi trovavo, scende nei sotterranei e, tranquillamente, mi chiama
e mi dice di seguirlo. Io ho una fifa tremenda, ma gli obbedisco. Anche se
l’ingresso del parcheggio permette di raggiungere una delle viuzze che
prendiamo di solito aggirando la piazza, quando sbuchiamo all’aperto fatico a
comandare alle gambe di muoversi. Mi sento il corpo allo stesso tempo
pesantissimo e molle, sudo olio bollente e mi sembra di avere in gola tutto il
vento del deserto che scende giù come cartavetrata. Il maestro mi mette una
mano sulla spalla e, «Forza, andiamo», mi dice. «Guidami tu che sono stanco. Noi restiamo in città». Allora raccolgo le forze, raddrizzo le
spalle e lo guido.