E all’improvviso, non so perché, mi è tornata in mente,
era forse il penultimo o ultimo anno che ho insegnato, quella volta che sono andato a Parma
con i miei studenti in gita a vedere la cupola del Duomo per ammirare da vicino
il grande affresco del Correggio, e i miei studenti, che di arte non è che
sapessero molto perché facevano la ragioneria, anche se nella nostra sezione sperimentale
due ore di arte settimanali c’erano, sono saliti sulle impalcature sciocchi e
baldanzosi, come si conviene all’età, scherzando ma non facendo i cretini,
perché era comunque una cosa inedita per loro, una novità, una rarità, e io non
ho dovuto nemmeno riprenderli o raccomandargli di essere educati perché ci
arrivavano da soli, e del resto, lasciandoli liberi, è raro che dovessi
riprenderli (fare qualche raccomandazione scherzosa, semiseria, ma poi certo
seria, nel fondo, sì invece), e sono rimasti a bocca aperta al cospetto di
quello splendore, lì vicino, sopra di loro, che quasi non avevano il coraggio
di farmi delle domande, e nemmeno io di dilungarmi nelle risposte facendo il
saccente del resto, e siamo rimasti lì
fino allo scadere del tempo concesso, ma siccome era ora di pranzo anche
di più, e poi loro sono scesi e gli ho detto di aspettarmi in piazza, perché io
restavo ancora un po’, da solo con la sorvegliante, e quando poi tutti sono
spariti, ho detto alla sorvegliante: ora io tocco l’affresco, ma lei
naturalmente mi ha detto, allarmata, che non si poteva, era assolutamente
proibito, al che le ho detto che io lo avrei fatto lo stesso, che ora che ero
lì non potevo resistere e quel muro lo dovevo toccare a ogni costo, che
chiamasse pure i gendarmi, oppure, meglio, si voltasse un minuto dall’altra
parte, facendo finta di niente, che stesse tranquilla che non facevo niente di male,
non rovinavo niente, e lei, dopo qualche diniego, convinta dalla mia bella faccia,
dai miei occhi di uomo mite, in quel momento almeno, ha fatto proprio così, e
io, emozionato, ho allungato la mano verso gli angeli più vicini, ho fatto
passare le dita sul colore, sulle gibbosità dell’intonaco, l’ho accarezzato, e
poi in silenzio, piano, tenendo l’emozione dentro, stretta, perché non mi
prendessero le vertigini, non mi cedessero le gambe e non mi mancasse il
respiro, respirando piano, a fondo, prima di volare via, non si sa mai, appoggiato
al corrimano delle scale, a occhi quasi chiusi, un passo dopo l’altro, sono
sceso anch'io.
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