Prima di tutto, non una parola di spiegazione (e tanto basti a proposito di “arte e politica” e di “politica dell’arte”).
Allargare il mercato a ciò che non esiste, altro che ridimensionarlo o negarlo: guadagnare col niente, le pure intenzioni, notoriamente di costo zero, senza lasciare neppure dei resti.
Ridurli al minimo, per lo meno: per economia di spazio, per delicatezza.
Alla galleria, centrale, si accede direttamente dal marciapiede sempre affollato, attraverso una porticina che si apre verso l’esterno, ricacciando indietro per un momento il visitatore a intralciare le traiettorie dei passanti, che credevano di essersi liberati di lui e ora lo guardano un po’ scocciati come se l’avesse fatto apposta. D’altronde come saperlo?
Oltre la soglia, illuminato da un tubo di neon che percorre tutto il soffitto, c’è un corridoio largo un metro e lungo quattro, o cinque, a seconda della versione adottata per l’opera da esporvi o dei ripensamenti dell’ultima ora, che è comunque consigliabile evitare: per rispettare il progetto, intoccabile una volta licenziato; per serietà.
Se si fa qualcosa, fosse per la prima e l’ultima volta, occorre farla bene, da professionista consumato: di tener conto dello spazio e della galleria, quindi, non se ne parla nemmeno. Se bisogna rifare i muri si rifanno, o si ricoprono con pannelli.
I pannelli però devono essere dipinti come i muri e arrivare fino al soffitto: non vanno riconosciuti come tali.
Lungo i muri del corridoio (i muri veri, o quelli finti dipinti da muri veri), si fronteggiano, tutti della stessa grandezza (cm 70 x 100), alla stessa distanza di 30 cm e con la stessa cornice (o anche senza; anzi: senza è meglio), prima due coppie di specchi (o una, nella versione più spartana e meno patetica, che adotterò tuttavia, perché che ci sia un tocco di patetico, con o – meglio – senza ironia, proprio per la sua lieve nota stonata, mi piace, da vero snob), poi una coppia di tele e infine un’altra di specchi. Sul primo specchio di destra, al centro esatto, scritto nei caratteri Pica comuni a tutti i testi della mostra, neri in questo caso e alti 10 cm, c’è il sostantivo: “NIENTE”; su quello di fronte, il sintagma: “CHE SI RIFLETTE”. Il “si” è scritto in corsivo e le linee sono tracciate con qualche approssimazione; non di mia mano, ovviamente (non mi riuscirebbe di fare qualcosa di approssimativo neanche a volerlo).
In basso sul secondo specchio di destra è incollata una foto qualsiasi di me bambino (quella col pagliacceo magari, che ho già utilizzato al liceo per la copertina del giornale studentesco: una citazione che nessuno potrà riconoscere); su quello di fronte, nella stessa posizione, un’altra foto mia, ancora da bambino, ma di due anni più vecchia, oppure niente (in questo caso ci sarà una foto per terra, voltata sul dorso, incollata al pavimento in modo che non possa essere raccolta, anche se un angolo spiegazzato inviterà qualcuno a tentare di farlo, strappandola con conseguente mortificazione mista a stizza repressa: la foto verrà ogni volta sostituita e reincollata allo stesso modo. (Questa idea della foto incollata per terra potrei utilizzarla comunque).
Poi ci sono due tele bianche con le stesse scritte nere (o viceversa, come un negativo) della prima coppia di specchi, e infine l’ultima coppia di specchi senza scritte né foto (già mi ci vedo, che controllo il nodo della cravatta e ravvivo i capelli, evitando di fare smorfie solo perché non visto, o che spio le reazioni dei visitatori: per niente divertenti).
Superata questa prova il visitatore, che vorrebbe tornare indietro ma non può, perché altri, in fila indiana, premono alle sue spalle, accede all’unico locale della galleria, un quadrato di m 5x5, miserello per la verità, se paragonato alla lunghezza del corridoio. Ahimè, il locale è quasi vuoto e ai muri c’è appeso poco o niente. I muri, oltretutto, non sono veri, ma pannelli, muri finti, dipinti da muri veri però, o muri veri, non si capisce, ma dipinti da pannelli dipinti in modo da sembrare muri veri.
Bianchi, come bianche, cioè vuote, sono le due (semi) pareti ortogonali al corridoio (anche se pensare a quel vuoto un po’ mi fa male).
Sulla parete di sinistra invece sono affiancate, a dieci centimetri l’una dall’altra, due tele bianche. Quella di sinistra è della stessa misura degli specchi e porta scritto al centro, sempre a carattere Pica, lo rammento, alti10 cm, ma stavolta bianchi, della stessa tonalità dei muri o pannelli che dir si voglia (non è il caso di sottilizzare), l’aggettivo qualificativo: “BELLO”; su quella di destra sono allineate, sempre in bianco ma alte la metà (per necessità di impaginazione?), le parole: “COME L’ASSENZA DI PARAGONI”. Questa seconda tela è alta come la prima ma larga il doppio, così che il dittico assomma alla misura, a mio parere davvero ragguardevole, di m 1 x 1,40.
La parete di destra, che sembra ribadire il vuoto delle prime due, a ben guardare presenta due file di quattro fogli per macchina da scrivere formato A4, del tipo extra strong, appese una quasi raso terra, a 20 cm, dal pavimento, l’altra a 20 cm dal soffitto. Sui fogli in basso, scritta in corpo 10, con qualche sforzo si può leggere una frase così segmentata: “Ciò che stai leggendo”, “è diverso”, “da ciò che è scritto” e “SOPRA”; su quelli in alto invece: “Ciò che stai leggendo”, “è diverso”, “da ciò che è scritto” e “SOTTO”.
(Queste minuscole parole, come tutte quelle della mostra, sembrano scritte a macchina o utilizzando lettere adesive già pronte, mentre in realtà sono il frutto del paziente e abilissimo lavoro di contraffazione di qualcuno versato in simili performances che non mi sarà difficile reclutare da qualche parte.)
Sulla parete di fondo infine spicca un trittico di tele bianche della misura di cm 70x30 ciascuna, disposte l’una sopra l’altra alla distanza di 5 cm. Procedendo dall’alto verso il basso, scritte in nero e alte10 cm, incontriamo le seguenti, perentorie, asserzioni: “LO POSSO FARE”, “LO SO FARE” e, da ultimo, “NON VOGLIO FARLO”.
Invece di uno solo tuttavia, la parete potrebbe essere ricoperta di quanti trittici il gallerista ritiene opportuno, con le tele e le parole dei colori più diversi, purché la forma delle parole rimanga inalterata. È possibile usare anche tele sagomate, se il gallerista pensa che siano facilmente smerciabili: tanto non è importante.
Del resto il gallerista può chiedermi tutto ciò che vuole, dal momento che, quand’anche ne trovassi uno disponibile, io non ho nessuna intenzione di realizzare questo progetto: ciò che intendo fare, infatti, non è una mostra, ma venderne l’intenzione a qualcuno che mi paghi per non realizzarla. Alla Banca di Oklahoma per esempio, con la quale sono già in contatto.
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