02/02/18

Orfeo - Il mito del poeta (1997)





Il mito di Orfeo è uno dei più amati dagli artisti, e non a caso: è il loro mito. In Orfeo l’artista non si stanca di specchiarsi come Narciso nella fonte e torna sempre a cercarlo come Orfeo stesso cercava Euridice,  poiché, mentre la ricerca gli permette di offrire di sé l’immagine che ha o vorrebbe avere, Euridice continua a sfuggirgli. Il suo è un viaggio nel regno dei morti, ma diversamente dal mito, egli non può cantare se non dopo avere ascoltato le loro voci, insoddisfatto di ciò che ha udito e alla ricerca di qualcosa di ancora più originario, che in quelle stesse voci parlerebbe e che insieme da esse sarebbe coperto, unico specchio velato che potrebbe restituirgli la sua vera immagine. Così facendo tuttavia, spesso dimentica che proprio quelle voci sono gli specchi che gli rimandano le immagini a partire dalle quali egli comincia a immaginare, di sé, quella che non vede.
Alle origini ci sarebbero l’Orfeo greco e la sua religione, ma poche sono le testimonianze dirette che ci sono rimaste e nonostante il moltiplicarsi degli studi poco ancora ne sappiamo. Più importante invece, perché da lì nella cultura occidentale hanno preso avvio tutti gli sviluppi e perché solo in essi per noi il mito vive, è la seconda origine del mito. E la seconda origine è latina, ha un luogo di nascita e un padre precisi: Virgilio, quarta Georgica; cosa disdicevole per un mito, ed è forse per questo che talvolta si preferisce dimenticarli.
A ricordarcelo invece, con grande sottigliezza di analisi e vastità di conoscenze, è il bellissimo libro di Charles Segal Orfeo - Il mito del poeta (Einaudi, 1997, p. 282, £. 48.000). Segal ci mostra come proprio Virgilio abbia definito il mito nei termini con cui tutti si sono poi confrontati cercando di approfondirli, ma tracciandone al contempo i confini al cui interno più o meno consapevolmente tutti si sono mossi, ognuno cercando di estenderli o di frastagliarli, a cominciare da Ovidio (Metamorfosi, X e XI), colui che vi ha apportato le varianti più significative di cui la tradizione abbia poi tenuto conto.
Per primo Virgilio delinea, e già nella sua completezza, il “paradigma mitico” di Orfeo, un paradigma “capace di abbracciare insieme la vita e la morte; l’ordine e la passionalità; le forme viventi e quelle inanimate; la fecondità e la sterilità; il controllo dell’uomo sulla natura e la sua fusione simpatetica in essa; il potere dell’arte sulla morte e la sua impotenza dinanzi a essa; la cedevolezza del mondo all’imperio della parola e l’incapacità del poeta di affrontare il reale...”
I confini di questo paradigma sono tracciati dal triangolo formato da amore arte e morte; i suoi protagonisti sono Orfeo da una parte e Adrasteo (più che Euridice, oggetto e simbolo del desiderio che raramente, se non in alcune versioni moderne, ha un ruolo attivo e diverso da quello di oggetto del desiderio, pur con tutte le sue implicazioni simboliche) dall’altra, anche se quella tra Orfeo e Adrasteo non è una semplice contrapposizione, perché la figura stessa di Orfeo è già duplice: eroe civilizzatore come Adrasteo, che incarna l’uomo che si confronta con la realtà per trasformarla, e insieme poeta, incantatore e sciamano che vince e viene vinto dalla morte.
Pur senza ambire, ovviamente, ad una ricostruzione esaustiva e soffermandosi quasi esclusivamente su quelle letterarie, Segal segue le principali rielaborazioni che il mito ha subito nel corso di due millenni, con particolare riferimento al 900 e trascurando un po’ quelle rinascimentali (per esempio il Poliziano) e quelle sei-settecentesche, soprattutto quelle musicali di Monteverdi e Gluck. Il risultato è che, pur con esiti talora altissimi e comunque di grande interesse per la storia della nostra cultura, esse continuano ad obbedire al paradigma virgiliano (o virgiliano-ovidiano) mettendo in discussione solo l’interpretazione dei termini e variandone di conseguenza la gerarchia ma lasciandone intatta, e impensata, la struttura.
Solo nel nostro secolo, con Rilke, questo si verifica, e non tanto nel poemetto “Orfeo. Euridice. Ermes.” del 1904, quanto nei Sonetti a Orfeo, capolavoro scritto di getto nel febbraio del 1922, contemporaneamente alle ultime Elegie duinesi. Nel suo lungo commento (che il lettore potrebbe utilmente integrare con quello fatto da F. Rella nella sua traduzione dei Sonetti, - Feltrinelli, 1991, p.177, £. 10.000), Segal mostra come Rilke più che seguire il mito lo abbia in un certo senso ricreato, sottoponendolo a quella stessa vitale metamorfosi nella quale per lui consiste l’essere stesso della vita.
 Orfeo “accoglie in sé” la metamorfosi e  fa del suo stesso canto un “processo (che) partecipa anche del mutamento”, in modo da giungere a quella “riconciliazione di mutamento e di permanenza che costituisce l’Essere”. Orfeo cioè per Rilke non è una figura mitica ma il canto stesso (“Ogni volta sempre / è Orfeo quando c’è canto”), la “traccia interminata” in cui dicibile e indicibile, attraverso la Figura, prendono forma, “infinito accoglimento” dell’esistenza nel suo trascorrere e nelle sue tensioni e infine della morte stessa pur nella sua tragicità.
Quella di Rilke potrebbe essere considerata come una terza origine di Orfeo. Da allora molte sono state le riprese. Segal ne esamina alcune nell’ultima parte del suo libro, che si chiude con quella datane da Blanchot in un saggio compreso in Lo spazio letterario. Lo stesso Blanchot che costituisce uno dei riferimenti maggiori di Jean-Michel Maulpoix in La voce di Orfeo (Hestia, p. 151, £. 22.00), che affronta, con una scrittura che alterna l’andatura saggistica a toni più tipici del suo oggetto, la nozione di lirismo e la sua storia: libro che si segnala qui come ultimo frutto della metamorfosi di un mito che sembra ben lontano dall’aver esaurito la sua vitalità.

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