Un bel giorno, dal momento che era molto che non scriveva più niente né c’erano avvisaglie che potesse (e nemmeno volesse) riprendere a farlo, si è messo in testa di rileggere tutto quello che aveva scritto e di metterlo in bella copia, correggendolo e, eventualmente, riscrivendo o cancellando e stracciando quanto proprio non aveva nessuna speranza di recupero o di chirurgia. Fogli volanti, taccuini, quaderni di ogni tipo e dimensione, agende, diari e tutto quello che aveva pubblicato, e che era sopravvissuto a un paio di altri autodafè, crudelissimi ma non del tutto, visto quanto era scampato, eppure in gran parte già dimenticati, nei dettagli se non nell’insieme, senza rimpianti. Non era poco, si accorse con stupore. Lo stesso stupore inebetito che prende quando si comincia a svuotare la cantina pensando di sbrigarsela in mezza giornata e dopo una settimana ci si accorge che è ancora piena di ogni cianfrusaglia e ricordo (cioè la cianfrusaglia peggiore). Tantissimo, anzi; infinitamente troppo, a voler prendere la perfezione come misura. Come era suo uso da sempre peraltro. Suo vizio, cioè.
Così, più che correggere, riscrivere e migliorare (ma migliorare in rapporto a cosa? al metro che aveva ora, che spesso è peggiorativo nei confronti del passato, come dimostrano tante riscritture e varianti di autori anche eccellenti – persino l’Ariosto!, non si dice Ungaretti… ?), quando si è accorto di cadere in continuazione nella sua consueta procedura di ampliare anziché tagliare, o ampliare il doppio di ogni taglio, e di imboccare ogni diramazione che riusciva ora a intravvedere o era stata magari volutamente trascurata quando lo scritto era stato licenziato la prima volta (già allora riscritto tot numero di volte peraltro), ha smesso di colpo e non ha fatto altro che barrare tutto, prima (senza stracciare), e poi leggere solo, un quaderno dopo l’altro, ogni foglio sparso o ritaglio o file… Leggere e basta, in modo famelico, con disperazione, fino a esserne schiantato.
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