Il
mito di Orfeo è uno dei più amati dagli artisti, e non a caso: è il loro mito.
In Orfeo l’artista non si stanca di specchiarsi come Narciso nella fonte e
torna sempre a cercarlo come Orfeo stesso cercava Euridice, poiché, mentre la ricerca gli permette di
offrire di sé l’immagine che ha o vorrebbe avere, Euridice continua a
sfuggirgli. Il suo è un viaggio nel regno dei morti, ma diversamente dal mito,
egli non può cantare se non dopo avere ascoltato le loro voci, insoddisfatto di
ciò che ha udito e alla ricerca di qualcosa di ancora più originario, che in
quelle stesse voci parlerebbe e che insieme da esse sarebbe coperto, unico
specchio velato che potrebbe restituirgli la sua vera immagine. Così facendo
tuttavia, spesso dimentica che proprio quelle voci sono gli specchi che gli
rimandano le immagini a partire dalle quali egli comincia a immaginare, di sé,
quella che non vede.
Alle
origini ci sarebbero l’Orfeo greco e la sua religione, ma poche sono le
testimonianze dirette che ci sono rimaste e nonostante il moltiplicarsi degli
studi poco ancora ne sappiamo. Più importante invece, perché da lì nella
cultura occidentale hanno preso avvio tutti gli sviluppi e perché solo in essi
per noi il mito vive, è la seconda origine del mito. E la seconda origine è latina,
ha un luogo di nascita e un padre precisi: Virgilio, quarta Georgica; cosa disdicevole per un mito,
ed è forse per questo che talvolta si preferisce dimenticarli.
A
ricordarcelo invece, con grande sottigliezza di analisi e vastità di conoscenze,
è il bellissimo libro di Charles Segal Orfeo
- Il mito del poeta (Einaudi, 1997, p. 282, £. 48.000). Segal ci mostra
come proprio Virgilio abbia definito il mito nei termini con cui tutti si sono
poi confrontati cercando di approfondirli, ma tracciandone al contempo i
confini al cui interno più o meno consapevolmente tutti si sono mossi, ognuno
cercando di estenderli o di frastagliarli, a cominciare da Ovidio (Metamorfosi, X e XI), colui che vi ha
apportato le varianti più significative di cui la tradizione abbia poi tenuto
conto.
Per
primo Virgilio delinea, e già nella sua completezza, il “paradigma mitico” di
Orfeo, un paradigma “capace di abbracciare insieme la vita e la morte; l’ordine
e la passionalità; le forme viventi e quelle inanimate; la fecondità e la
sterilità; il controllo dell’uomo sulla natura e la sua fusione simpatetica in
essa; il potere dell’arte sulla morte e la sua impotenza dinanzi a essa; la
cedevolezza del mondo all’imperio della parola e l’incapacità del poeta di
affrontare il reale...”
I
confini di questo paradigma sono tracciati dal triangolo formato da amore arte
e morte; i suoi protagonisti sono Orfeo da una parte e Adrasteo (più che
Euridice, oggetto e simbolo del desiderio che raramente, se non in alcune
versioni moderne, ha un ruolo attivo e diverso da quello di oggetto del
desiderio, pur con tutte le sue implicazioni simboliche) dall’altra, anche se
quella tra Orfeo e Adrasteo non è una semplice contrapposizione, perché la
figura stessa di Orfeo è già duplice: eroe civilizzatore come Adrasteo, che
incarna l’uomo che si confronta con la realtà per trasformarla, e insieme
poeta, incantatore e sciamano che vince e viene vinto dalla morte.
Pur
senza ambire, ovviamente, ad una ricostruzione esaustiva e soffermandosi quasi
esclusivamente su quelle letterarie, Segal segue le principali rielaborazioni
che il mito ha subito nel corso di due millenni, con particolare riferimento al
900 e trascurando un po’ quelle rinascimentali (per esempio il Poliziano) e
quelle sei-settecentesche, soprattutto quelle musicali di Monteverdi e Gluck.
Il risultato è che, pur con esiti talora altissimi e comunque di grande
interesse per la storia della nostra cultura, esse continuano ad obbedire al
paradigma virgiliano (o virgiliano-ovidiano) mettendo in discussione solo
l’interpretazione dei termini e variandone di conseguenza la gerarchia ma
lasciandone intatta, e impensata, la struttura.
Solo
nel nostro secolo, con Rilke, questo si verifica, e non tanto nel poemetto
“Orfeo. Euridice. Ermes.” del 1904, quanto nei Sonetti a Orfeo, capolavoro scritto di getto nel febbraio del 1922,
contemporaneamente alle ultime Elegie
duinesi. Nel suo lungo commento (che il lettore potrebbe utilmente
integrare con quello fatto da F. Rella nella sua traduzione dei Sonetti, - Feltrinelli, 1991, p.177, £.
10.000), Segal mostra come Rilke più che seguire il mito lo abbia in un certo
senso ricreato, sottoponendolo a quella stessa vitale metamorfosi nella quale
per lui consiste l’essere stesso della vita.
Orfeo “accoglie in sé” la metamorfosi e fa del suo stesso canto un “processo (che)
partecipa anche del mutamento”, in modo da giungere a quella “riconciliazione
di mutamento e di permanenza che costituisce l’Essere”. Orfeo cioè per Rilke
non è una figura mitica ma il canto stesso (“Ogni volta sempre / è Orfeo quando
c’è canto”), la “traccia interminata” in cui dicibile e indicibile, attraverso
la Figura, prendono forma, “infinito accoglimento” dell’esistenza nel suo
trascorrere e nelle sue tensioni e infine della morte stessa pur nella sua
tragicità.
Quella
di Rilke potrebbe essere considerata come una terza origine di Orfeo. Da allora
molte sono state le riprese. Segal ne esamina alcune nell’ultima parte del suo
libro, che si chiude con quella datane da Blanchot in un saggio compreso in Lo spazio letterario. Lo stesso Blanchot
che costituisce uno dei riferimenti maggiori di Jean-Michel Maulpoix in La voce di Orfeo (Hestia, p. 151, £. 22.00), che affronta, con una scrittura
che alterna l’andatura saggistica a toni più tipici del suo oggetto, la nozione
di lirismo e la sua storia: libro che si segnala qui come ultimo frutto della
metamorfosi di un mito che sembra ben lontano dall’aver esaurito la sua
vitalità.
Nessun commento:
Posta un commento