Sparizioni, sequestri, assassinii,
attentati, ricerche che si concludono senza concludere, che portano a qualcosa
che può anche essere niente, enigmi: i romanzi di Ricardo Piglia, il grande
scrittore argentino scomparso qualche mese fa a 76 anni, parlano di questo. Ma
così parlando, dicono anche altro, mai niente è semplice, e i livelli di
lettura si moltiplicano quanto più il discorso sembra piano e diretto: un
discorso di genere, e un genere dominante il romanzo di investigazione,
poliziesco, noir, che poi si combina con altri, secondo i debordamenti e le
contaminazioni che il procedere che la stessa storia narrata richiede. Ma se i
primi romanzi riproducono questa complessità nella loro stessa forma (inchieste
personali o giornalistiche per ricostruire storie famigliari; racconti che
susseguono o si incastrano gli uni negli altri a fornire le differenti versioni
di fatti tutti da costruire, ancor più che da decifrare; macchinari che
producono storie non si sa se quanto veritiere di persone che sono di
invenzione e insieme realmente vissute; scomparse che sono forse volontarie o
forse atti di violenza, come nei due primi e già grandi romanzi Respirazione Artificiale e La città assente), gli ultimi, tra cui l’appena
tradotto Solo per Ida Brown, hanno
un’apparenza più tradizionale, più ossequiosa, almeno all’inizio, delle leggi
del genere, di cui rispettano, senza apparente ironia, i vincoli e i cliché.
Piglia non ha la vocazione dell’avanguardista o del provocatore, non gli piace
il gesto clamoroso: sia per formazione anche professionale (ha diretto la prima
collana argentina di gialli e noir di qualità tradotti e presentati in modo
accurato), sia come studioso della storia e della teoria letteraria che ha
sempre presente la forza della tradizione e ne indaga il formarsi e le derive,
preferisce muoversi tra le forme con circospezione, ironico e sornione, e
complicarle all’occorrenza sempre attento però alla leggibilità, celando
abilmente le sottigliezze nel non detto o nell’appena accennato.
Uno degli strumenti ricorrenti per
favorire la stratificazione delle letture - oltre alla fittissima rete
intertestuale, dichiarata o più spesso mascherata e poco appariscente, di
rimandi letterali ma anche, secondo la lezione di Borges, apocrifi ma
plausibilissimi -, è il ricorso a personaggi la cui indole o professione li
porta a riflettere sugli eventi, la società, la politica e la letteratura.
Anche le riflessioni tuttavia restano sempre interne alla narrazione e
fortemente contrastate da ipotesi o idee alternative di altri personaggi,
impedendo che qualcuna si ponga sopra le altre o addirittura al di fuori della
trama, e disseminando le varie interpretazioni in modo che ne costituiscano
spesso uno dei motori principali. Si vedano, per esempio, quelle del
commissario Croce in Bersaglio notturno
e di quasi tutti i personaggi di Respirazione
Artificiale, ma si veda soprattutto la figura di Emilio Renzi, giornalista,
scrittore e critico, vero e proprio alter ego a cui Piglia affida non solo il
compito di dire cose che lui non si azzarderebbe mai a dire a proprio nome, la
sua “anima radicale”, ma persino il ruolo di titolare dell’autobiografia in tre
volumi (Los diarios de Emilio Renzi,
l’ultimo dei quali postumo, di prossima uscita) nei quali lo scrittore ha
condensato e organizzato i 357 quaderni del diario tenuto per sessant’anni,
dall’adolescenza alla vigilia della morte (come Julien Green, Paul Léautaud,
Paul Valéry e altri maratoneti della scrittura quotidiana...), che speriamo di
veder tradotti quanto prima. Identificazione e insieme trasposizione che gli ha
permesso di seguire per tutta la vita il proposito di “Vivere in terza persona
[che] era stata la [sua] consegna in gioventù” (p. 72).
In Solo
per Ida Brown questa dimensione è amplificata dal fatto che gli eventi si
svolgono in buona parte in un campus universitario degli Stati Uniti che ricalca
la Princeton in cui Piglia ha insegnato a lungo, dove Renzi, dopo il suo
secondo divorzio, è stato invitato su insistenza dell’Ida Brown del titolo, sua
collega agguerritissima, che diventerà sua amante ma morirà ben presto in
circostanze misteriose che Renzi cercherà di chiarire, in una serie di passaggi
che porteranno il romanzo da un’apparenza iniziale di classico “campus novel”,
dopo un’intensa quanto breve storia d’amore, a un altrettanto classico romanzo
d’investigazione, con forti implicazioni politiche.
Ma anche qui, le riflessioni di Renzi,
Ida e altri personaggi, che vertono principalmente sull’oggetto dei loro studi,
(Hudson, Conrad, Melville e Tolstoj) non servono solo a caratterizzarli o a
fare solo da contrappunto alla narrazione (come in molti libri recenti, a
partire da quelle su Huysmans in Sottomissione
di Houellebecq), ma sono dei veri e propri congegni che servono a portare
avanti la storia, suggerire corrispondenze e implicazioni (le differenze e
corrispondenze tra Usa e Argentina, i ricordi personali e dei periodi di dittatura,
il sogno di una società precapitalistica, le utopie...) e indurre il narratore
a compiere dei passi decisivi per cercare di chiarire la morte di Ida, come in
un giallo, e dare un senso agli eventi.
Del
resto “Qualunque racconto è un giallo (...) Solo gli assassini hanno qualcosa
da raccontare, la storia personale è sempre la storia di un delitto”, aveva già
scritto Piglia in La città assente (p. 178), anche se i
suoi libri, che hanno appunto spesso la forma esplicita del romanzo di investigazione
quando non del noir (come Soldi Bruciati),
non hanno mai la figura dell’investigatore come narratore o protagonista ma figure
che si potrebbero compendiare in quella del lettore. Nessuna contraddizione
però: anzi, una conferma in più della prima affermazione, dal momento che se il
romanzo di investigazione, che per lui è l’unico genere veramente moderno,
nasce con la figura dell’investigatore (il Dupin di Poe), questi è al contempo
il prototipo del moderno lettore: di libri, ma anche delle tracce che sono
disseminate nelle notizie, da quelle dei giornali (come nel caso inaugurale dei
delitti della Rue Morgue), alla rete, come nel caso del Ralf Parker di Solo per Ida Brown. E lettori (e
scrittori, o critici, o giornalisti: chi legge, scrive) sono anche molti
personaggi: dal quasi onnipresente Emilio Renzi, al Junior protagonista di quel
libro bellissimo che è La città assente
e ad altri personaggi non di secondo piano (come lo zio Maggi e l’esule polacco
Tardewsky,
ricalcato sulla figura di Witold Gombrowicz che tanta importanza ha avuto per
tutta una generazione di scrittori argentini – e non solo, se mi è concesso di
aggiungere una predilezione personale – nello straordinario Respirazione artificiale), o gli oggetti
delle loro indagini (l’Enrique Ossorio, traditore, politico e scrittore, capostipite
della famiglia di signorotti locali ancora in Respirazione artificiale),
per non parlare dei professori e scrittori dell’ultimo romanzo.
La morte di Ida Brown troverà un inizio di spiegazione a
partire dalle sue sottolineature e note a margine della copia di L’agente segreto di Conrad che
costituiva l’oggetto del seminario che stava tenendo in quel semestre. È questa
morte, probabilmente un omicidio anche se non sono chiare le modalità e
soprattutto il movente, ma che potrebbe anche essere un incidente, che imprime
una svolta alla trama: per cercare di capire cosa è successo, e che gli sembra
che la polizia e l’Fbi gli nascondano, Renzi contatta un detective, Parker, che
rappresenta all’apparenza una evoluzione della figura tradizionale, così come
si era venuta delineando nell’hard boiled americano, a cui Piglia ha dedicato
uno dei saggi più belli di L’ultimo
lettore, ma in realtà è forse una sua riproposizione adeguata ai tempi
moderni del prototipo originale: non più
qualcuno che agisce a proprio rischio e pericolo, ma uno che cerca informazioni
e le mette insieme. Uno che non risolve più i casi, ma si avvicina ad essi
raccontandone una versione, come dice lo stesso Parker (p. 145): un lettore, cioè,
che diventa scrittore...
È attraverso di lui che Renzi arriverà
ad avvicinarsi a una plausibile interpretazione dei fatti, senza però arrivare
nessuna certezza.
Infatti, se a proposito di L’agente segreto Renzi afferma: “Non era
la realtà a permettere di capire un romanzo, ma il romanzo a rendere
comprensibile una realtà che, per anni, era rimasta indecifrabile” (p. 188),
nemmeno questa decifrazione può dare accesso a una realtà ultima, in quanto a
sua volta non può essere completamente decifrata, ma solo, di nuovo,
raccontata. Come già insegnato da Gadda, i casi non si risolvono mai, ai nostri
giorni (nella letteratura odierna: in quella di Piglia, di sicuro). C’è sempre
un residuo, un’ipotesi ulteriore che a sua volta ne suscita altre. È la visione
paranoica (tutto può essere letto come indizio, come ha insegnato ironicamente
Gombrowicz, soprattutto nel capolavoro Cosmo),
la teoria del complotto, che però in Piglia non dà luogo a rimuginazioni
ossessive e contorte, ma viene distribuita nei differenti punti di vista dei
vari personaggi e sapientemente manovrata dall’autore. La costruzione dei suoi
libri, come lo stile, è della più grande lucidità. Il discorso che risolve, che
chiude in una verità ufficiale è quello del potere, mentre la letteratura tiene
aperte molte strade, fissa dei punti che non sono mai fermi, ma si raddoppiano
sempre per dar luogo ad altre visioni della realtà, a ipotesi controfattuali, a
sentieri che si biforcano e non si sa dove portano.
Il cambiamento dei tempi è quindi anche un cambiamento del
lettore. Oltre a quello esemplificato dalla figura dell’investigatore, che appunto
a puro lettore è ridotto, non esce più per le strade e non fa che leggere e
interrogare dati che gli arrivano sui monitor di 4 pc connessi a “un circuito
web con un motore di ricerca speciale” (p. 25) collaborando con i corpi
investigativi anziché scartarsene e andare per la propria strada, più spesso
controcorrente che seguendola, come in passato; anche il lettore “tradizionale”
(lo studioso, il critico, il professore, Renzi) è cambiato: se il primo legge
la rete per scoprire, l’altro scopre dalla lettura (sua) di una lettura (di
Ida) di un romanzo del passato (L’agente
segreto di Conrad) gli indizi per capire cosa è, o meglio: cosa può essere
successo. Si legge un testo sempre già letto. Si leggono letture.
Capire è istituire dei nessi, ma per
farlo, “è necessario
raccontare un’altra storia. O tornare a
raccontare una storia, ma da un altro luogo e in un altro tempo. Questo è il
segreto di ciò che c’è da leggere. E questo è quel che la letteratura, secondo
Kafka, mostra senza spiegare” (L’ultimo
lettore, p. 51).
Si
tratta, da lì, sempre, di costruire una trama, anche, ricordando che “la cosa più importante in una storia è ciò
che non si racconta” (Introduzione all’edizione italiana di Respirazione artificiale, p. 8). La
stessa trama che si ricostruisce a spezzoni e si racconta qui, con molte
interruzioni, come su silenzi e interruzioni sono basati i romanzi di Piglia. “Solo
nei film di Hollywood è sbagliato raccontare il soggetto; nei romanzi invece la
trama è soltanto una guida, o meglio la mappa di un territorio che si va
trasformando mano a mano che procediamo.” (Ivi, p. 9)
Dei
libri di Piglia si può, e forse si deve, raccontare la trama, perché una trama
non c’è: non solo nel senso che non c’è trama al di fuori dall’atto di
riassumerla e raccontarla (o che viceversa c’è sempre, perché non appena si
mettono in fila due frasi una trama è già istituita, sia pure come storia
possibile), ma nel senso che le storie da lui raccontate, oltre che spesso
interrotte, si sovrappongono e si incrociano in vari modi e in punti diversi, e
sono a loro volta oggetto di riflessioni e di ricostruzioni che variano da un
personaggio all’altro e di cui nessun narratore esterno è in grado di tirare
tutti i fili e chiudere il cerchio: spetta ai lettori, non tanto farlo, quanto
accostare, cucire, riempire i vuoti, formulare ipotesi, ciascun lettore in modo
diverso dall’altro e diversamente a ciascuna lettura: insomma deve raccontare
di nuovo la storia, la trama, a sé (e il critico ai suoi lettori). Il famoso
inizio di Respirazione artificiale
diceva “C’è una storia?”, e continuava: “Se una storia c’è, inizia tre anni
fa”. Ma una storia non c’è mai (come
non c’è una vita: vedi l’inizio di Solo per Ida Brown: “In
quel periodo vivevo varie vite, mi muovevo per sequenze autonome: la serie
degli amici, dell’amore, dell’alcol, della politica, dei cani, dei bar, delle
camminate notturne. Scrivevo sceneggiature che non venivano girate, traducevo polizieschi...”, raddoppiato dal progetto di Munk, il
terrorista che si scopre forse collegato con la morte di Ida di cui si occuperà
la seconda parte del romanzo, modellato sulla figura di Unabomber e qui
chiamato Recycler, di trascrivere in quaderni separati ognuna
delle serie alternative della sua vita, abbandonato quando poi aveva capito che
l’elemento interessante non erano le serie ma le loro intersezioni: p. 226), ce ne sono sempre tante quanti sono
coloro che leggono e raccontano: e
quindi una storia c’è sempre: non ci
sono altro che storie. Il che non significa che non ci possa essere verità, o
realtà, o solo esperienza...
Ma un cambiamento è intervenuto anche nello statuto
dell’“eroe” centrale del romanzo, che, dice Piglia per voce di Nina,
l’ottantenne esule russa vicina di casa amica di Renzi, se in passato è stato
l’Avventuriero, e più tardi il Dandy, nel XXI secolo sarà il terrorista, un
uomo che “non uccide per interesse personale né per vendetta, [ma] per un’idea,
come un filosofo platonico” (123), peraltro già preannunciato nel secolo
precedente sia nel cinema che nel romanzo, a partire appunto dal citato L’agente segreto di Conrad, del 1907.
Anche il terrorista, che incarna il secondo elemento che per
Piglia assieme all’enigma è costitutivo del romanzo di investigazione: il
mostro (l’altro assoluto: scimmione, folle, fuorilegge o solo straniero che
sia), è un lettore e uno scrittore alla ricerca di lettori: “il terrorista come
moderno scrittore, l’azione diretta come patto con il Diavolo” (p. 129). I suoi
attentati possono essere visti come una strategia che può essere riassunta
così: “Uccidere delle “persone” per procurarsi lettori” (p. 129). Come sanno
tutti i movimenti terroristici, attirare l’attenzione è capitale. “Il
terrorismo è propaganda armata, un mezzo di comunicazione come qualsiasi altro”
(p. 108). Solo il terrore puro può fare a meno della comunicazione. L’unica
comunicazione contenuta nella violenza senza comunicazione, cioè senza che vi
sia un interesse che vada al di là della volontà o del piacere di esercitarla,
è la violenza stessa; l’unico effetto è il terrore. L’attenzione invece, come
ha ben illustrato il filosofo Yves Citton, è la merce più ambita della nostra
era caratterizzata dall’ipercomunicazione: e per il singolo (cittadino,
compratore, destinatario) spesso è anche l’unico capitale spendibile. La
capacità di attenzione è ciò che lo definisce. L’individuo è il soggetto
potenzialmente attento, e la strategia più efficace per ridestare questa
capacità è eccitare le sue passioni, il desiderio, e più ancora quella più
forte di tutte, la paura. (Da notare invece che nel secondo romanzo di E.
Vila-Matas, L’assassina letterata, si racconta il caso di un libro scritto
apposta per uccidere il lettore a cui era destinato. Impresa meno ardua di
quanto si potrebbe supporre tuttavia, dal momento che di fatto, pur senza
volerlo, i libri che trionfalmente ci riescono sono la stragrande maggioranza.)
Il terrorista di Solo per Ida Brown, nominato Recycler da giornalisti e investigatori per il suo modo di agire e i messaggi che lancia, è modellato sulla figura di Theodore Kaczynski, noto come Unabomber, che tra i 1978 e il 1996 realizzò una ventina di attentati negli Stati Uniti, alcuni letali. Nel romanzo, quando viene identificato e arrestato, poco dopo la morte di Ida, si chiama Thomas Munk e come l’Unabomber reale è genio matematico e logico precoce, vincitore di premi prestigiosi e giovanissimo insegnante a Berkeley negli anni ‘60 dove appunto Renzi scoprirà che ha conosciuto Ida Brown. . Come il suo corrispettivo reale, anche Munk si ritira dal mondo a vivere come un eremita autosufficiente al ritorno del fratello Peter dal Vietnam, che poi diventerà scrittore e sarà colui che lo riconoscerà come autore del “Manifesto” da lui inviato a editori e giornali come condizione per cessare gli attentati e lo tradirà. (Il tema del traditore, di ascendenza borgesiana, è costante – sia detto di passaggio – nei libri di Piglia, che lo declina in vari contesti e modi con estrema sottigliezza.)
Il susseguirsi degli attentati senza rivendicazione reclamava una lettura offrendo però solo una debole chiave d’accesso (le buste esplosive, sigle enigmatiche e materiali usati...); ma più questa si rivelava debole, più cresceva, insieme alla necessità di trovarla, il desiderio di sapere, l’ansia della decifrazione: sventare altri attentati ma anche dare un nome, capire, rassicurarsi. Conoscere l’autore. (L’anonimato e la pseudonimia sono uno stimolo irresistibile per la curiosità del lettore, come si sa...) L’autore, e i suoi eventuali complici. Se ne aveva. Cosa molto probabile (e forse Ida era uno di essi, magari involontaria, non del tutto consapevole, senza contare che “in giro ci sono molti gruppi ecologisti che sarebbero stati dispostissimi ad aiutarlo”, p. 202), anche se dopo la cattura tutto sembra essere attribuito al solo Munk, con buona pace di tutti: perché uno psicopatico isolato è un caso clinico; un gruppo, anche limitato, un problema sociale – e implicitamente, quindi, l’ammissione di un’imperfezione dell’organismo che per eccellenza si vuole perfetto e catafratto, lo Stato, con i suoi apparati. Si sa che il confine tra dissidenza e malattia mentale è sottile e tutti i poteri tendono a renderlo poroso, anche quando non lo cancellano completamente come fanno i regimi totalitari. Per opporsi al benefattore universale bisogna essere pazzi, o criminali, e quindi l’oppositore va soppresso, o quantomeno, per non smentire la propria umanità, rinchiuso nei luoghi dove possa essere neutralizzato o redento: lager o manicomi. Il potere è ciò che vorrebbe determinare indirizzare senza possibilità di errore l’interpretazione verso la giusta lettura della realtà, la sua; quella che a seconda dei momenti gli serve, senza pregiudizio di eventuali, e di fatto frequentissime, contraddizioni con le precedenti. Cosa impossibile, in realtà, perché anche se non sempre automaticamente avviene, ogni lettura crea la propria realtà, mettendo insieme ciò che ogni testo dice, le strade che ha scelto di non percorrere, e gli altri testi con cui, per ogni lettore, si combina. La critica è dare voce a qualcuna di queste combinazioni. La realtà nasce (deriva) dalla lettura, non la precede. La lettura è l’esperienza che si fa della realtà. Senza racconto, nessuna esperienza. Senza esperienza nessuna conoscenza e nessuna realtà. (Tanto per fare una breve sintesi, abbastanza condivisa ormai. Un bigino.)
L’assassino si
nasconde, o confonde, con la massa degli invisibili, dalla quale pure si isola:
come essa è composta di anonimi sconosciuto, così egli, nella società di massa
e della sorveglianza totale, si rende anonimo, nasconde il suo segreto, che nel
caso di Recycler viene poi strumentalizzato alla diffusione delle sue idee: il
segreto regge non solo le sue azioni, ma lo Stato stesso contro cui egli si
rivolta, uno stato doppio, che è basato insieme sulla proclamazione della
libertà e sulla sorveglianza totale, sulla necessità di conoscere ogni segreto
temendo però celati i propri, e quindi sfidando chi non vuole esserne complice
a cercare di rivelarli e a diffonderli in tutti i modi e con tutti i mezzi
possibili: che poi – e sta qui la loro forza ma infine anche la loro sostanziale
debolezza, cioè la radice della loro sconfitta –, sono gli stessi del suo avversario. E
così tendono essi stessi a identificarsi. “Il potere politico è sempre
criminale”, diceva un personaggio di La
città assente (p. 79), come lo è chi lo contrasta. Ma questi ne incarna
anche alcuni valori di fondo. Munk, il terrorista, il pericolo pubblico n. 1, è
anche “un eroe americano nel vero senso del termine: l’individuo
con un’educazione superiore, l’intellettuale di alto prestigio accademico, che
sceglie di abbandonare ogni privilegio e si ritira a vivere in un bosco [...e]
decide di mostrare che la ribellione è possibile, e che un uomo da solo può
mettere in scacco l’FBI”
(p. 212), e come tale hai i suoi fan e estimatori nei campus, nell’esercito dei
“radicali”, emarginati e “ribelli” che fanno parte da sempre della società
americana, e persino in prigione, dove gode della stima di tutti.
Come Munk, anche Ida, “interessata alla tradizione di quegli
scrittori che si opponevano al capitalismo da una posizione arcaista e
preindustriale. Populisti russi, beat generation, hippy e, oggi, gli
ecologisti...” (p. 18), “era una star del mondo accademico” (p. 17), che a modo
suo essa terrorizzava e combatteva, non facendo distinzione tra pensare e
combattere, “due verbi [che] vanno a braccetto” (p. 18). Pur rimanendone
all’interno e godendo dei benefici della notorietà, Ida, da marxista qual era, era
consapevole che il mondo accademico non rappresenta il meglio della società, non
la osserva e giudica olimpicamente dall’alto e se aspira a cambiarla e/o a
guidarla, è solo perché ne incarna alcuni dei meccanismi più profondi: a
partire dalla feroce competizione e dalla sottaciuta violenza dei rapporti, che
non a caso Recycler, che da quel mondo proviene, alla lettera fa esplodere con
i suoi plichi.
“Le università sono i nuovi ghetti, i luoghi di violenza
psicologica della modernità. ... Pacifici ed eleganti, i campus sono concepiti
per escludere esperienza e passioni ma, sotto la superficie, scorrono ondate di
collera intestina: la violenza terribile degli uomini educati (pp. 30-31) (Del
resto nemmeno Piglia si
risparmia la giusta dose di perfidia, minima, impercettibile a volte, quanto
velenosa, sempre con l’accortezza però di farla enunciare da coloro stessi che
ne sono i bersagli). “Una giungla più pericolosa delle
paludi del Vietnam. Gente intelligentissima ed educatissima che la notte sogna
vendette efferate”, come dice Nina (p. 88). Non è quindi sorprendente che
questa violenza a volte si riversi anche fuori e che da fuori vi ritorni (vedi
il gran numero di stragi nei campus delle high school o dei college, e che
praticamente la totalità degli attentati dell’Unabomber di Solo per Ida Brown abbia per vittime docenti o persone che lavorano
in campi tecnologici e culturali – 102 “L’elemento che accomunava tutti gli
attentati era una busta esplosiva spedita a scholars e studiosi del mondo
scientifico e accademico.”)
Ma anche Ida, proprio perché personaggio pubblico, si
riservava un territorio di segreto e separazione: “saremo amanti clandestini”,
impone a Renzi appena inizia la loro avventura (p. 49). Come se, per vivere,
una vita non bastasse, ma ce ne volesse almeno una seconda, o altre ancora. “La
doppia vita fa parte della cultura di quel paese”, afferma Renzi (o Piglia? –
p. 51). Come se, non solo nell’amore, fosse indispensabile il segreto,
nascondersi, riservarsi uno spazio invisibile, anonimo, cifrato, forse proprio
in virtù del fatto che la nostra, come ha scritto Riccardo Venturi, “è l’epoca
dell’open secret, come l’ha definita Pamela Lee, di un’invisibilità
visibile al cuore delle politiche d’informazione, di un segreto che annuncia la
sua clandestinità mostrandosi in pubblico”.
Da una parte quindi la clandestinità è impossibile,
dall’altra è necessaria: “C’è un’unica via di scampo: restare da soli, in un
luogo isolato... questa è l’era degli uomini soli, delle cospirazioni
individuali, dell’azione solitaria. Possiamo resistere solo nascondendo i
nostri pensieri, mantenendoli invisibili, confondendoli nella moltitudine” (pp.
222-3). Le idee, essendo invisibili, sono “l’ultimo rifugio della ribellione”.
Il problema è però che, quanto più queste idee sono forti, tanto più forte è
l’esigenza di diffonderle. E diffonderle comporta dei costi. Anche in vite
umane. Dice Munk a Renzi che lo va a visitare in carcere: “Ma non deve credere
che i morti mi siano indifferenti, proseguì. Sono miei pari, avrei potuto
essere uno di loro. Grandi scienziati, mascalzoni fatti e finiti, uomini
sensibili... Dimenticavano – o non volevano vedere – le conseguenze dei loro
atti. Il male è questo: non farsi carico delle conseguenze dei propri atti. Le
conseguenze, non i risultati” (p. 227). Ma non è detto che facendosi carico
delle conseguenze il male sia evitato, o redento.
Munk, che nelle sue ricerche si era occupato delle
“condizioni necessarie per inferire la verità” (p. 150), non si preoccupa
invece di quali saranno quelle relative alle tesi sulla logica distruttiva del
capitalismo che lui intende divulgare come se i modi della loro diffusione
fossero di nessun conto. Il contro-complotto con cui intende reagire al
complotto su cui si basa la società obbedisce alla stessa logica. Scrive Piglia
nella Postfazione all’edizione americana di La
città assente: “Fiction della paranoia ... La politica entra nel romanzo
contemporaneo attraverso il modello del complotto, attraverso la narrazione di
un intrigo, anche se tale complotto è privo di qualsiasi esplicita connotazione
politica. È sulla forma in sé che si fonda la politicizzazione del romanzo”
(pp. 194-5). Nei romanzi di Piglia però la connotazione politica, anche se non
sempre marcata, e quasi mai esplicitamente, è quasi sempre presente. In Solo per Ida Brown, tuttavia, lo è, con
l’esplicitezza di temi che però non si fissano mai in una verità definita e
definitiva.
Perché non solo si deve constatare, come diceva Maggi in Respirazione artificiale, che “un uomo
solo fallisce sempre”, ma ciò che ci si deve chiedere è “a cosa serve o al
servizio di cosa è questo scacco individuale”. Il romanzo è uno dei modi per
farlo. Piglia, in questo libro come negli altri, usa eventi o figure derivati
dalla storia e dalla cronaca e li mette alla prova della varietà dei punti di
vista e delle possibilità immaginative (e formali) che solo la finzione, e la
sua verità, offrono.
Anche
quando si riferisce a figure, documenti (libri e giornali) o eventi reali,
Piglia si prende sempre la libertà di inventare, a seconda di ciò che è
funzionale a quanto sta scrivendo. Quando mette in scena figure storiche, non è
per ancorare ciò che narra alla realtà, ma al contrario perché solo attraverso
l’invenzione il reale, anche quello storico, diventa comprensibile, e forse
addirittura viene prodotto: nel senso che se ne fa esperienza e solo
l’esperienza rende percepibile e conoscibile, cioè reale, ciò che accade, il
mondo.
Alla
figura storica, senza contraddire quanto si sa di essa e di ciò che ha fatto e
scritto, e spesso proprio utilizzandone alcuni elementi, vengono attribuite
parole e azioni che avrebbero potuto benissimo dare o dire, se solo si fossero
trovati nelle circostanze descritte nel
testo e/o la loro vita a un certo momento avesse scartato anche solo di un grado
in altre direzioni o mondi possibili, non come ipotesi controfattuali, ma come
segmento di una vita che peraltro sarebbe rimasta identica a quella che
conosciamo, ma ricevendone una nuova luce e un di più di conoscenza. (Un
esempio è la frase del diario di Kafka a partire dalla quale, in Respirazione Artificiale, l’esule
polacco dice di aver scoperto un incontro dello scrittore in un caffè di Praga
con un giovane esaltato che poi diventerà il Führer
e che segnerà in modo decisivo la sua produzione successiva, il
mondo che in essa prenderà forma e la Stimmung che la pervaderà...)
La
verità della finzione è più importante della fedeltà alla realtà. La verità,
semmai, si può pensare di perseguirla solo attraverso la fedeltà alle regole
della finzione, a dove conducono le storie con le loro sospensioni, i loro
buchi, segreti o semplicemente cose non dette, che ne costituiscono peraltro
l’aspetto più importante. L’enigma non è solo quello che i personaggi cercano
di rivelare, ma soprattutto quello che circola nelle storie tra i segmenti e le
versioni che le costituiscono, e più ancora quello che, mai chiarificabile del
tutto, e forse nemmeno definibile, le costituisce, e con loro la realtà che in
esse prende forma, la conoscenza che ne abbiamo e l’esperienza che ne facciamo.
Come viviamo, insomma.
Nota di lettura
I libri di Ricardo
Piglia sono equamente suddivisi tra Feltrinelli (Soldi Bruciati, trad. it. Pino Cacucci, Guanda 2000, e ora
Feltrinelli 2008; L’ultimo lettore, trad.
it. Alessandro Giannetti, 2006; Bersaglio notturno, trad. it. Pino Cacucci,
2011; Solo per Ida Brown, trad. it.
di Nicola Jacchia, 2017) e le edizioni Sur (Respirazione
artificiale, trad. it. Gianni Guadalupi, 2012; La citta assente, trad. it. Enrico Leon, 2014; e i racconti, L’invasione, trad. it. Enrico Leon,
2015). Da segnalare anche l’importante saggio “Romanzo e complotto”, in Nuova
prosa, N. 46, marzo 2007, Greco&Grecoeditori. Il sito di Sur (http://www.edizionisur.it/)
è ricco di testi, testimonianze e interviste di e sull’autore argentino.
Numerosi e di grande interesse sono i filmati di interviste e trasmissioni
televisive reperibili su Youtube.
Il “Manifesto” di “Unabomber” Theodore
Kaczynski, La società
industriale e il suo futuro, è stato tradotto per Stampa Alternativa ed è reperibile in rete qui:
http://www.serialkiller.it/public/contenuti_documenti/Il_manifesto.pdf
Per L’agente segreto
di Conrad si veda la trad. di Richard
Ambrosini, Mondadori, 2010, con un saggio di Virginia Woolf. Del
capolavoro di Witold Gombrowicz, Cosmo,
è appena uscita per Il Saggiatore una nuova traduzione di Vera Verdiani, a cura
di Francesco Cataluccio. Dei
testi di Yves Citton vedi soprattutto Pour
une écologie de l’attention (Seuil, 2014). L’assassina letterata, di Enrique
Vila-Matas, del 1977, è stato tradotto da. E. Pagani, Voland, 2004. La citazione di Pamela Lee è contenuta
in un articolo comparso su Artforum,
maggio 2011, citato da Riccardo Venturi in Il
corpo di internet. L’arte di Trevor Paglen, di prossima uscita su
doppiozero.com.
Un as-solo alquanto corale, dunque! e sì vien voglia di leggerlo. Viene anche in mente Joe Bousquet, e il suo sentire "la responsabilità di qualcosa che non conosco."
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