18/05/19

Marcel Beyer, Forme originarie della paura, Einaudi, 2011


Marcel Beyer (1965) è uno scrittore tedesco di grande spessore molto apprezzato in patria e all’estero e che merita attenzione anche da noi, nonostante la prodigiosa fioritura di talenti nostrani degli ultimi tempi. Un primo romanzo di grande livello, Pipistrelli (ed or. Flughunde, 1995), tradotto per Einaudi nel 1997, è passato quasi inosservato. E' facile prevedere che saranno in molti ad andarlo a recuperare dopo aver letto lo splendido Forme originarie della paura (ed. or. Kaltenburg, 2008) proposto di recente ancora da Einaudi.
Il titolo italiano è quello dell'opera più nota del controverso zoologo Ludwig Kaltenburg, la cui vita viene ripercorsa da Hermann Funk, ornitologo in pensione, che la intreccia alla ricostruzione della propria in seguito alle domande di una giovane interprete che desidera apprendere i nomi degli uccelli in vista di un convegno.
Funk incontra Kaltenburg (ricalcato sulla figura di Konrad Lorenz, come suggerito anche dal rovesciamento delle iniziali) ancora bambino e la sua vita ne resta subito segnata: nonostante la presenza amorevole del padre, professore di botanica, che con la madre morirà durante il bombardamento di Dresda, “da quel pomeriggio in poi il ricordo di mio padre comincia a impallidire”. Dopo la guerra sarà Kaltenburg a indirizzare la vita dell'orfano indeciso prendendolo sotto le proprie ali, è il caso di dire, e facendone il proprio discepolo, che come tale lo amerà, fino a quando la scoperta dell’adesione al nazismo dall’eminente studioso sempre negata non lo trasformerà nella più cocente delusione della sua vita.
La narrazione si impernia sui ricordi che la sollecitazione dell’interprete fa scattare e consente di approfondire e precisare, nonché sulla discussione della figura e delle opere di Kaltenburg, in particolare quella del titolo (che ricorda L’aggressività di Lorenz), anche alla luce che vi proiettano quelle di altri amici, talvolta da Kaltenburg sottovalutati o ripudiati (come Martin Spengler, basato sulla figura di Joseph Beuys).
Non si tratta quindi di una ricostruzione lineare e volontaria, quanto di una navigazione per blocchi e associazioni indotte dalle circostanze e dalle domande dell’interlocutrice. Questo caratterizza anche il tono del romanzo, che non è nostalgico ma nemmeno subordinato alla volontà di chiarire per fare i conti ad ogni costo, e ne detta il ritmo, che è quello di un flusso discontinuo, scandito mediante strategie molto varie e abili quanto sottili: dilazioni, reticenze, manovre di accostamento, tentativi di comprensione e di nominazione e classificazione, focalizzazioni progressive ma spesso per vie indirette o laterali che conducono a ridefinizioni a posteriori, a illuminazioni postume, improvvise e impreviste, di episodi avvenuti magari decenni prima.
Un flusso che parte da e si sofferma su episodi all’apparenza marginali, persino fantasmatici a volte, che però imprimono la loro tonalità affettiva al ricordo e agli eventi personali e storici evocati, con abbozzi, schizzi, disegni e successivi riaggiustamenti onde accordare la memoria recente a quella profonda, come fa la traduttrice per memorizzare i nomi degli uccelli.
Il periodo storico (che va dalla Guerra alla riunificazione della Germania, passando per la guerra, la deportazione e lo sterminio degli ebrei, la vita nella RDT, la Stasi, le delazioni, gli arresti notturni, e lo stalinismo...) è tra i più ardui da affrontare in narrazione che voglia evitare sintesi azzardate e eccessi di coincidenze, ma anche qui Beyer (come aveva già fatto con il nazismo in Pipistrelli) ne viene a capo con soluzioni estremamente originali e rigorose, ciò che costituisce una delle principali qualità del libro.

Se anche l’evento storico determina lo svolgimento della trama (ad es. la “gita” a Dresda in rapporto all’avanzata dei russi nel febbraio del 45; il bombardamento di Dresda attraverso la morte degli uccelli nel Grosser Garten; l’episodio fondatore del rondone, Jerzy in polacco, e la bambinaia; il passaggio dei vagoni merci stipati durante una ricognizione botanica sugli argini della ferrovia...), esso viene suggerito al lettore, spesso di sfuggita quando non sottaciuto, solo dalle azioni dei personaggi, o da osservazioni marginali o discorsi che si riferiscono ad altro.

Ed è proprio questa peculiare angolazione che procede in via indiretta, dando spesso per scontata la conoscenza dell’argomento (nel caso dei libri di Kaltenburg o delle opere di Spengler) o dei fatti storici, ma sempre incarnata in episodi fortemente individuati e attraverso descrizioni che solo in seconda istanza rivelano una possibile lettura figurata (in particolare quelle splendide degli uccelli e del loro comportamento), a conferire originalità e profondità alla posizione dei problemi e a offrire strumenti per la loro comprensione, senza cadere mai in generalizzazioni, e anzi giungendovi solo a posteriori, a tratti e con grande fatica, o come dono della rimemorazione e della ricostruzione, vale a dire della narrazione, della sua forma e della sua sintassi, linguistica e diegetica, che non prescinde mai dalla presenza, esplicita o meno, di un interlocutore: qui non a caso di una giovane interprete (come potrebbe esserlo uno psicanalista e come lo è ogni lettore).
Per quanto il tono resti sempre estremamente sobrio e misurato, i momenti di grande intensità, anche visionaria, sono numerosi e memorabili, e anche i passaggi che a prima vista appaiono funzionali alla caratterizzazione o in qualità di connessioni strutturali, a volte belli, altre meno, spesso poi terminano con un tuffo al cuore, o con un lampo che si riverbera a ritroso sull’evento narrato con nuove insospettabili sfumature emotive o di significato.
Come la lettura di tutto il romanzo, che appaga di per sé e insieme rilancia verso nuove, forse non indispensabili ma che si impongono con forza, se si incrociano fatti e personaggi e riferimenti in altri modi. Per esempio la figura di Klara, che poi diventerà moglie del narratore, con la sua passione di Proust, e la lettura della memoria e del romanzo che questo comporta. Proust: Marcel, come Beyer.

Questo articolo è uscito su doppiozero.com il 4 ottobre 2011 
 



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