San Sebastiano, il bel giovane nudo legato a una colonna trafitto da una o più frecce su cui sgranavano gli occhi nelle chiese di tutta la cristianità le signorine e signore afflitte da sposi o fidanzati bolsi e adiposi, e che concupivano anche molti signori senza poterlo confessare (come Mishima ancora pochi decenni fa), assieme a san Rocco era considerato uno dei più efficaci protettori dalle epidemie. La sua storia di conversioni e guarigioni, in particolare di una nobildonna muta, non è la più idonea alla bisogna, ma la necessità per i deboli prende tutte le strade, dritte o traverse, pur di arrivare a superare le difficoltà, a un soccorso, una protezione. In penuria di santi specializzati, se ne adattano altri. Un collegamento si trova sempre. Come protettore san Rocco ha goduto di maggior prestigio, il bubbone o la piaga sulla coscia sono una garanzia, e infatti non si contano le chiese, chiesette, cappelle e edicole che gli sono dedicate nei borghi e nelle aperte campagne devastate nei secoli da ogni genere di pestilenza. Per tacere delle grandi confraternite, come quella di Venezia che ha regalato all’umanità il capolavoro inesauribile della Scuola grande, tappezzata di capolavori, di Tintoretto soprattutto. Ma anche Sebastiano ha fatto la sua parte, in pale di altari, perlopiù laterali, dipinti devozionali domestici (diciamo così) e oggetti di fervore collettivo e privato.
Di solito è un bel giovane che viene rappresentato nel momento del supplizio, legato a una colonna, trafitto da uno o più strali, dal fisico perfetto (era il minimo, per un capo della guardia imperiale quale lui era) con solo il ventre coperto da un perizoma spesso succinto in modo sospetto, e lo sguardo variamente declinato dalla serenità alla forza interiore, allo stoicismo e in certi casi persino con una sfumatura di estasi, a meno che non sia il mio occhio non innocente a vedercela. È una figura che hanno presente tutti per averla vista spesso riprodotta o direttamente in qualche chiesa o museo, che ha dato occasione a tanti capolavori, da Mantegna a Antonello da Messina, da Botticelli a Luca Signorelli, a Dosso Dossi, a Guido Reni (che gli risparmia le frecce ma in compenso abbonda con l’inguine scoperto, come faranno altri secentisti, come Aniello Falcone che il perizoma glielo nega del tutto, salvo un recupero in extremis con il lembo del panno su cui è accomodato, come a una seduta di posa) e a Raffaello, che giudiziosamente lo rappresenta di mezzo busto, ben vestito, con uno sguardo su cui preferisco non azzardare ipotesi e il suo emblema, la freccia, tenuta tra le dita con delicatezza come una penna, quella con cui è scritto il suo martirio e che rappresenta anche le frecce avvelenate della peste che però lui addomestica con il suo potere taumaturgico. Per quanto interessanti però, e alcune persino sublimi, non parlerò di queste opere.
Preferisco soffermarmi sul momento successivo al martirio, quando il corpo del futuro santo crivellato di frecce, creduto senza vita, viene lasciato in pasto ai cani in un terreno incolto, dove la leggenda narra che sia stato ritrovato da una vedova, Irene che lo porta a casa sua e lo cura fino alla guarigione, preludio a una seconda e definitiva esecuzione. È una scena che ha avuto meno successo del corpo glorioso trafitto, ma che nondimeno è stata rappresentata in opere di grande livello: in particolare, per quel che ci interessa qui, ad opera di Georges de La Tour, in una decina di versioni di sua mano e di bottega, spesso eccellenti.
La scena è notturna, come si conviene al maestro francese specialista del lume di candela (se fosse aperta, raccomanderei una visita alla magnifica esposizione di Palazzo Reale di Milano che la tragica epidemia che ci sta flagellando con le sue invisibili frecce ha interrotto) e mostra delle figure in primo piano circondate dal buio, con solo qualche bagliore sull’ambiente circostante. Ci sono, del soggetto, due varianti principali. La prima di taglio verticale, con alcune figure in piedi; la seconda orizzontale, con meno figure, rappresentate più in primo piano, per catturare lo spettatore facendolo entrare nel quadro, come in un altro dei quadri esposti a Palazzo Reale, di Trophime Bigot, che per de La Tour, della cui formazione poco si sa, è stato tra i più probabili riferimenti, assieme al principale autore di notturni, Gerrit van Honthorst (Gherardo delle notti) e a Hendrick ter Brugghen, pure presenti nella mostra.
In realtà le versioni verticali (al Louvre e a Berlino) mostrano più la scena del ritrovamento del corpo da parte di Irene che quella della cura a cui si riferiscono i titoli. Irene con una fiaccola osserva il corpo riverso a terra con una freccia nell’addome, appena sotto lo sterno; dietro di lei tre altre donne (due relativamente in luce che formano con la santa una diagonale, come una mezza piramide tagliata dal margine destro del quadro, con il corpo di Sebastiano a fare da base; e una più discosta, al buio, di cui sono illuminate solo le mani giunte e una parte del viso piegato a guardare verso il santo, oppresso da un dolore muto, composto, a cui invece dà libero sfogo, con un pianto dirotto la donna in piedi, più arretrata, ma anche più gigantesca all’apparenza, incombente su tutta la scena, quasi a sintetizzarne le emozioni.
Il corpo del santo, snello, levigato, dalla muscolatura appena accennata, è messo di traverso lungo il bordo del quadro, come in tante Deposizioni, con il braccio destro ad angolo retto, abbandonato, come spezzato, e la gamba destra sollevata, a coprire il sesso e insieme ad abbozzare una diagonale parallela a quella formata dalle tre donne. Dietro Irene c’è un’altra donna, con il corpo piegato in avanti e le braccia aperte in modo simile a quello del dolore di tanti compianti, ma in modo misurato, non spettacolarmente agitato, come se non ci fosse bisogno di niente di più di questo stupore pensoso, mentre Irene guarda, ancora incerta forse sulla condizione del giovane, certo pensando a cosa fare.
La versione orizzontale invece (forse una copia, ma non importa, è comunque bellissima, vedi fig. 1), racconta il momento successivo. Irene ha capito che il giovane è ancora vivo e si è chinata su di lui per cominciare a prodigargli le prime cure. È il momento del soccorso vero e proprio. Il giovane è vivo e cosciente. Nel buio della notte, nelle tenebre del mondo, una luce si riflette nella sua sclera, il braccio è piegato, ma ora come gesto non di abbandono bensì di sostegno del torso semieretto, mentre è intento, sereno e distaccato, quasi la cosa non lo riguardasse, a osservare la donna che gli estrae la freccia confitta non più nell’addome, ma nella coscia sinistra. Tra Irene e Sebastiano, più in alto, a fare da vertice del classico triangolo formato dalle teste, una giovane è chinata a guardare, si immagina con trepidazione, l’intervento. Tiene in mano una lampada, più discreta della fiaccola fiammeggiante della scena della scoperta, al cui interno è accesa una candela che proietta una luce diretta sulla coscia dell’uomo e sulla mano, sul lato destro del viso e sui bordi del velo di Irene. Ma prima ancora il contrasto della luce sulla lampada dà luogo a una croce in ombra (accorgimento spesso usato da La Tour, e non solo da lui), che allude al prototipo dei sacrifici e dei martirii, quello di Cristo.
Irene prende la freccia con due dita della destra, con un gesto delicato e insieme elegante (la delicatezza è sempre elegante), e si appresta a toglierla. Il busto è eretto, solo la testa leggermente chinata, lo sguardo attento a procurare il minor dolore possibile, consapevole che non potrà essere evitato, mentre la mano sinistra si appoggia con le dita al ginocchio, quanto basta per aiutarsi a eseguire al meglio l’operazione senza perdere l’equilibrio. Non un grammo di più. Le labbra sono chiuse, accostate senza tensione alcuna, senza tradire nessun accenno di espressione. Solo l’attenzione che pervade come un soffio tutto il viso. Non c‘è nient’altro da dire. Niente da comunicare. Come non deve comunicare niente tutto il corpo della donna, intenta solo a ciò che fa, e forse nemmeno allo scopo per cui lo fa e alla persona a cui lo fa. A fare bene quello che sta facendo. A prendersi cura di chi ha curato e guarito. A cercare di salvare chi ha salvato e continuerà a salvare.
Una versione più breve, con un diverso inizio, è stata pubblicata su doppiozero.com il 31 marzo 2020
Immagini
1. Georges de La Tour, San Sebastiano curato da Irene
2. Antonello da Messina, San Sebastiano
3. Raffaello, San Sebastiano
4. Guido Reni, San Sebastiano
5. Aniello Falcone, San Sebastiano
6. Trophime Bigot, San Sebastiano
7. Georges de La Tour, San Sebastiano curato da Irene
8. Georges de La Tour, San Sebastiano curato da Irene (dettaglio)
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