Enrique Vila-Matas è uno scrittore che
piace ai lettori che amano essere disorientati, confusi e un po’ storditi, in
un vertiginoso gioco di rimandi, ripetizioni e variazioni, ellissi e false
piste; che si divertono a perdersi, e provano una vaga euforia nello
smarrimento, nella paura di essere travolti dall’instabilità, di non
riconoscersi e di non riconoscere, ma che alla fine ne sono contenti, liberati
dalla prigione, e dal fardello, di credersi quelli che si è, unici, identici,
catafratti, rinchiusi al sicuro nella propria Vergine di Norimberga.
I suoi libri sono così vari e
stratificati (e divertenti), con una trama tanto semplice da riassumere quanto
complicata se si entra nelle sue pieghe, che a scriverne si ha sempre il timore
di tralasciare le cose più importanti. Poi si scrive: ma appena terminato, vien
subito l’impulso di riscrivere; e lo stesso una volta riscritto. Sembra di non
parlarne mai nella maniera giusta, ma già così, a ben guardare, lo si fa: già
così ne sto parlando. Scrivere è sempre riscrivere, correggere il già scritto
come diceva Ricardo Piglia. E sulla riscrittura e la
correzione si basa anche Un problema per
Mac, l’ultimo libro tradotto per Feltrinelli da Elena Liverani del grande
scrittore barcellonese. Non c’è mai una maniera giusta e definitiva: la
ripetizione e la falsificazione sono la regola e non evitare di affrontarle, e
anzi assecondarle fino al loro limite, è la via migliore per avvicinarsi alla
verità, che non può essere detta direttamente.
Sull’argomento, tra i suoi tanti testi, si veda anche la brillantissima
conferenza Bastian Schneider,
tradotta lo scorso anno dalla stessa Liverani per Humboldt in un unico
volumetto con il diario Marienbad
elettrico, che parla dei rapporti di lavoro e della reciproca
influenza delle rispettive opere con l’artista Dominique Gonzalez-Foester, che
ha coadiuvato Vila-Matas, travestita da Marlene Dietrich, quando ha pronunciato
la conferenza il 24 marzo 2017 presso il Collège de France.
Bastian Schneider, che ha molto in
comune con il narratore di Un problema
per Mac e offre nella sua prolusione molti spunti per capirne genesi e
forma, parla della “riscrittura modificatrice come creazione infinita”; e
nient’altro che questo è la letteratura per Vila-Matas: riscrittura,
correzione, modificazione e falsificazione imperniate sulla consapevolezza “che
il concatenamento con il passato è sostanziale per la materia narrativa. E’ questa
coscienza a trasformare tali fiction in un terreno sperimentale”, come
affermano Jordi Ballò e Xavier Pérez in Io sono già stato qui.
Fiction e ripetizione, citato a p. 31.
L’originalità è una priorità fasulla, e, come ricorda Isak Dinesen, cioè Karen
Blixen, citata poco oltre, “la paura di ripetersi può sempre essere contrastata
dalla gioia di sapere che si avanza in compagnia delle storie del passato”.
E’ per questa ragione che i libri di
Vila-Matas non possono fare a meno di parlare sempre di letteratura, di altri
libri, veri e inventati, di scrittori con o senza opere, e di lui stesso che si
mimetizza e scompare nelle figure che li popolano e alla fine non fa che tornare
a sé, alla sua vita che in essi è dispersa, disseminata in personaggi che
spesso rinunciano a se stessi e scompaiono, che si cercano negandosi, o a loro
volta si moltiplicano per provare a essere uno, sorpresi, talvolta con un senso
di liberazione, di scoprire che uno non si può mai essere, ma tanti quanti sono
quelli a cui diamo voce o che parlano attraverso di noi. Come tanti imitatori o
ventriloqui. Come il ventriloquo protagonista del libro di un altro autore che
il narratore di questo, Mac, intende riscrivere. Il libro in questione si
intitola Un problema per Walter, che
sarebbe in realtà uno dei primi libri di Vila-Matas (Una casa per sempre, del 1986, che proprio sulla storia di un
ventriloquo si apre, e che l’autore ha affermato in un’intervista di aver
sempre avuto intenzione di riscrivere), e il suo autore si chiama Ander
Sánchez, che in certi tratti sembra Vila-Matas, ennesimo suo doppio o avatar, o
maschera (il nome richiama “anders”, che in tedesco significa “altro”). Altro a
tal proposito non aggiungo io per ora, invece, anche se sarei tentato, di
scatola cinese in scatola cinese (come sono i romanzi che l’autore confessa di
prediligere, perché “sempre pieni di racconti”, come i suoi del resto, incluso
questo, ricco di figure e storie che toccano un ampio raggio di tonalità e
argomenti), di ipotesi in ipotesi, di speculazione in speculazione, di fantasia
in fantasia: ancora di letteratura in letteratura insomma… (E la realtà?
Niente, la realtà è lì: basta leggere.)
Un
problema per Mac è strutturato come
un diario, cioè un genere che si fonda per definizione sulla sincerità, che
ovviamente, tanto per non smentirsi, Vila-Matas fa iniziare con due menzogne.
La prima riguarda l’identità del diarista che afferma di essere un imprenditore
edile fallito per la crisi che attanaglia anche la Spagna del nuovo millennio
(tema che verrà a più riprese toccato in vari capitoli), e solo molto più tardi
confessa di essere stato licenziato, sbattuto fuori per la verità, dallo studio
legale in cui ha lavorato per oltre vent’anni, e che per questo si ritrova
finalmente con tutto il tempo libero per dedicarsi quotidianamente alla
scrittura, lui lettore avidissimo, come aveva sempre desiderato. La seconda è
relativa al desiderio che muove Mac. Questi vorrebbe infatti scrivere un libro
“postumo e incompiuto”, ma dice di accontentarsi di un “diario” (genere che
Vila-Matas ha affrontato in altri libri, come Il mal di Montano, o scritto direttamente, sia pure sempre in modo
poco canonico, come Diario volubile o
il citato Marienbad elettrico),
proprio come difesa “per allontanarsi dalla minaccia del romanzo”, come se non
sapesse di andare anche qui incontro al fallimento. Fallimento del proposito
che peraltro si risolverà, almeno ai nostri occhi (e conformemente al progetto
sottaciuto del maliziosissimo autore), nella riuscita del romanzo che racconta
la fuga dal romanzo, e da molte altre cose: un romanzo sui generis, come era
prevedibile, al pari di tutti i libri dell’autore; e “postumo e incompiuto”
solo all’apparenza, come tutti i libri di tutti, dal momento che l’autore muore
ogni volta che termina un libro, che per arrivare al lettore e trovare in lui
uno dei suoi compimenti, proprio dalla sua morte nasce. Tutto viene spiazzato o
smentito. In Vila-Matas mai nessuna cosa è quella che è: cioè lo è, ma è anche
altro, a volte la sua stessa negazione, in una convivenza sempre più promiscua
e felice. La pluralità dei piani di scrittura rende indecidibile la lettura: lo
statuto delle singole affermazioni è sempre incerto, c’è sempre il sospetto che
siano ironiche e vadano quindi ribaltate, o relativizzate, quando non a loro
volta falsificate. Spetta solo al lettore decidere: cioè riscrivere. Così
almeno lascia intendere l’autore, che di fatto con mano invisibile lo guida come
e dove vuole lui, come un cagnolino. Che può sempre scappare e filarsela per i
fatti suoi, comunque.
Mac, quindi, si accontenta del diario,
per cominciare, e con il diario vorrebbe finire. Finire senza finire, è facile
supporre. Poi in una libreria del suo quartiere incontra uno scrittore molto
noto, che gli è antipatico, di cui ha letto in parte un libro giovanile che non
gli è piaciuto ma che a un certo punto decide di riscrivere e emendare,
tagliando e aggiungendo a sua discrezione quanto necessario per “migliorare
segretamente l’opera letteraria del vicino”. Il libro, il cui titolo è
replicato da quello che stiamo leggendo, è composto di dieci racconti, alcuni
dei quali hanno a protagonista appunto un ventriloquo, Walter, che ne
costituisce il filo conduttore, come a formare un romanzo indiretto, obliquo.
Walter è un imitatore di voci che – all’opposto di quello di Thomas Bernard che imita tutte
le voci ma è incapace di imitare la propria, che quindi probabilmente nemmeno
ha –, ha il problema professionalmente imbarazzante “di avere una sola voce”
(quella che invece “gli scrittori sono così ansiosi di trovare”) che risolve
solo “quando [riesce] a disgregarsi in tutte le voci, come pure storie o
scaglie di vita, contenute [nelle sue] memorie”.
E’ uno che vive delle voci altrui, che
a loro volta danno vita ai racconti del libro, preceduti in esergo da una
citazione tratta dallo scrittori (da Cheever a Borges; da Hemingway e Malamud;
da Poe a Chesterton) delle cui opere ogni racconto è una ripresa, pastiche,
imitazione o parodia. L’insieme di
questi racconti va a formare, joycianamente direi stante la passione
dell’autore l’autore dell’Ulysses di
cui il suo romanzo Dublinesque
è solo la testimonianza maggiore, un repertorio di temi e stili che
caratterizzano la modernità, o tante possibili trame esemplari: amore,
tradimento, delitto, fuga, ricerca, ritorno, giovinezza, morte – il solito
repertorio insomma. Vengono alla mente Se una notte d’inverno un viaggiatore, di
Calvino, ma non altrettanto sistematico; o La zia Jiulia
e lo scribacchino, di Vargas Llosa, con il quale condivide in
parte la sovrapposizione e la confusione delle storie e la loro intrusione
nella vita dei personaggi; o ancora e le tessere della combinatoria tipica dei
libri di Perec, di cui viene evocato, quale esempio perfetto di opera postuma e
incompiuta proprio il suo romanzo postumo, 53 giorni, che in realtà
non è veramente tale perché “non era stato interrotto a causa della
morte… era stato concluso con largo anticipo, ma aveva bisogno di un
inconveniente serio come la morte … per essere davvero completato”.
Dei racconti di Sánchez, il narratore
fornisce nella prima parte riassunti, incluse lunghe pseudocitazioni e
commenti, alternati all’interno dei singoli capitoli alle vicende della sua
vita personale, dei suoi incontri, tra i quali merita di essere citato quello
di un sedicente nipote di Sánchez, che lo odia (che replica l’hater “gratuito”
del primo racconto, uno dei tanti “collezionisti di odio insensato” di cui i
nostri giorni rigurgitano, che sarà oggetto dell’omicidio che metterà in moto
tutta la storia di Walter), odioso a sua volta ma anche affascinante, e delle
storie che la lettura dei racconti stimola a vivere, o induce a riconoscere
nella sua quotidianità: come il presunto tradimento di sua moglie con lo
scrittore dopo la lettura del capitolo in cui questi racconta di un’avventura
giovanile con lei, prima che conoscesse il futuro marito; sospetto di
tradimento e gelosia indotti dalla lettura di altri racconti del libro che si
riversano nella “realtà”, come a rispecchiarsi in essa, o meglio: a segnarla,
allo stesso modo in cui l’amore giovanile della moglie è rispecchiato da quello
del narratore con una ragazza che poi diventerà autrice degli oroscopi che Mac
legge ogni sera per vedervi, una volta di più, rispecchiato ciò che durante la
giornata gli è successo (storia che ha un seguito gustoso che non rivelerò,
all’interno di una delle sezioni in cui si divide ogni capitolo, prima chiamata
beckettianamente “Puttanoroscopo”, e poi semplicemente “Oroscopo”, e infine abbandonata).
La stratificazione che la suddivisione dei capitoli
segnala è solo quella più evidente di un libro in cui i vari livelli, in modo
leggero e quasi impercettibile, si intrecciano in forme tutte diverse da un
capo all’altro.
Il
romanzo rigurgita di queste sottigliezze, echi, raddoppiamenti e ribaltamenti,
allusioni, reticenze, ironie, menzogne svelate o confessate, in un trionfo di
inter- e intratestualità. Non è indispensabile riconoscere tutto, ma non
sottrarsi a questo gioco contribuisce non secondariamente al piacere della
lettura. Non si tratta di erudizione, vera o finta, come confessa l’autore con
altrettanto finta modestia in Marienbad,
ma di un elemento che funge da sintassi strutturale e contribuisce
all’immaginazione: una festa per l’intelligenza.
Il
tessuto connettivo sono l’uso delle citazioni distorte e la pratica della
modificazione. “…la mia letteratura aveva portato al limite ultimo l’uso delle
citazioni letterarie distorte nel tentativo, tra le altre cose, di far sì che
la mia falsa erudizione fungesse da sintassi. “Può sembrare paradossale, ma ho
sempre cercato la mia originalità come scrittore nell’assimilazione di altre
voci”” (Marienbad elettrico, p. 71). Bastian Schneider aggiunge: ““proprio
perché non c’è originale non c’è copia e pertanto nemmeno ripetizione” … non
falsifico mai le citazioni, mi limito a modificarle … Sono un onesto
modificatore infaticabile. Vedo, leggo, ascolto e ogni cosa mi sembra suscettibile
di essere alterata. E io la altero. Altero di continuo. … la mia è un’autentica
vocazione da modificatore”: esattamente quello che dice di sé anche Mac nelle
prime pagine del suo diario: “ho una vocazione da modificatore. Anche da
ripetitore”.
Modificare e riscrivere non sono che un
aspetto della falsificazione, o viceversa questa non è che una componente di
quello, della loro necessità. Essendo la letteratura riscrittura, tanto vale
riscrivere qualcosa che non esiste, riscrivere qualcosa (il romanzo di Sánchez)
che viene scritto nel momento in cui lo si menziona e riassume e cita: la
scrittura è già citazione e quindi la citazione può essere benissimo scrittura
di un testo che non le preesiste, ma viene in essere nel momento in cui viene
citato. Così come tanto vale riscrivere
anche qualcosa che si è già scritto altrove, prima: che niente, qui, distingue
da ciò che è inventato di sana pianta, che per definizione non può esistere.
Allora Vila-Matas riprende temi,
personaggi, altre citazioni vere e inventate e situazioni, continuando e
sviluppando storie altrove appena abbozzate o interrotte, mescolando, variando,
capovolgendo e contraddicendo altre storie, e voci, generi e stili, restando
appunto così Vila-Matas, un autore che proprio in quanto si nega, si dissemina
e si moltiplica, resta inconfondibile, cioè unico. Una voce che attraversa
tutte le voci senza soffocarle; ed anzi traendo il proprio timbro peculiare
dalla loro autonoma pluralità. Che le modula, come il ventriloquo del libro di
Sánchez. Come ventriloquo è anche il lettore a ogni libro che legge, a ogni
personaggio che incontra in ciascuno di essi. Scrivere si prolunga nella sua
vita, cambia i suoi rapporti con la moglie, gli amici e la gente del quartiere:
ciò che a sua volta cambia quanto lui scriverà; e lo stesso fa con il lettore,
prolungandosi e incidendo nella sua vita. Lo stesso che dovrebbe fare, alemno: è questa la sua
ambizione dichiarata, l’idea di letteratura che lui persegue – come era già nel
libro di esordio, L’assassina
letterata dove il libro prosegue a tal punto nella vita di chi
lo legge da ucciderlo.
Anche le vicende di Walter incidono
sulla vita di Mac, che ne segue le orme, fino a confondersi con lui e a condividerne
il viaggio verso l’Arabia Felice, il luogo d’origine dei racconti, andando così
ad aggiungersi alla galleria vila-matasiana dei personaggi che fuggono o
partono alla ricerca di qualcosa di indefinito, o di solo genericamente
definito; o solo per partire, per andare via e amen. E poi chissà.
Cosa che non si distingue, d’altra parte, da ciò che
fa chiunque si metta a scrivere. Andare altrove. Essere un altro. Altro. Essere
dove è e insieme da un’altra parte. Nel luogo da cui nasce il racconto che sta
scrivendo, che non sa dove è e meno ancora quale è. Un luogo verso il quale si
dirige essendo però sempre dove è, ogni momento, centrato nel suo stare e in
viaggio. In fuga.
Cercando
così, o narrando, “la storia obliqua della sua vita”, all’interno della “lenta
carovana di storie di voci anonime e di anonimi destini che sembrano confermare
l’esistenza di racconti che si introducono nelle nostre vite e proseguono per
la loro strada confondendosi con esse”, e in queste stesse storie vivendo.
“Viviamo realmente solo a mano a mano che leggiamo la nostra storia,
trascendendola” (Marienbad), ma
questa storia la dobbiamo cercare nelle mille altre con cui si confonde e
spesso, per poterla leggere in compagnia di queste storie, scriverla noi
stessi.
Enrique Vila-Matas, Un problema per Mac, trad. it. Elena
Liverani, Feltrinelli, 2019, p. 282
Id. - Marienbad elettrico, trad. it.
Elena Liverani, Homboldt, 2019
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