“La letteratura non ha alcuna valenza pratica, salvo nel caso specialissimo di uno che voglia diventare, per quanto incredibile sembri, professore di letteratura”, scrive a pag. 197 di Lezioni di letteratura (recentemente riedito da Adelphi dopo la prima edizione Garzanti del 1992), Vladimir Nabokov che, forse sorprendendo se stesso, professore per amore o per necessità a un certo punto della sua vita lo è davvero diventato. E di certo, a dispetto del suo innegabile snobismo, non un professore qualunque, ma un ottimo insegnante, come stanno a dimostrare gli appunti che sono poi stati riuniti per comporre queste postume Lezioni (nonché quelle sulla letteratura russa, Garzanti, 1987 e quelle sul Don Chisciotte, Garzanti, 1989). E come testimonia anche, a dispetto del disprezzo per i critici (che, di nuovo con raffinata arte della contraddizione, non gli ha impedito di annoverare per un lungo periodo tra i suoi migliori amici americani il grande critico Edmund Wilson, quello tra l’altro di La ferita e l’arco e di Il castello di Axel per intenderci, per cui si veda la corrispondenza inedita in Italia), oltre ai volumi citati e alla monografia Nikolaj Gogol (bellissima; Adelphi, 2014), tutta la parte critica perfettamente funzionale alla narrazione contenuta nei suoi libri, nel commento alla sua traduzione di Puškin e, sia pure ribaltata in parodia, in Fuoco pallido.
Alla vigilia della sua ennesima partenza in seguito
all’emigrazione forzata dalla patria a causa della Rivoluzione del 1917,
stavolta verso l’America dopo l’Inghilterra la Germania e la Francia, l’ultima
prima del ritorno in Europa, in Svizzera, della vecchiaia, Nabokov prepara la
sua sopravvivenza in terra straniera sotto forma di un centinaio di lezioni
sulla patria invece che porta sempre con sé e che non lo abbandonerà mai, la
letteratura. Sono abbozzi già abbastanza rifiniti e tarati sui 50 minuti
dell’ora accademica, che gli serviranno per il lavoro di insegnante che gli
verrà offerto prima al college femminile di Wellensley e poi alla Cornell University,
dove avrà tra i suoi studenti Thomas Pynchon (uno tra i pochi ad averlo visto,
quindi, per quanto allora questi fosse un giovanotto tra gli altri, magari un
po’ più bruttino a giudicare dalle pochissime foto note, che però è bello
immaginare aver tratto lo spunto del suo futuro personaggio invisibile proprio
dal contatto con il grande mistificatore russo), tra il 1941 e il 1957, a parte
la parentesi ad Harvard, dove, mettendo a frutto una delle passioni della sua
vita, è stato curatore della collezione di farfalle nel museo di zoologia
comparata.
Pertanto il lettore di queste Lezioni non deve mai dimenticare che, nonostante la loro grande
leggibilità, si tratta di appunti, quasi mai sistemati (a parte quelli che
confluiranno nel Gogol) né sviluppati
in riflessioni critico-teoriche approfondite come in molti suoi libri, ad
esempio nel capolavoro del periodo “russo” Il
dono, dove la dimensione metanarrativa ha un ruolo di primaria importanza. Come
per tutti i grandi scrittori, però, per quanto valida possa essere quella
esercitata direttamente, la vera e decisiva critica letteraria è quella non
contenuta, ma costituita dai loro libri stessi. E non mi riferisco
all’intertestualità, in Nabokov quasi onnipresente, quanto alla struttura,
lingua e forma delle loro opere “creative”, al di là spesso delle loro stesse
intenzioni e elaborazioni esplicite, comunque di grande spessore nello
scrittore russo.
Ma in queste lezioni Nabokov parla a un uditorio di
studentesse e studenti in genere non molto attrezzati dal punto di vista
teorico e anzi probabilmente già guastati dai pregiudizi del lettore comune o,
peggio, dalla chiacchiera giornalistica e scolastica (quasi tutta, esclusa la
sua). Con questa base chissà che magnifiche lezioni, tenuto conto dei commenti
e degli sviluppi orali che nelle lezioni non mancano mai e che è improbabile
che un uomo mordace e competitivo più o meno con tutti (si veda anche il suo côté
sportivo), ma anche “magnetico” e “appassionato” (Updike) come Nabokov si sarà
negato. Lo immagino, e non è difficile
anche senza aver visto sue immagini né letto le interviste di Intransigenze (Adelphi, 1994), che parla
con distaccata benevolenza, effetto collaterale dello snobismo e del desiderio
di comunque piacere e affascinare, elargendo giudizi sferzanti e digressioni
divertite e maligne senza darlo a vedere, per i pochi in grado di capire,
sebbene senza disprezzo per chi non ci arrivava (erano giovani, erano
innocenti, erano belli).
Questo a dispetto del fatto che nella sua ultima intervista
(riportata nel numero monografico che gli ha dedicato “Riga” a cura di M.
Sebregondi e E. Porfiri, n. 16, Marcos y Marcos, 1999), per giustificare il
fatto che le concedeva solo scritte, aveva detto (scritto): “Io non parlo in
modo fiacco, parlo decisamente male, parlo in modo disastroso. […] penso come
un genio, scrivo come un autore eminente e parlo come un bambino”. Affermazioni
di cui è doveroso dubitare. A Nabokov è opportuno non credere mai. Le
testimonianze dei suoi studenti che parlano del silenzio assoluto e
dell’atmosfera tesa e quasi magica in cui il grande incantatore si esibiva,
stanno a dimostrarlo.
Il titolo originale di Intransigenze
suona Strong Opinions, e forti (e
speziate) sono le interviste e dichiarazioni in esso contenute lo sono eccome,
contro la cultura di massa e i colleghi, in particolare. Colleghi… Insomma,
gente così. Divertentissimo e irritante, il suo discorso è spesso intriso di una
malignità che sfiora l’astio e talvolta lo raggiunge e oltrepassa, ritorcendosi
contro di lui con cantonate anche gigantesche, come quella su Molière, ridotto
a un commediante di terza categoria, o Faulkner per esempio (la sua
idiosincrasia per Dostoevskij meriterebbe un discorso a parte, soprattutto alla
luce dei tratti e delle influenze dell’aborrito scrittore che gli attribuisce
in Nabokov e la sua Lolita, Passigli
2002, Nina Berberova, che lo aveva conosciuto).
D’altra parte, grande visione, grande cecità. La cecità dei grandi non è
la nemesi della loro grandezza, il suo rovescio o necessario corrispettivo,
bensì una sua componente fondamentale. Per vedere e mostrare il mondo in modo
nuovo occorre gettare su di esso un fascio di luce di qualità e direzione mai
vista, intensa quanto il buio attraverso cui si fa strada; occorre distorcere
quello consueto, rivoltarlo e svuotarlo, e molte cose sotto gli occhi di tutti
vederle male o non vederle affatto, salvo poi accorgersi che sono ancora lì con
un altro volto, un’altra forma e spessore. Con forza però. Facendo sì errori,
ma grandi, tanto che al loro stesso interno luccicano scaglie di verità
insospettata. O indizi, imbocchi di sentieri, che verso essa, con un
supplemento di distorsione e cecità da parte del lettore, possono far cenno e
orientare.
Non ha, Nabokov, verso i concorrenti (verso gli adepti della
stessa religione) nessuna condiscendenza o tenerezza (se poni il tuo ideale a
un certo livello, o sei intransigente o non sei nulla), come non ne ha per
quasi tutti i suoi personaggi, specie femminili (a meno che non siano le balie
e le istitutrici della favolosa infanzia o, con riserva, qualche ninfetta o
giovinetta che non ha perso tutta la
sua innocenza, cosa che di solito arriva a grande velocità), quasi tutti “only
a pawn in [his] game”, per dirla con Bob Dylan, un gioco che curiosamente
dovrebbe avere per scopo di suscitare emozioni estetiche nel lettore mentre a
lui, in apparenza, ne suscitano molto meno degli organi genitali delle farfalle
(stupefacenti e affascianti, per carità…), che studia per anni con grande
passione. E certo! Quelli sono vari, belli e non pericolosi, verrebbe da
pensare in modo grossolano, mentre una donna lo è sempre, specie per quei
maschi così stupidi da pensare di essere scafati e di poterle gestire e
manovrare, come i personaggi dei romanzi, appunto. Chiedo scusa dell’illazione.
Del resto “la fantasia è fertile solo quando è futile” (Gogol, p. 78).
Come si distendono invece il discorso e la sintassi e la
lingua, che diventa morbida, affettuosa e ricca (fiorita) di osservazioni
precise e spiazzanti buttate lì in un inciso o in alcune secondarie impreviste,
quando parla di coloro che ama e illustra i momenti che per lui incarnano la
“vera” arte! In particolare nelle pagine su Proust con il quale molto Nabokov
si è confrontato, se non addirittura ispirato (non sia mai!) in vari suoi
libri, come per esempio Ada o le
originali memorie (per la forma) Parla,
ricordo. Nessuno si ispira a nessuno. Ogni libro fa da sé. Legami, fili e
parentele si tracciano per comodità e gusto personale, ma niente aggiungono (né
tolgono, allora) a un’opera di valore. Ogni capolavoro è un mondo a sé,
autonomo, compiuto, perfetto. Il resto non è niente. Quasi tutta spazzatura.
Le lezioni partono da Jane Austen, scelta su insistenza di
Wilson dopo una certa resistenza sulle leziosità della signorina inglese, e si
chiudono con Joyce (l’inarrivabile: quello dell’Ulisse però, che reputa il libro più grande del ‘900, non del Finnegan’s
Wake), passando per Dickens, Flaubert (uno dei modelli supremi della prosa
nabokoviana: della memorabile descrizione del berretto del giovane studente
Charles Bovary farà persino il disegno…), Stevenson (a sorpresa), e poi Proust
e Kafka, con la dimostrazione che quello della “Metamorfosi” non è uno
scarafaggio, che “naturalmente non ha senso” al suo esame di esperto
entomologo, ma un coleottero dotato di “ali sotto la corazza del dorso”: cosa
che ha dimenticato, con il suo autore, anche lui, come molti di noi del resto
quanto alle nostre, altrimenti magari sarebbe volato via…
Le lezioni sono composte perlopiù di riassunti, fatti con
grande arte, leggibilissimi (essi stessi, come tutti i riassunti, già esercizi
critici in sé: basta confrontarli con altri possibili delle medesime opere),
con osservazioni “tecniche” di stampo didattico per far notare allo sprovveduto
auditorio alcuni puntuali aspetti di metodo, stile e struttura, temi e figure,
come delle istruzioni per l’uso, seguite poi da un’ampia sintesi basata
sull’antologizzazione dei passaggi più significativi, in pratica eccellenti
reader’s digest, che a volte precipita incontro al finale, che gli interessa
poco in quanto convenzionale (come per Jane Austen).
Molte delle categorie usate nell’interpretazione delle opere
sono datate, anche se in buona parte possono essere trasposte nel lessico
narratologico (si vedano le definizioni con definizioni di stile, intreccio,
tema, struttura a p. 55), o del “new criticism” diffuso in quei decenni, come
segnalato da Updike nell’Introduzione
a queste lezioni, o meglio ancora dei suoi coetanei formalisti russi che certo
avrà almeno sfiorato per quanto nelle lezioni non li citi mai, pur essendo uno
dei suoi migliori amici in America Roman Jakobson: con i suoi capisaldi di ‘arte
come atto individuale, non impegnato, autonomia del testo ecc.’, e dicono
almeno altrettanto, se non più, sul suo modo di intendere la letteratura che
sugli autori che illustra per la gioia di giovani e inesperte studentesse (e
studenti) americane, tra le quali qualche Lolita appena un po’ cresciuta da
incantare, sol da lungi beninteso, ci sarà pure stata; ma essendo Nabokov un
grande scrittore e non un teorico che ci tiene a essere aggiornato, va bene
anche così. Poi si può fare anche un passo ulteriore e adottare questo o quello
dei suoi strumenti per applicarlo alla sua opera, tanto più che egli ambiva a
un controllo totale delle sue creazioni, fino a definire i suoi personaggi “galeotti
condannati ai remi”, e talvolta, appunto per questo, a rischio di apparire più
simili a figurine bidimensionali asservite al volere tirannico del narratore
che dotate di spessore e vita (narrativa) autonoma: burattini dai movimenti un
po’ meccanici e, una volta capito il meccanismo e nonostante la cura
dell’autore di predisporre trappole e sorprese come franchi tiratori dietro
l’angolo, non di rado prevedibili, incanalati in vie discendenti,
gravitazionali, tracciate secondo una logica narrativa prefissata e
inaggirabile. La volontà di costruzione e coerenza è nel progetto e, poi, nella
sartoria e negli aggiustamenti a posteriori, raramente quando si scrive. La
scrittura, dice Nabokov, non deve sorprendere chi scrive, ma andare a comporre
e incastrare alla perfezione i frammenti da cui è composta (Nabokov lavorava
anche ai romanzi per schede autonome); non deve condurre per mano, o peggio:
travolgere l’autore, ma essere maneggiata con perizia, strategicamente, in un
gioco di specchi, finzioni, mise en abyme, false piste, rimandi, spostamenti,
in uno spazio e tempo che è solo quello della finzione, l’unica realtà che per
Nabokov conta, l’unica cioè che costruisce l’immagine di una realtà che poi, se
si vuole, qualcuno può anche ritrovare fuori, sebbene non egli specifichi mai
dove (perché non gli importa).
La sua prima preoccupazione era di impedire, smontandone i
presupposti e irridendone le modalità, tutte le letture ingenue, sentimentali,
realistiche, contenutistico-ideologiche e via di questo passo, fino a restare
con l’unico vero nucleo e valore, quello estetico, basato sulla percezione
sensoriale, sempre personale, imperniata sul dettaglio e sulla memoria, e sulla
sempre sensoriale risposta: il brivido lungo la spina dorsale (il vecchio,
tenero frisson) come principale, e forse unico criterio di giudizio. Criterio
totalizzante che condensa in sé tutto ciò che la lettura può e deve dare, e
tutto ciò che un lettore dovrebbe pretendere. Assoluto, per Nabokov; meno, per
altri.
C’è uno speciale accanimento nel definire cosa non è questo o quel libro, o il romanzo
o l’arte in generale. Per tutta la vita, a quanto pare, prima in Europa e ora
in America (e per fortuna non nella Russia sovietica, dove a regnare nell’arte
erano “aspirazioni fondamentalmente e compiutamente borghesi. […] la cortina di
pizzo dietro la cortina di ferro”), aveva dovuto scontrarsi con tutta una serie
di pregiudizi e equivoci critici, sia nel pubblico e nell’industria culturale
che tra i cosiddetti addetti ai lavori di ogni livello e categoria, come capita
a tutti del resto; solo che lui, che dell’arte, e in particolare della sua,
aveva un’altissima considerazione, se ne irritava ogni volta. Proprio non ce la
faceva a passarci sopra, a dover sempre spiegare il perché e il percome, come
certo è tenuto a fare il bravo insegnante, ma non lo scrittore. Troppo aveva
dovuto combattere per la propria arte contro le idee imperanti, e ogni sospetto
di stupidità lo infiammava immediatamente con forza irresistibile. Amava la
vita, ma preferibilmente senza i viventi. Quelli umani quanto meno. Quasi
tutti.
(Eppure “Bellezza più
compassione – questo è il concetto che maggiormente si avvicina a definire
l’arte” ha scritto, e stavolta gli crediamo, perché quando parlava dell’arte
abbassava ogni difesa. “Dove c’è bellezza c’è compassione, per il semplice
motivo che la bellezza è destinata a perire: la bellezza muore sempre, la forma
muore con il contenuto, il mondo muore con l’individuo”).
Date le peraltro comprensibili urgenze tra gli esuli
dell’emigrazione europea per i quali la politica ricopriva ovviamente un ruolo
fondamentale, per tacere delle direttive di regime in patria, e la forte
incidenza anche tra i suoi ospiti statunitensi (Nabokov era convinto che in ogni
abitante di quel paese ci fosse qualche goccia di sangue marxista o comunista,
che nel frattempo deve essere in gran parte evaporato però), non sorprende che
il suo bersaglio principale fosse l’importanza attribuita, in letteratura, alle
idee e a tutta la varietà di implicazioni socio-politiche (e di mercato).
Qualsiasi forma di impegno che esuli da quello linguistico e formale gli
suonava posticcia e ridicola. Anche in uno scrittore come Proust, da cui si è
spremuto tutto e il contrario di tutto (descrizione degli ambienti sociali,
riflessioni filosofico-estetiche, ecc.)
Nabokov si focalizza principalmente sulla memoria e sulla “letteratura
dei sensi, la vera arte”, contrapposta alla “letteratura delle idee, che non
produce vera arte a meno che non origini dai sensi” (per questo, mentre
ammirava senza riserve la prima metà della Recherche,
ne aveva sulla seconda, sulle idee a suo parere troppo basata). E infatti molti tra gli esempi che sceglie
nelle ampie citazioni che costituiscono l’ossatura delle lezioni, in Proust e
in quasi tutti gli autori affrontati, sono quelli dove la dettagliatissima
capacità di percezione, di cose, espressioni, paesaggi e gesti, legata alla
memoria fiorisce in pagine meravigliose, profumatissime.
A volte tali giudizi vertono su passaggi di tale accuratezza
nella descrizione e analisi delle percezioni e delle sensazioni, che potrebbero
risultare a certi sguardi (il mio per esempio) un po’ indisponenti, o
sull’abile ricamo dei dettagli e della sintassi con derive che, come accade
anche nei suoi romanzi, si prolungano rizomaticamente all’infinito senza che, a
maggiore provocazione del lettore frettoloso e apprensivo a cui sembrano di
proposito indirizzate, ci sia una vera necessità di chiudere dove chiudono e
non prima, o dopo, a dispetto che poi la superiore abilità di Nabokov riesca a
riportare tutto nell’alveo di un accuratissimo equilibrio interno e narrativo.
Come in Gogol, i cui “personaggi [scrive con un’annotazione che a me pare
straordinaria] vengono generati dalle proposizioni subordinate delle varie
metafore, similitudini ed esplosioni liriche in esse contenute”. (Cionondimeno a me è capitato in varie
occasioni, in Lolita per esempio, di
continuare da solo alcune frasi per qualche pagina mentale sull’abbrivio di
quelle appena lette, a metà tra il divertito e l’irritato.)
Per Nabokov la letteratura è fatta solo di opere, sempre
singolari, con poche e poco rilevanti relazioni con le altre opere dello stesso
autore, e ancor di più con l’autore stesso, inteso come persona, e con il suo
tempo e ambiente. Le informazioni storiche e socio-culturali negate come
funzione (e attrattiva) primaria del romanzo, e per questo sistematicamente
elise dai suoi nei quali il tempo tende a ergersi in una propria dimensione
assoluta che interseca la storia solo per errore (o parodia, spesso denegata
comunque), vengono recuperate come interesse e delizia secondari, finché il
loro ruolo assolve anche ad altri scopi (caratterizzazione dei personaggi,
momento e /o innesco dell’intreccio per far progredire il racconto…).
Le opere hanno però un grande e molteplice commercio tra di
loro, come dimostrano i suoi stessi libri. Ogni opera è assoluta, ma gli
assoluti, in quello strano universo che è la letteratura, non vivono senza
comunicare tra di loro, nella mente di chi scrive e anche in quella di chi
legge (in quella di Nabokov a maglie fittissime e a velocità vertiginose).
Quelle di cui parla Nabokov, le uniche di cui mette conto di parlare, sono
sempre opere di “geni” (parola ricorrente nel suo lessico, anche in relazione a
se stesso, come già visto: mica ci abbasseremo alle manfrine della falsa
modestia?), o semi- o quasi-geni, per i quali i rapporti con la tradizione e i
contemporanei hanno scarsa o nulla rilevanza. Forse perché, ipotizziamo sulla
scia di Borges, sono loro a creare il tempo da esse stesse confutato, e di
conseguenza la relativa tradizione, il presente e il suo passato. Per la verità
questo è ciò che fa anche il lettore, a modo suo. Nel suo piccolo. Come io nel
mio. Ma questo nelle Lezioni non c’è.
O meglio, c’è se adattiamo a questo contesto la speldida annotazione contenuta
nelle Lezioni sulla letteratura russa,
che “in realtà, di tutti i personaggi creati da un grande artista, i più belli
sono i suoi lettori”. Ogni scrittore crea il proprio lettore; tutti, e non solo
i grandi. I cattivi scrittori creano cattivi lettori, anche se nessun lettore
sarà mai cattivo come un cattivo scrittore. Spesso i lettori sono migliori dei
cattivi scrittori che vorrebbero crearli a propria immagine; raramente sono
all’altezza dei grandi scrittori che pure li creano; sempre sono migliori di
quando hanno cominciato a leggere però. Lo capiscono anche loro, per quanto non
sappiano darne la misura. Un indizio irrefutabile è che li leggeranno ancora.
Il particolare è tutto: quanto ne esula, o pretende di
indicare, significare e valere al di là di esso, e quindi di incorporarlo,
ridurlo a esemplificazione o componente di un insieme più ampio e trascendente,
è automaticamente rigettato. Per questo Nabokov lo evidenzia in ogni analisi,
ricostruzione e giudizio, e di conseguenza si focalizza anche sul dettaglio
stilistico e espressivo, diffondendosi per esempio sulle implicazioni dell’uso
di uno specifico verbo o sostantivo (Flaubert fa scuola anche qui, e non solo
come matrice di gran parte delle eroine nabokoviane, come è stato notato, per
le quali lo scrittore russo ha certo meno compassione, o solo comprensione, di
quello francese che sia pure celandola tuttavia spesso ne prova, e su cui
riversa piuttosto un acido disprezzo, che a volte viene l’impulso, ma senza
cadere nella trappola, di ritorcere contro di lui) e ne trae delle deduzioni
sui caratteri di personaggi e ambienti ecc.: cioè li fa tornare a essere parte
di una narrazione: stavolta la sua. Perché è l’occhio dello scrittore che,
anche quando riassume e illustra a un auditorio sprovveduto, o ritenuto tale,
sempre legge, (ri)scrive e narra tenendo il filo del racconto di riferimento e
del proprio, che sta imbastendo in quel momento.
Niente segreti, cose concrete, lì, evidenti, sotto gli occhi
del vero lettore, quello che non si lascia incantare dalle storie e dai
personaggi, e non perde mai di vista come i libri sono costruiti e funzionano.
Il lettore rilettore. Il lettore scrittore, insomma.
Nabokov ha tutto per dispiacere agli odierni alfieri del
cosiddetto “ritorno alla realtà”, dell’“impegno” magari sotto forma di noir, o
di letteratura “storica”, a volte degnissimi ma scritti quasi sempre “come se”
(come se niente fosse, come se fosse una sceneggiatura o un reportage, come se
non ci fosse una storia del romanzo, come se la lingua fosse plastilina, come
se il lettore fosse un deficiente), e può mostrare anche un po’ di corda per un
eccesso di sensibilità e di raffinatezza e estetizzazione, di attenzione al
dettaglio, quasi assolutizzato, e insieme di immaginazione, di sintassi, di
sottaciuto, di articolazioni e connessioni, di artificio e gioco, di maschere,
di ironia e parodia e intertestualità, di abilità costruttiva, di minuzia, e
infine per “un’eccessiva fiducia nelle parole” (come confessa il protagonista
di Il dono). Ma per chi pensa che la
letteratura consiste proprio in queste cose; che la realtà in letteratura non è
un dato ma una costruzione di parole (“la realtà è una maschera”, scrive nel
libro su Gogol) ma che proprio per
questa via anche lo sguardo sulla realtà anche storica può essere più acuto,
senza bisogno di essere sbandierato; che intelligenza e sensibilità (entrambe
formidabili nel nostro autore) non solo non vadano per forza disgiunte ma
possano anzi rafforzarsi a vicenda, e che solo da esse può venire il brivido
lungo la schiena che garantisce la qualità di un’opera, e poi tutti i
supplementi che ciascuno vorrà e potrà aggiungere, per costoro Nabokov era e resta
insuperato, e leggere queste lezioni è un ottimo modo per conoscerlo meglio e
entrare indirettamente e in modo gradevolissimo (credo che mi avrebbe fucilato
per questo aggettivo…) nel suo laboratorio. Anche se, come sempre capita ai
grandi scrittori, le sue idee, quelle che le Lezioni tradiscono, sono talvolta meno innovative e brillanti di
quelle espresse dalle sue opere.
Su Nabokov in doppiozero si possono vedere anche questi articoli,
rispettivamente di Daniela Brogi, Claudia Zunino e Laura Beani
Nessun commento:
Posta un commento