a Lapin Kelinci
Un
amico ha postato su facebook, il famoso quadro di Tiziano La punizione di Marsia, capovolto. Probabilmente un errore nel
caricare l’immagine, ho pensato d’acchito. Ma poi, siccome questo amico è molto
intelligente e molto mi piace ciò che fa e scrive, ho pensato all’eventualità
che il capovolgimento fosse voluto. E subito dopo, che anche se non lo fosse,
sarebbe lo stesso: ciò che mi si dà a vedere ora è questa immagine girata così,
con Marsia rimesso dritto, anche se resta legato con i piedi, in basso,
all’albero, ma come se poggiasse, o fosse incatenato, a un suolo boschivo,
ricoperto di vegetazione, cespugli o rami caduti, mentre ad essere a testa in
giù è Apollo, che però non rinuncia, nemmeno in questa scomoda posizione, a
scuoiare, si direbbe con metodica e soddisfatta pazienza, il suo presuntuoso
sfidante, sconfitto. Raddrizzato in questo modo, però, Marsia riacquista
nobiltà. La sua boria derivava dalla provata maestria nella sua arte che, perseguita
forse più per la (vana)gloria che per il guadagno, gli ha portato solo dolore.
Nel quadro è ancora vivo, come ogni martire o delinquente nel racconto di ogni
scorticamento degno di questo nome: l’operazione va fatta con perizia e una
certa delicatezza, se si vuole che il suppliziato soffra a lungo, senza morire,
e Apollo lo sta facendo con tutta la serenità olimpica che il suo pedigree gli
conferisce. Si curva sul poveraccio e lavora di fino, con vicino un satiro che
ha pronto un secchio d’acqua, non si sa se per inumidire le zone incise e pulirle
dal sangue che cola a terra lappato da un cagnolino (aggiunto dagli allievi di
Tiziano a posteriori, dicono gli studiosi), o per altro soccorso, a Apollo o al
suo simile. La sua espressione è indecifrabile, come si conviene a volti
ferini, ai quali al massimo si può attribuire stolidità o, nel caso dei satiri,
incontrollata, furiosa libidine. Il segno di questa tirannia istintuale, che
nel disegno di Giulio Romano a cui Tiziano si è ispirato era in bella evidenza,
è qui nascosto dalla figura pensierosa di re Mida, che ha i tratti di Tiziano
vecchio come era quando stava dipingendo il quadro che infine ha dovuto
lasciare incompiuto, e, in Marsia, dal modo in cui le gambe (o zampe, per la
precisione), sono legate ai rami e dalla prospettiva scelta apposta per coprire
le vergogne (o l’orgoglio: un altro dopo quello dell’hybris della sfida al dio,
se non lo stesso declinato in un altro modo).
Senza
la protezione della pelle, ogni millimetro della superficie del corpo è
sensibile a tutto ciò che la avvolge, e questa sensibilità è dolorosa. Il
minimo contatto con il mondo è dolore intollerabile.
Se
capovolgiamo i rapporti temporali e di causa-effetto come è capovolta
l’immagine, la sensibilità e il dolore sono la conseguenza dell’arte, maggiori
quanto maggiore è stata la tensione verso la maestria, il costo di un’ambizione
verso una perfezione tale da volersi eguagliare a quella divina, e non la sua
premessa, come sostengono in molti secondo una vulgata tutto sommato recente:
che l’opera cioè può nascere solo da dolore e privazioni, come se ogni sensazione
e condizione positiva fossero di impedimento alla creazione, foriere solo, da
questo punto di vista, di stolida impotenza o, peggio, di banale
superficialità.
Il
peccato di Marsia è la superbia, ed è per questo che è stato letto come
un’immagine del peccato originale dal cristianesimo, che ha questo di bello,
che recupera più o meno tutto, invece di distruggere (ha fatto e fa anche
quello, sia chiaro: perché una religione dominante non si fa mancare niente)
ingloba più che può e lo trasforma in altri racconti che fanno quadrare più o
meno tutto. Una delle ragioni del suo fascino, anche presso coloro che non ci
credono e non sono obnubilati da altre ortodossie, è appunto questo. Per me,
obnubilato da un sacco di ubbie ma non da ortodossie, lo è. Come Adamo, anche
lui ha voluto essere dio, e non un suo strumento: uno strumento che questi fa
risuonare tanto meglio quanto più si arrende docile al suo volere, rinunciando
a se stesso, alla resistenza che l’individualità sempre oppone a ciò che viene
dall’esterno, o dal profondo (dall’insondabile insomma), invece di accoglierlo
e di esserne, letteralmente e entusiasticamente, come indica l’etimo stesso di
entusiasmo, posseduto. Invasato. Dionisiacamente squassato. Non a caso Atena
aveva gettato il flauto che da poco aveva inventato vedendo le proprie guance
gonfie specchiate nell’acqua, come Narciso, mentre suonava. Cosa che per un
satiro, figura dionisiaca già di per sé, non fa alcuna differenza. Brutto per
brutto… Invece per Apollo e i suoi seguaci, come il damerino alla sua sinistra
che alcuni interpretano come Orfeo, suonare la cetra non comporta brutture e
non mette a tacere la voce, che anzi può ricavare beneficio dalla sua dolce
melodia. Controllo, e che diamine! Per Apollo suonare è una performance. Per il
satiro qualcosa di più, ci porta dentro il corpo, lui, lascia che gli istinti
si scatenino nel baccanale. Suonare e insieme godere: non sia mai! Che sia
punito allora! La felicità dell’opera è degli altri, a chi la cerca viene solo
dolore, prima durante e dopo si direbbe. A chi è triste si aggiunge solo altra
tristezza, a chi è sereno ulteriore serenità, al gioioso maggiore gioia.
Si
può però vedere la cosa altrimenti, in questo quadro terroso, insanguinato, in
cui si fronteggiano non solo due contendenti, non solo due condizioni: la
divina e l’umana, ma anche due posture e due direzioni.
Perché
poi, guardando da un’altra direzione, si possono fare altre ipotesi. Invece di
biasimare, cosa oggi alquanto facile, il dio, potremmo attribuirgli, come un
dio in fondo merita se tale l’uomo lo ha fatto, una veggenza superiore: in
questo senso allora non scuoierebbe Marsia per punirlo, ma per farlo suonare
ancora meglio, perché a suonare non sia solo lo strumento ma davvero tutto il
corpo, tutta la sua sensibilità esposta, affiorata in superficie, tradotta
verso l’esterno. Perché se non suona tutto il corpo, nemmeno lo strumento suona
bene. Ma per suonare bene il corpo deve fondersi con lo strumento, e non usarlo
(come ha capito Glenn Gould). Deve soffrire fino a dimenticarsi di sé. Fino a
dimenticarsi del sé. Apollo allora non starebbe infliggendo una punizione, ma
elargendo una lezione, che come ogni vera lezione non va senza sofferenza.
Anche se il dio, che è tutto meno che un compassionevole moralista, un po’ sta
esagerando. Speriamo si fermi prima. Ma non si ferma. Marsia muore, anche se il
suo sangue e le lacrime degli astanti e degli amici satiri che lo piangono
vanno poi a formare il fiume che porta il suo nome, perché sangue e lacrime
vanno riscattate, producono sempre qualcosa, si vuole pensare, e non si perdono
a terra per nulla, sterili e immedicate.
Ma
il quadro rovesciato mostra anche un’altra cosa. Marsia non sta solo soffrendo,
a ben guardare la sua figura capovolta vediamo la parte nascosta del dolore,
che la visione diritta impediva non solo di vedere, ma anche di pensare:
capovolta, la postura di Marsia è quella di qualcuno che sta danzando. Il
rovescio del dolore, non esterno, ma insito nel dolore stesso, è la danza. La
gioia. Una diversa gioia forse, ma pur sempre una gioia. La danza. Il corpo glorioso.
Come quello che si dice ottengano in premio delle loro sofferenze, tutti i
martiri.
Alla
fine potremo anche riportare diritto il quadro, ma non sarà più, per me, solo
la giusta direzione ripristinata, ma anche il rovescio del rovescio, il
capovolgimento del capovolgimento e l’invito a leggere anche dagli altri due
lati, da destra e da sinistra, e non solo secondo lo sguardo centrato. Secondo
sguardi scentrati dunque. Che lascio, per stavolta, a chi legge.
Mi bacchetta dal suo blog "Fuori dai denti" (http://federicodeleonardis.tumblr.com/) che vi invito a seguire, l'amico Federico De Leonardis, con il quale è sempre un èiacere discutere, anche quando ci troviamo poco d'accordo. Grazie Federico!
RispondiEliminaMarch 7, 2018
Uno sguardo dal ponte: L’Apollo e Marsia visto da Luigi Grazioli (blog A spasso nella caverna)
Voi letterati letterate tutto, fingendo di rovesciare, raddrizzate, di periferizzare, centrate. Amara constatazione: l’occhio oggi ha bisogno di vuoto, il che vuol dire anche vuoto letterario. Tutto ciò è duro ad accettarsi perché si tratta di un amico. Questo condanna tout court qualsiasi discorso sull’immagine? Non lo sostengo, ma l“invito a leggere anche dagli altri due lati, da destra e da sinistra, e non solo secondo lo sguardo centrato, secondo sguardi scentrati ”, del finale non mi convince: dopo averlo rovesciato è sempre la stessa strada che percorri, tutto viene indicato, verbalizzato, concettualizzato, storicizzato, metaforicizzato. La pittura, anche alla rovescia, è un’ancella del discorso rappresentativo: la mitologia, il significato. Queste le tue armi di finzione, lecite intendiamoci, perché la letteratura è finzione, anzi l’arte stessa, tutta l’arte, compresa quella di Marsia (la musica), è solo finzione. E finzione gioiosa c’è da puntualizzare, non solo per chi ne fruisce, anche per chi la produce 1.
Occupiamoci prima della tua finzione. Ah la letteratura! Piena di circonlocuzioni, avanti e indietro, parentesi graffe, poi quadre e infine tonde, il tutto con le internettiche stampelle fornite da un’arte diversa , la principe, la visiva, e con l’ulteriore supporto metaforico dell’altra, la seconda, che già Tiziano, umanista dotto, aveva sfruttato, quella di Marsia, musico audace. Sottolineo umanista, perché è proprio da lì, da quell’umanesimo, che si sono riaperte le cateratte dalle quali l’arte visiva è uscita dal suo alveo naturale, come il sangue del satiro. Ed è la letteratura, il discorso, che oggi ancora la inquina: a partire da allora. No, non il tuo in particolare, che ho letto comunque con piacere: arte letteraria Il difetto è a monte, consustanziale.
Lo so, lo so, è radicalismo questo insistere sulla specificità del linguaggio. Non sarai d’accordo: “prima, seconda, cosa vai cianciando? E’ del cervello che si tratta”. Vecchio adagio anche di tuo fratello e di quel fottuto di Duchamp, che, prendi nota, per quanto geniale inciampa nel retinico. Ecco un esempio per far capire la salutare tirannia dell’occhio:
Internettica: maledetta superficie che toglie il corpo alla pittura (la dimensione!) e alla sua luce riflessa, dolce e soffice e tattile, e lo sostituisce con una luce da dietro, diretta, violenta, che ignora il terzo e più importante senso con cui viviamo il mondo, quello che produce i bambini, cioè noi stessi: il tatto (che ha un vertice di sensibilità nelle parti basse del nostro ventre, come tutti sanno: “Tibi rident aequora ponti/ placatumque nitet diffuso lumine coelum”2). Maledetta, perché pare che oggi non ci sia altro, computer dipendenti, per non dire facebookiani che siamo diventati.
Occupiamoci ora di Tiziano. Ma se c’è stato un artista della gioia, del colore, se c’è stato uno che ha saputo sfruttare senza tristezze e complessi anche la vecchiaia del suo occhio, la sua presbiopia, anticipando di tre secoli le conquiste dell’impressionismo, è lui. E se c’è un quadro, diritto, rovesciato sottosopra o di fianco, che lo dimostra, quello è L’Apollo e Marsia, che quindi nega patentemente ciò che rappresenta. Anche solo internet lo prova ma, ripeto, subdolamente. Di conseguenza io qui non posso far altro che invitare chi mi legge, non tanto a rovesciare, ma a guardare l’originale (Castello di Kromeriz, Repubblica Ceca). Ed è per questo che non riprodurrò un bel niente.