Vite di uomini non illustri, l'ultimo libro di
Giuseppe Pontiggia, è sul mercato solo da un paio di settimane e già ha
raccolto una cospicua messe di consensi critici. E' facile prevedere che i dati
dalle vendite non saranno da meno: l'autore è noto anche come personaggio
pubblico, il titolo accattivante, i temi sembrano fatti apposta per soddisfare
la sete endemica di "normalità" che la declinante religione della
fama e il ribrezzo per i nostri uomini illustri non possono che suscitare. Non manca
nulla insomma perché si riproduca il miracolo del bestseller di qualità, per
dirla con Giancarlo Ferretti, così come non manca nulla per destare più di un
sospetto nei soliti maligni. E' quindi meglio sgombrare subito il campo da
possibili equivoci: quanto ha ricevuto e riceverà, il libro se lo merita tutto.
Pontiggia infatti si guarda bene dal cantare l'epopea della normalità,
quasi a nobilitarne lo squallore; fa anzi piazza pulita di ogni intento
polemico, etico o didascalico, affrontando il problema a partire dal campo che
più specificatamente compete allo scrittore, quello letterario. Ed è appunto in
questo che consiste la difficoltà maggiore, perché raccontare la vita di uomini
non illustri significa fare i conti con gran parte della tradizione romanzesca,
che da Don Chisciotte in qua in fondo non ha fatto altro. Solo che poi quasi
tutti i personaggi incappavano in fatti mirabolanti, ingerenze storiche,
disgrazie su disgrazie, metamorfosi e impedimenti insormontabili: più raramente
se ne parlava se la loro vita trascorreva nell'inesorabile quotidianità, a meno
che non fosse riscattata dall'amplificazione dell'analisi sociale o psicologica
o da esemplarità e risonanze mitiche che solo il romanzo poteva dispiegare.
Pontiggia invece lo ha fatto rinunciando a queste risorse, e di conseguenza
nelle diciotto vite del suo libro, né microromanzi né semplici racconti, si è
trovato nella necessità, fingendo di semplicemente capovolgere un genere ben
codificato dalle radici classiche, di cercare di inventarne un altro, o quanto
meno di dissodare un nuovo lembo di raccontabile; che ci sia riuscito è il suo
maggior pregio.
La vita, inventata, dei protagonisti viene condensata in un breve spazio
che va dalle dieci alle venti pagine: si comincia con la data e spesso le circostanze
della nascita, eccetto che nell'ultimo, e si finisce con quelle della morte
(così è la vita, pare). Le date di nascita sono raccolte in due periodi, dal
1890 agli inizi del secolo e negli anni trenta, con la sola eccezione di
Bertelli Claudia, del 1949; quelle di morte oltrepassano la soglia del duemila:
scelta non solo autobiografica, dal momento che le due generazioni
corrispondono a quella di Pontiggia, che è del '34, e dei suoi genitori, ma
sono anche quelle che hanno conosciuto la maturità durante il fascismo e dagli
anni del boom in poi.
Pontiggia fa un uso mirato dei riferimenti storici, quasi sempre risolti
nel privato del personaggio (la menomazione subita in guerra, la moglie che
tradisce il marito disperso, i danni dell'inflazione che inaspriscono l'odio
per il fratello) e talvolta come contrappunto da questi trascurato perché tutto
preso dai suoi problemi, per esempio di gelosia; ma non è il caso che li
trascuri anche il lettore. Da qui a dire che si tratti di vite in qualche modo
esemplari dell'uomo comune del '900 tuttavia il passo non è affatto scontato,
soprattutto perché l'autore si guarda bene dal dotarle dei tradizionali stigmi
dell'esemplarità: i personaggi infatti non sono dei "caratteri", non
rappresentano categorie o ceti (anche se è evidente la prevalenza della
borghesia), e se hanno dei tratti generalizzabili sono quelli a cui nessun
oggetto di narrazione può sfuggire. E' probabilmente anche per ridurre questo
rischio che le loro storie sono narrate con la stessa oggettività e si direbbe
volutamente ingabbiate in un'identica struttura che, dopo un inizio dal tono documentario, si sviluppa per brevi
episodi che scandiscono le tappe di un percorso che generalmente si definisce
attraverso una scena più ampia, e che infine la morte conclude.
Ogni volta differente è invece lo snodarsi delle singole vite,
l'articolazione dei frammenti e dei dialoghi mediante un montaggio di
magistrale varietà inventiva, che opera salti, inserisce vuoti e sutura
distanze così da rendere più compatta la narrazione e insieme da trarre
vantaggio anche dalle pause e dai
silenzi per accentuare il risalto di ciascuno di essi, di modo che l'inespresso
si coniughi con la chiarezza e la potenzi. E sempre differente, pur nella
coerenza di un inalterabile distacco cronachistico, è lo stile che Pontiggia
adotta per ogni vita, con una molteplicità di registri che deriva non solo
dalle aree culturali, storiche e geografiche dei personaggi, ma anche dai
generi narrativi, psicanalisi compresa, ai quali di volta in volta la memoria
letteraria associa il singolo personaggio o evento o contesto. L'abilità
maggiore di Pontiggia, la novità che contraddistingue questo libro in rapporto
per esempio alla narrativa postmoderna, è consistita nel non utilizzarli come
nota di colore, allusione intellettualistica o in funzione parodica,
combinatoria o metanarrativa (dimensione che non è tuttavia assente, seppur ben
mimetizzata), e di amalgamarli invece all'oggettività complessiva della
narrazione e della descrizione mediante una sorta di discorso indiretto libero
dal tono indecidibile, con risultati di grande umorismo. Questo gli ha permesso
di non reprimere quelle sfumature di tenerezza, di indulgenza e di lirismo che
nei libri precedenti si era sempre rigorosamente vietato quando si profilava il
rischio della banalità, come se parlare senza veleno di personaggi banali o
riferire i loro discorsi avesse potuto
macchiarne automaticamente anche l'autore.
Al risultato ha giovato la rinuncia in primo luogo alla cadenza
aforistica, che in passato talvolta interferiva con la narrazione dei fatti con
un eccesso di moralismo e di razionalizzazione, e in secondo alla dominanza di
personaggi a diverso titolo qualificabili come intellettuali. Gli è stato in
tal modo possibile affrontare ogni individuo adeguandosi alle sue
caratteristiche, idiosincrasie, ambizioni e debolezze con l'umanità e verrebbe
da dire la saggezza di chi, pur senza farsi nessuna illusione né rinunciare al
dovere della lucidità, appunto per questo è giunto ad accettarle per quelle che
sono, né più né meno. Così anche il lettore trova modo di accostarsi al di
fuori di qualsiasi ingerenza a tutti i personaggi, di ritrovare parentele o
differenze con quelli che popolano senza che in genere vi presti molta
attenzione la sua vita quotidiana e le zone in ombra della sua memoria, se non
addirittura con i propri famigliari o con se stesso. Magari gli capiterà di
riconoscere, e persino di accettare, di attingere lui stesso all'infinito mare
della stupidità; forse imparerà addirittura a guardare con benevolenza anche
agli infaticabili cartografi che lo misurano con la sicurezza di chi abita un
altro elemento, o a trovare simpatici anche i cattivi, come Marinoni Roberta,
la protagonista del bellissimo I piaceri
furtivi. Il che non gli impedirà, quando essa in seguito a una diagnosi
sbagliata muore affermando: "Gli idioti sono troppi", di pensare che
avrà anche ragione, ma che comunque ben le sta.
Giuseppe Pontiggia, Vite di uomini non illustri, Mondadori, 1993,
pp. 308, £.27.000
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