Stiamo andando a trovare i miei
genitori, che hanno trascorso le vacanze pasquali nella loro casa sul lago, per
festeggiare assieme, come ogni anno, l’onomastico di mia moglie e di mio padre.
Il traffico è scorrevole: Angela guida tranquilla con un orecchio alla radio,
io leggo il giornale di ieri cercando di non sentirla, la radio. Ogni tanto
scambiamo qualche battuta. Nei momenti di pausa, tra un titolo e l’altro, getto
occhiate svagate attorno, alle colline che si avvicinano, alle loro viscere,
bianche e gialle, messe a nudo dalle cave e brillanti nell’aria lucida del
mattino, alle macchie di neve sulle montagne più in fondo. Una pagina dopo
costeggiamo un cimitero, alcune villette di muratori ed ex emigranti sfiorate
da un modesto delirio che le trattiene al di qua dell’orrore, il piazzale delle
terme, piccole vigne famigliari ancora spoglie. Un’altra pagina, niente di
interessante. Fuori del finestrino c’è un prato pieno di bocche di leone
tra l’erba folta, alta e scura dopo giorni di pioggia. Mentre lo guardo,
attratto dal colore dell’erba, all’improvviso sento gli steli crescere, uno per
uno e tutti assieme, attraverso la terra e immediatamente, nemmeno una frazione
di secondo, dentro di me.
Ho sentito l’erba farsi strada
dentro i pori della mia pelle che le si aprivano incontro; ho sentito il loro
dischiudersi che si propagava come una folata che a raggiera, partendo dal
braccio destro, quello con cui sto ora scrivendo mentre ancora non si sono
richiusi, si diffondeva in tutto il torso, sulle spalle e sui pettorali
soprattutto, percorsi da un brivido dell’epidermide, ma più ancora da un
movimento sottocutaneo, ondulatorio, come se ogni fibra, invece di
semplicemente stare accanto alle vicine, le invadesse e si accoppiasse con
loro, mentre gli occhi lentamente si inumidivano. E’ durato due minuti,
non di più e non di meno. A riportarmi in me è stata non la lucidità ma la
meraviglia, la stessa che mi ha subito condotto la mano alla biro e che la
guida mentre ora sto scrivendo. La stessa che non accenna a svanire ora che ho
scritto.
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