Non
è mai stato molto intelligente. Certo, non è colpa sua, eppure si vergogna ad
ammetterlo. Da bambino, siccome era piuttosto sveglio e vivace, tutti pensavano
che lo fosse, invece. Tanti, dai parenti agli amici agli insegnanti, e in tanti
modi glielo avevano ripetuto, che aveva finito per convincersene anche lui: gli
sfuggiva la fragilità del nesso, e forse gli andava anche bene, sotto sotto. E’
vero che ci sono delle persone molto intelligenti che da piccole erano delle
zizzanie come lui, ma è altrettanto vero che nei bambini una grande
intelligenza può accompagnarsi ad atteggiamenti che rilevano di una certa
ottusità e frignoneria. Magari per timidezza, chi lo sa? Introversi.
Precocemente segnati da esperienze amare quanto fruttifere in prospettiva
futura. Alchimie spesso riscontrabili anche negli adulti, del resto. La vita è
bella perché è varia. Ma ci sono persone vitali quanto cretine, se è per
questo. Non sembrerebbe il suo caso, comunque.
La
sua vivacità si manifestava nell’afferrare al volo le cose e nel raggiungere in
breve tempo un’apprezzabile capacità di manipolazione, una versatilità e
un’abilità che non mancavano di stupire, in un bambino: bastava che qualcosa lo
stimolasse perché lui vi si gettasse a capofitto, senza perdere con ciò le sue
precedenti acquisizioni, che ritornavano intatte allorché se ne presentasse
l’occasione e la necessità, anche se difficilmente riusciva ad integrare
organicamente le nuove con le vecchie, come se ciascuna vivesse separatamente.
Ma
nessuno faceva caso a questa deficienza, lui meno di tutti. Poca concorrenza,
attenzione e metri di giudizio instabili, benevolenza diffusa, non
contribuivano che a meglio illustrare le sue successive prestazioni,
confermando la sua eccellenza e spingendolo a prove sempre differenti e sempre
brillantemente, ma allo stesso modo, superate. Si rammarica solo di essersi
fermato, così crede ed è inutile non credergli, a quel livello. Anche adesso
coglie al volo molte cose e altrettante ne sa fare abbastanza bene, e gli è
rimasta un’apparenza di vitalità che lo spinge ad affrontarne molte. Il suo
cruccio è che tutto si infranga contro il limite dell’”abbastanza bene”.
E’
quasi insuperabile nel cogliere le superfici, ma questo è anche il suo più
grave difetto. Di capire veramente non è capace. E nemmeno di darlo a vedere.
Fingere è un’astuzia troppo superiore alle sue forze. Capita sì che, siccome
cambia spesso, di capire dia l’impressione, ma è per l’appunto un’impressione
che si fanno gli altri: lui, quanto a sé, è rigorosamente vero, sempre. E così
ancora oggi alcuni persistono nel giudicarlo molto intelligente, le prime volte
che lo incontrano. Se lo frequentano più a lungo però, prima o poi fatalmente
si accorgono dell’abbaglio. A meno che non siano ancora più stupidi di lui,
come pure capita. Ragion per cui ha una tendenza imperiosa, quasi una coazione,
a legare esclusivamente con quest’ultima categoria. Gli altri non li frequenta
più dopo le prime volte: gli piace lasciare di sé il miglior ricordo. Per
delicatezza. O altrimenti fa in modo di incontrarli sempre dopo lunghi
intervalli, onde permettere alla buona impressione di sedimentare e che vengano
dimenticate invece le basi fragilissime su cui era fondata. Allora dà una
spolveratina al suo lustro, piccolo o grande che sia, senza correre inutili
rischi, e per un po’ torna a dileguare. Non è bello, né per lui né per loro,
che lo prendano per un idiota, moralmente ed esteticamente parlando. Anche
loro, che figura farebbero se scoprissero di aver commesso un errore tanto
madornale?
Ovviamente
soffre a vivere sempre in mezzo a dei perfetti cretini solo perché qualcosa in
lui esige una posizione di dominio, rifiutandosi di vederlo sistematicamente
soccombere o servire. Ineliminabile atra dell’infanzia, l’abitudine ad essere
il capo, così facile in cerchie ristrette e limitate come quella in cui è
cresciuto lui! Poi, maturando, le occasioni per ricredersi abbondano
addirittura, ma sempre qualcosa, in fondo, si ribella al cedimento definitivo,
seppur non corroborato dalla benché minima carica aggressiva. Nel suo ottimismo
lui spera che proprio questa possa rivelarsi la sua via verso la saggezza. Ma
non si illude.
Del
resto la tentazione di comandare è molto forte: basta averla assaggiata anche
una sola volta per restarne intossicati per sempre. Altro che comodità
dell’asservimento! Ci piace dipendere in tutto e per tutto dalla mamma solo in
quanto siamo assolutamente certi che è lei ad obbedire in tutto e per tutto al
nostro volere. Sei disposto a servire qualche volta solo se sei tu a decidere
quando e come, e se puoi comandare il resto del tempo, così hai la sicurezza di
comandare anche quando servi. Servi allora, inoltre, persino volentieri: sfuggi
alla presunta cattiva coscienza del despota. Anche i despoti hanno una
coscienza, è d’uopo attribuirgliela; e come potrebbe non essere cattiva,
d’altronde, dal momento che è una coscienza?
L’astinenza
dalle compagnie geniali e dalle frequentazioni intellettualmente stimolanti,
tuttavia, alla lunga riesce un po’ frustrante. Così col tempo ha escogitato un
semplicissimo sistema rotatorio che gli assicura una certa costanza negli
incontri, ma sempre con gente differente.
Il
numero di persone degne di frequentazione non è alto purtroppo, ma basta fare
una scaletta tenendo conto delle date, e assiduità e ripetizioni non si
sovrapporranno. Ci sono due pericoli tuttavia, di natura uno oggettiva l’altro
soggettiva. Il primo si verificherebbe se, durante i reciproci incontri tra i
suoi interlocutori, il discorso venisse a cadere su di lui: si accorgerebbero,
confrontando ricordi e opinioni, che si ripete e non oltrepassa mai la soglia
della pura suggestione momentanea. Ma non è un vero pericolo a ben guardare,
perché lui fa sempre in modo, quando porge o parla, di ritrarsi o di far
pensare, come difatti è in ogni caso, che le sue parole sono suggerite dalle
loro o da quanto essi fanno o hanno fatto. E’ inoltre raro che nelle
conversazioni si oltrepassi quella soglia, e quindi è difficile farci caso,
tanto più se vitalità e varietà nella ripetizione vengono a giustificare le
interruzioni. E poi perché quegli importanti personaggi dovrebbero occuparsi
proprio di lui, quando ciascuno può benissimo, con un tasso ben superiore di
soddisfazione e di utilità, riferirsi a sé e agli interlocutori del momento?
Più
preoccupante invece il secondo pericolo, specie in quanto consustanziale alla
sua persona, che anzi ne dipende come da un principio trascendente: il suo
spirito mimetico cioè. Non tanto per la tendenza a identificarsi con qualsiasi
persona oggetto o situazione, quanto soprattutto perché lui stesso riconosce di
essere solo in e attraverso queste successive identificazioni. Ha riconosciuto
cioè che tutti i cambiamenti e gli entusiasmi cui va soggetto non dipendono da
qualche sua voracità o desiderio di estendere le proprie capacità e cognizioni,
ma che al contrario è lui, nella sua identità, a dipendere totalmente da essi.
Ecco la ragione di tutti gli interessi e di tutte le successive prove di
abilità che lo hanno caratterizzato fin da bambino: la versatilità non era
l’espressione delle sue qualità, ma una necessità costitutiva. E difatti niente
è mai stato scelto da lui o lo ha coinvolto in un’interessenza profonda, e
sempre egli ha colto solo, e bene, la superficie: solo essa ha sempre visto e
lo concerne. Al di sotto e al di là non c’è per lui, lui non è niente. Colta,
la superficie è come esaurita, non è più, e quindi non è più nemmeno lui.
E’
come se egli fosse ridotto ad un grande occhio e basta, o ad uno specchio,
tutto definito da una dimensione visiva: balbetta al telefono e gli piace la
pittura. Per sua fortuna c’è sempre qualcosa di diverso che gli si offre, o una
diversa superficie che magari è ancora la stessa cosa di prima, ma non per lui
che non distingue la diversità di prospettiva e non afferra le relazioni. Tutto
procede secondo una legge di pura contiguità che non conduce ad accumulazione
né a condensazioni, e scivola da un’impeccabile evidenza all’altra in un treno
né casuale né causale. Senza nessi né misteri. Se ci sono articolazioni o
rapporti deducibili lui non li coglie, e lo stesso mutamento di oggetto lo
sfiora soltanto allorché il nuovo gli si impone e i predecessori gli sono
diventati assolutamente estranei. Non li può richiamare, come da piccolo,
secondo l’occasione o la necessità, sia perché troppi ne sono succeduti nel
tempo, sia perché, ora, è il cambiamento stesso a costituire l’unica occasione
e necessità. E’ come se non fossero mai stati, ormai: l’uno ha allontanato
l’altro per sempre, nomenclatura di personaggi che hanno nel nome la sola
testimonianza, in una lingua per il resto indecifrata. Pensa ed esiste, lui,
solo in presenza. Ecco perché di quegli interlocutori e dei loro sostituti ha
un sempre rinnovato bisogno.
Va
da sé che ha bisogno anche della sua cerchia abituale: in quanto tale, ogni
superficie è buona. Alcune però, il criterio è puramente quantitativo, durano
decisamente poco e suscitano reazioni scarnificate, troppo lisce, omogenee,
limitate… Né egli dubita che possano celare insospettate ricchezze, oltre la
porta stretta della loro apparenza, solo che il passaggio a lui non è noto. E
concede pure che coloro che reputa geniali lo siano solo di facciata; vale però
lo stesso discorso. Per non sbagliarsi si attiene all’attrazione che subisce e
ai valori socialmente riconosciuti, specialmente quando si presentano nuovi
oggetti. Ma se fortunatamente il mondo è vario, non è però infinito, almeno
quello a sua disposizione. Di qui la necessità di sostituti e di aggiunte.
Questo
potrebbe spiegare, per esempio, la sua passione per la lettura, la coazione,
anzi, a passare da un libro all’altro senza soluzione di continuità. Anche se,
quando legge, avviene spesso che non legga: guarda se stesso leggere, come
prodotto della lettura, e non fa troppo caso a ciò che gli occhi scorrono.
Naturale che non capisca, che slitti sulla comprensione, sbigottito a fissare
il proprio sbigottimento. Ovvero capisce quel che legge, ma solo quello:
leggere è ciò che lo avvicina di più al pensiero, ma non può pensare finchè
legge, esattamente come non può una volta che di leggere ha terminato. E così
continua a non capire. Quando ha finito di leggere può solamente dire: ho
letto. In certi casi aggiunge, in perfetta incoscienza: bello!, o tira un
sospiro: anche questo è andato, posso cominciare altro. Ma ‘altro’ che cosa?
Ancora leggere: la ricerca della catatonia. Per poco forse, ma almeno quella la
raggiunge, talvolta: sospeso, bloccato, escluso da tutto, impedito a qualsiasi
parola o movimento, eppure sicuro che quello è il massimo di vita
consentitogli. Non che lui lo sappia,
prima durante e dopo; ma perché compulsivamente ricercarla altrimenti? Una
sicurezza inspiegabile quando non c’è, indiscutibile quando c’è.
Finisce
sempre, quando legge così come in ogni cosa che fa in solitudine, che tutto ciò
che gli sta di fronte determini e si identifichi con ciò che gli passa per la
testa, e che ciò che gli passa per la testa, altro non serva che a fornirgli
un’immagine di sé, per quanto provvisoria. Ad attività terminata, egli resta
solo con la propria immagine più recente, che si limita a seguire, impotente,
nel suo inarrestabile svanire: pura constatazione che l’impotenza si sforza per
chissà quale deriva di rivestire di sembianze razionali e causali a loro volta
puramente sintattiche, così che il tenore stesso della constatazione si fa sempre
più remissivo e incolore, fèsso e senza oggetto, perché lui è l’oggetto,
impassibile e senza soggetto perché lui è il soggetto.
Può
solo, per ovviare, contrapporre alla propria immagine che scompare, un’altra
già scomparsa, che ne occupa provvisoriamente il luogo in mancanza di una nuova
che niente e nessuno è in grado di fornirgli al momento. Immagine naturalmente
incerta e sfumata, evocata dalla mancanza e affiorante per pura differenza,
dato che il puro vuoto se da un canto è la realtà, dall’altro non può ammettere
che lo si riconosca, pena la definitiva scomparsa di tutti i sostituti nei
quali solamente trova sussistenza, ma immagine nella quale soltanto si
sprigiona per lui una scintilla di emozione. L’emozione è nel passaggio.
Principio
di alternanza e di contrapposizione laterale, la nuova immagine sorge più
facilmente in compagnia, tuttavia per ondate mimetiche. E’ la contrapposizione
stessa delle identificazioni materiali e momentanee che lo soccorre allora, e
lo rinvigorisce innescando talvolta persino uno scatto di aggressività,
l’impulso prelibato alla polemica. Una cosa nasce dall’altra: allitterazioni;
si appoggia sull’altra e vi si contrappone, poiché nessuna vive di forza
propria: negazioni, antitesi, paralogismi se è il caso. La polemica
presupponendo una forte identificazione, si comprende che lui la prediliga: gli
sembra di vivere con maggiore intensità. Si rammarica solo che sia tanto rara:
sempre quelle scipite rivendicazioni indirette, le invidie taciturne, gli
sfoghi domestici!
Quando
si manifesta però, fosse pure in sordina, lui vi si getta a corpo morto, la
raccoglie, la coccola e la cresce con tutto il suo amore: diventa allora
accesa, spumeggiante, addirittura virulenta, estrema, subdola o sfacciata a
seconda dei casi, pronta ad usare qualsiasi arma, lecita o meno, come appunto
conviene che ogni sana polemica sia. Quanto evanescente tuttavia! Tutto dipende
da dove si trova e con chi.
L’aggressività
non origina mai da lui; e come potrebbe? Va in un posto, vede gente e aspetta.
E’ gentile, mansueto, potrebbe facilmente sembrare saggio nel suo distacco, a
uno sprovveduto, o la vittima designata, allo smaliziato. La verità è che lui
ancora non sa chi è né in che modo verrà ad essere. Ma se appena l’atmosfera si
turba, le voci si alzano e le posizioni si irrigidiscono, prende il via anche la
sua mutazione, verso il crescendo e poi il fortissimo.
Caricata
la pila, è impossibile fermarlo: diventa settario, intransigente, assoluto. Un
vero leader, per un po’. Nemmeno lui riesce più a controllarsi, tanto che in
più di un’occasione si è spinto fino a causar disagio anche in coloro stessi
che difendeva o per i quali parteggiava. Non che non se ne rendesse conto, ne
era dispiaciuto anzi, ma più forte di lui era la sicurezza di sapersi da
qualche parte. Gli altri però, quando si vedono imitati, rifiutano inorriditi
la sua totale assimilazione e, pur evitando di cedere ai vecchi avversari, si
distolgono dall’oggetto su cui convergevano le loro opposte idee e le di lui
imitazioni e tutti insieme gli si rivolgono contro, lo aggrediscono da ogni
lato, costringendolo a combattere su tutti i fronti. Lui allora difende a
oltranza l’oggetto, cioè il loro desiderio che è diventato suo, e si fa tanto
più aggressivo quanto più gli altri ripetono che in fondo ‘non è niente’.
Poi,
col passare del tempo, tende ad assumere tutte le posizioni contemporaneamente
nella loro versione più vigorosa, quella negativa cioè, che meglio evidenzia le
pecche di ogni antagonista, e finisce col disprezzarli tutti con la stessa
forza. Quando è finita, naturalmente si vergogna di se stessa e delle altre,
che ha contribuito a smantellare e dalle quali è stata smantellata, e lui
stesso diventa, è la Vergogna.
E’
la vergogna che gli mostra quanto inconsistenti fossero le sue prese di
posizione, tanto più marcata quanto più accese quelle,
diventando vergogna degli spazi vuoti tra ognuna di esse. E lui stesso si sente
svanire come non mai, si nega fino alle radici della propria inconsistenza, e
negandosi si riconosce e si afferma, mentre fluttua in quelle intercapedini nelle
quali trova infine una dimora.
(da Cosa dicono i morti, metà anni '80 circa)