Una tempesta
tropicale si stava abbattendo su Gorgonate. I venti, non sapendo che direzione
prendere, le imboccavano tutte contemporaneamente e si scagliavano senza la
minima discrezione su ogni cosa, eccetto che sugli alberi, abbattuti dal primo
all’ultimo dalle precedenti amministrazioni comunali per far posto a una
splendida pista ciclabile usata solo dai ragazzini per le loro evoluzioni con
motorini, roller, skateboard e altri pericolosi marchingegni ancora senza nome.
Alle sedici e trenta, nel buio totale, si contavano già
ottocentocinquantaquattro vetri rotti, una trentina di macchine sbattute le une
sulle altre in accoppiamenti tantrici alquanto libidinosi, imitate prontamente da qualche dozzina di sedie e tavolini abbandonati al loro tristo
destino da baristi snaturati, varie panchine dei parchetti pubblici divelte o
sfasciate (ma quello poteva anche essere il frutto delle eroiche imprese dei
giovanotti locali), un paio di biciclette che volteggiavano a mezz’aria con
grazia squisita, nonché tre pensionati sorpresi durante la passeggiata
pomeridiana lungo il canale finiti in acqua e annegati (solo uno verrà pianto
dai famigliari: gli altri fortunatamente erano soli). Un numero imprecisato di
tetti, ma in continuo aggiornamento da gruppi di monitoraggio della protezione
civile, era stato scoperchiato, con gran soddisfazione di capomastri e
antennisti ultimamente un po’ in crisi, mentre era più facile contare le
cantine non allagate, le tubature non scoppiate e i tombini non saltati; molti
vandali, manco a dirlo extracomunitari, approfittando della confusione stavano
saccheggiando negozi di ogni genere, ma parecchi vi erano rimasti intrappolati
dalla violenza degli elementi e dalle macerie accumulate sui marciapiedi, che
prendevano spontaneamente la forma di alcune delle più ardite costruzioni
postmoderne e, talvolta, di coni di deiezione o di ziqqurat sormontati da sedie
o poltroncine al momento disoccupate; diverse baracche abusive, piene zeppe
perlopiù degli extracomunitari non impegnati nei saccheggi, erano crollate sui
loro abitanti (ma questo era il meno); truppe di polli spennati e di cotechini
nuotavano a perdifiato tra le acque, in fuga da una macelleria del centro
famosa per i suoi prodotti nostrani, tanto freschi da sembrare vivi, mentre
l’ultimo piano del vecchio, fatiscente ospedale (che già da mesi avrebbe dovuto
lasciare il posto al nuovo, modernissimo, che si erge tra i prati acquitrinosi
della periferia, se non fosse stato per i soliti ritardi dovuti ai soliti
scioperi delle maestranze mai soddisfatte degli alti salari e delle condizioni
di sicurezza, nonché a mancate consegne di materiali e strumentazioni per
presunte inadempienze nei pagamenti e, da ultimo, a un’inopinata serie di
impegni e malattie infettive da parte delle autorità che dovevano celebrare la
solenne inaugurazione) si stava lentamente accartocciando su se stesso, ma
grazie al cielo avevano fatto in tempo a evacuarlo e al momento era quindi
vuoto, se si esclude una coppia di inservienti, entrambi sposati (lei madre di
quattro figli: dicasi quattro!), che si erano imboscati come ogni pomeriggio
per dedicarsi alle loro brave porcherie.
L’elettricità
naturalmente era saltata quasi subito, non prima però che una dozzina di
televisori esplodessero scagliando frammenti dello schermo e altra minutaglia
su bambini, vecchi (duri d’orecchio) e casalinghe che si stavano godendo i loro
programmi preferiti incuranti di lampi e tuoni, e provocando ferite
lacerocontuse di varia entità ma non gravi, a parte una scheggia conficcatasi
nell’occhio di un settenne, poverino!, che si era addormentato come un
angioletto dopo la merenda (tre brioss al latte, leggerissime, una barra di
Mars, una quindicina di ovetti Kinder e sfogliatine innaffiate da una bottiglia
da un litro e mezzo di cocacola: e pensare che è magro come un chiodo!).
Se qualcuno col
cuore avventuroso di un poeta si fosse azzardato a spingersi in strada (sono
occasioni da non lasciarsi sfuggire, da buttarcisi a capofitto per viverle di
prima mano!, se non vuoi rimpiangerle per il resto dei giorni come una
donnetta), avrebbe avuto la rarissima opportunità di arricchire il suo
repertorio di emozioni con uno spettacolo sublime e magico, di visioni che
manco la mescalina o il peyotl, e, più importante ancora, di formulare un’ampia
serie di ipotesi, tutte soddisfacenti, su alcuni dei problemi fondamentali
dell’umano esistere (tanto per cominciare). Avrebbe visto gli spiriti della
terra, dell’aria e dell’acqua assumere le forme più disparate in metamorfosi al
contempo angeliche e demoniache per imperversare contro le miserabili opere
della civiltà, lampi rivelare per un attimo le quinte di altri mondi e il buio
subito inghiottirseli con titaniche risate, o rutti di digestione istantanea,
ombre affacciate alle finestre dai doppi vetri, ma un po’ discoste, sbirciare
atterrite con il bianco degli occhi rivelato a tratti dal bagliore di torce e
candele, lumini filtrare spettrali dalle fessure degli avvolgibili e delle
persiane, una fantasmagoria di ombre balinesi inscenare racconti cosmogonici
sulle facciate cieche dei palazzoni popolari, mentre sotto i suoi piedi si
solleverebbe il manto stradale, colpevolmente trascurato dalle precedenti
amministrazioni, scoprendo voragini infernali e rivelazioni di minuscole,
idilliache nicchie di vita sotterranea nell’istante in cui venivano spazzate
via.
Un disastro del
genere non succedeva da quelle parti dai tempi della peste, più o meno nel
periodo dell’inquisizione spagnola o (adesso non ricordo bene) in quello in
cui, a pochi chilometri da lì, Leonardo (il grandissimo, enigmatico Leonardo!)
si sforzava inutilmente di ficcare qualcosa nella zucca dei bambocci scioperati
di nobilastri della zona (e, probabilmente con maggior successo, sostengono i
maligni, qualcosa d’altro altrove, a meno che non fosse il contrario, perché si
sa che tutti questi geni hanno qualcosa di innaturale, di storto, che so: una
malattia, qualcosa di bacato, un’inversione del corpo o dello spirito, a
compensare tutta la loro genialità: ci deve essere, altrimenti non è giusto!),
e nei ritagli progettava canali, chiuse, traghetti e dipingeva con esasperante
lentezza tre o quattro quadri e affreschi, tutti rimasti incompiuti o
scomparsi, chissà mai perché; o da quelli dei bombardamenti dell’ultima guerra,
altrettanto affascinanti ma sui quali non vale la pena soffermarsi in quanto
del tutto sprovvisti di mistero. La prosa del mondo.
Di tutto questo
Diego C. non si curava (escluso Leonardo naturalmente) e quindi, seduto in
poltrona, con le gambe allungate su un poggiapiedi imbottito, continuava a
leggere il romanzo iniziato due ore prima, ora illuminato da un’applique a pila
di color arancione. Era un romanzo di quelli che gli piacevano tanto, uno di
paura, o un noir, o un thriller, di uno di quei famosissimi scrittori di cui ora
mi sfugge il nome che hanno ridato dignità a generi snobisticamente trascurati
dai capissoni paludati, come se la massa dei lettori che li ama fosse composta
tutta da idioti, e che poi si sbranano loro pure a quintali, ma di nascosto,
anche se ultimamente c’è chi ha avuto il fegato di uscire allo scoperto e di
proclamarli per ciò che sono: capolavori; uno di quelli in cui qualcuno
combatte e sconfigge una multinazionale di quelle particolarmente nocive per
difendere i diritti anche di un solo individuo, ovvero gruppi terroristici o
spietate organizzazioni segrete che di solito ammazzano senza contare fino a
tre chiunque gli capiti nel mirino e per soprammercato, tanto per non
sbagliare, i tapini che per puro caso gli stanno vicino o vivono nei paraggi, meglio
se in numero elevato che fa più notizia, mentre al protagonista riservano una
morte lenta onde avere l’agio di illustrargli tutti i dettagli, anche quelli
più risibili, delle loro reti, inclusi appoggi dei potentati e numeri di conti
cifrati, dandogli così l’opportunità di liberarsi, da solo o con l’aiuto di una
bella ragazza o dell’amico di colore, e magari i protagonisti sono persone
normali come lui, incappati per caso in qualche punto nodale o in una notizia
che doveva restare segretissima: ma a lui queste cose non capitano mai, per
quanto lo desideri ardentemente, anche se poi ripensandoci lo sa che è meglio
di no, che è meglio così.
Ma più spesso si
tratta di detective squattrinati, con un passato oscuro alle spalle,
un’infanzia romanzesca (padri violenti, zii pedofili, mamme alcolizzate ma
bravissime, quando non marce fino all’osso, fratelli e amici drogati persi,
insegnanti incapaci e sadici – tutti tranne uno –, quartieri degradati,
casamenti in cui neppure la polizia, neppure a ranghi completi, ha il fegato di
metter piede: che si ammazzino pure tra di loro, tanti delinquenti in meno per
le strade, e strade ancora più violente, fiorite di bossoli e siringhe e
decorate di sangue vomito e sperma: e tutto vero, dalla prima all’ultima
parola!), che da giovani hanno fatto mille mestieri, accuratamente scelti tra i
più umili (in particolare il cameriere, che è molto istruttivo), e poi ne hanno
combinate di tutti i colori e sono finiti in gattabuia, dove hanno subito
violenze irriferibili, e però coraggiosamente riferite, che hanno fatto
riaffiorare quelle infantili, nel frattempo accuratamente rimosse, ad opera di
qualche patrigno per il resto uomo stimato e irreprensibile, o ucciso dalla
madre per difendere il pargolo vessato (a piacere), ma poi grazie alla lettura
si sono redenti e hanno potuto scrivere le loro storie appassionanti, truci e
commoventi ma senza un briciolo di sentimentalismo, grondanti di esperienza
personale sanguinosa, di una vita vissuta ai limiti, senza trasformarsi in
agnellini però, perché un residuo canagliesco se lo sono conservato di riserva,
un cinismo amaro che gli permette di guardare al mondo con disincanto, di
snocciolare la verità nuda e cruda sul buco nero dell’anima universale, e
insieme di mascherare il loro fondo fragile, tenero, che altrimenti
rischierebbe di trascinarli nella più miserabile delle morti, o, peggio, di
ricacciarli nei più stellati bracci di sicurezza di questo mondo di merda.
Di uno di
questi, un biografo informava che era stato concepito a Los Angeles durante un
terremoto particolarmente virulento (purtroppo non quello definitivo, che deve
accontentarsi della dubbia gloria di una perpetua imminenza): chissà che senso
di onnipotenza avrà sentito il padre, ha pensato allora Diego, mentre il
palazzo tremava sotto i suoi ultimi colpi e la moglie urlava come mai prima con
lo sguardo incatenato al lampadario oscillante! Proprio come le urla che
provenivano anche quel pomeriggio dall’appartamento confinante. Ma lì urlano
sempre, barriscono, sempre a litigare o a fare baldoria: gentaglia per la quale
l’abicì della creanza è più incomprensibile dell’alto sumero o del samoiedo (o
savoiardo che dir si voglia).
Nigeriani, o giù
di lì, che se ne vanno in giro carichi d’oro su auto sportive nuovissime sempre
tirate a lucido e che hanno comprato in contanti, sull’unghia!, l’appartamento,
che riempiono sempre di ragazze con le quali si divertono in quel loro modo
chiassoso, beati loro, che ci devono avere sotto certi affari mica da scherzo
per farle urlare in quel modo, anche se lui per non sentirle (per non farsi
venire brutte idee) si mette le cuffie dell’iPod e che vadano tutti a quel
paese. In realtà sospetta che talvolta si tratti di qualcuno dei loro barbarici
riti di iniziazione, che prevedono il ricorso sia alle buone che, soprattutto,
alle cattive, approfittando della credulità delle bambolone, con sfoggio di
poteri magici e alleanze sovrannaturali che la tempesta in quel momento stava
pure avvalorando. Ci si chiede come diavolo facciano a credere a simili scemenze
al giorno d’oggi, con tutta l’informazione che c’è! Nessuno dei vicini
comunque, illuministi di vecchia data, hai mai avuto niente da ridire e loro
continuano indisturbati a trapiantare la foresta nella metropoli
postindustriale. Il verde che tanto ci mancava. La vita istintiva! feroce e
intensa! La natura!
Quel pomeriggio
Diego le cuffie non le aveva messe perché la tempesta si intonava alla
perfezione con il libro che stava leggendo e così non ha potuto evitare di
sentire una porta che sbatteva e le urla che dall’appartamento hanno invaso il
corridoio, dei corpi che correvano al buio sbattendo contro i muri, dei colpi
secchi molto simili a spari e altri più bassi, ma fitti, contro la sua porta
d’ingresso. Si è alzato con libro e pila in mano e si è diretto verso lo
spioncino, come se non ci fosse buio pesto, e, con una specie di riflesso
condizionato, ha scostato la porta, che subito qualcuno ha spalancato e
immediatamente richiuso.
Nessun commento:
Posta un commento