20/04/21

Intervista a Angelo Maugeri (agosto 1981)



La fase folcloristica della “rinascita” della letteratura della poesia, pur giustificata dalla lunga quarantena semi-ufficiale precedente e non priva di qualche merito se ha potuto allarmarne il pubblico, è fortunatamente passata, ma la produzione della poesia altrettanto fortunatamente continua ad arricchirsi.

Finito il momento delle assunzioni di massa e dei pronunciamenti generali e astratti, è giunto forse quello di cominciare a operare delle distinzioni, andando a vedere una per una le varie personalità e tendenze e lasciando a ciascuna una parola che sia, se possibile, la sua.

Senza pretendere all’esaustività né a classificazioni di tipo sportivo, abbiamo allora pensato di condurre una piccola inchiesta intervistando alcuni dei poeti che hanno maggiormente segnato questa rinascita.

 

Tra di essi Angelo Maugeri, classe 1942, non è forse il più giovane ma appunto per questo, risalendo più indietro i suoi esordi e tenendo conto della forte originalità che caratterizzava i suoi ultimi lavori, I sensi meravigliosi (in Quaderni della Fenice, n. 43, Guanda, 1979) e I fiumi i falchi la distanza il vento (in Almanacco dello specchio, n.8, Mondadori, 1980), può risultare inutile come inizio, seguire il suo percorso.

Tanto più che la sua poesia non ha mai voluto segnalarsi per trovate pirotecniche o per la ricerca di novità immediatamente evidenti e provocatorie, ma si è basata fin dai primi tentativi sulla ricerca di uno spessore e di una individualità di tono attraverso il costante confronto culturale.

Non è una poesia di difficile comprensione nemmeno a lettura immediata, ma non per questo è meno arduo e complesso approfondirne le stratificazioni, dato che è frutto di una forte tensione meditativa e insieme di un pudore che non prevarica nell’ostentazione sentimentale o esistenziale: indica, suggerisce, evoca mediante un lessico e una sintassi “puri” ed essenziali.

 

Quali siano state le tappe che lo hanno portato a questi risultati, è stata la prima domanda.

C’è chi ipotizza che in fondo è lo stesso libro che ciascuno legge o scrive, e anch’io, come tutti, da quando scrivo inseguo sempre lo stesso libro, così che ogni nuovo verso, se da un lato è un altro verso strappato alla morte, o aggiunto alla vita, dall’altro è un accostamento a questo libro, che sia “mio” e non, alla Mallarmé, quello che racchiude tutti i libri possibili. Mi è sempre interessata la parola aurorale, quella che sorge come dal nulla e inaugura prospettive inedite, ma dato che so che una poesia non sorge dal nulla, ho cercato, iniziando a scrivere, di trovare la mia confrontandomi con quella che nello stesso solco la precedeva, senza dimenticare però le esperienze contemporanee.

E’ naturale dunque che abbia avuto molta importanza per me la rivisitazione dell’ermetismo, di ciò che in esso era stato dimenticato e travisato, e la sua reinvenzione, alla luce però delle acquisizioni della neoavanguardia degli anni ’60 e dello strutturalismo, come risulta dal mio primo libro Mappa migratoria (Geiger, 1974).

 

Mi pare tuttavia che il tuo linguaggio, sebbene essenziale, non sia di tipo aureo e elevato.

Questo accade perché, quando scrivo, mi pongo nell’assoluta dimenticanza  della mia cultura, e spesso capita addirittura che io parta da versi letteralmente sognati (come i titoli messi tra parentesi di certe poesie di I sensi meravigliosi) o suggeriti da stati onirici durante la veglia, anche se è soltanto nella rielaborazione successiva, nel momento in cui ti provi con la poesia, in questa specie di lotta con l’angelo, che le parole si caricano di quell’ambiguità di cui tu stesso non conosci né l’orizzonte né la direzione.

Ciò non toglie che io abbia sentito che era per l’impegno sulla parola tipico dell’ermetismo che si doveva passare. Ma questo lavoro sul linguaggio ho sempre voluto dissimularlo, per far risaltare invece le immagini, sia quelle più ossessive che mi perseguitavano che quelle entro cui cercavo di spiegare una certa emozione, un certo flusso, di paura o felicità (la morte, il respiro, l’amore, il corpo, la metamorfosi, il “sistema / dei minimi dialoghi…”).

 

Sono temi che tornano anche nei libri successivi.

Sì, anche se il mio secondo libro, Verbale di s/comparsa (Geiger, 1976), trova la sua occasione più immediata nelle discussioni che si facevano allora sulla possibilità di una rifondazione della poesia, dopo che l’analisi linguistica su cui si era retta la neoavanguardia aveva toccato il fondo riducendosi più che altro alla ricerca di giochetti di facile effetto. Su queste discussioni si erano poi innestate rabbie e disillusioni di varia natura che in quegli anni avevo subito, o vissuto.

Attraverso una forte tensione cercavo allora un’espressione molto concentrata, tagliente, che mi permettesse il recupero di immagini della quotidianità che venivano a cozzare tra di loro producendo nuovi significati. Alla fine però mi sembrava di essere come una freccia ferma il cui bersaglio si allontanasse sempre di più. E’ per questo che nei testi successivi ho sentito il bisogno di allentare un po’ la corda linguistica, di ripiegarmi in me stesso, diventare più tenero e dolce, e nel contempo di trovare una voce più distesa, più capace di costruire un periodo, un discorso, anche una narrazione, qualcosa che desse un’unitarietà alla frammentazione delle poesie.

 

Oltre che perfettamente aderenti al discorso contenuto, trovo che i titoli dei tuoi libri siano molto belli. Vuoi commentarli?

Verbale di s/comparsa vuole mantenere già nel titolo l’ambiguità costitutiva del linguaggio poetico. Ciò che compare e insieme scompare, segnalato dalla barra, è l’io, portatore, soggetto del linguaggio. Come è noto tutta la poesia moderna si struttura, schematicamente parlando, attorno ad un io che non è l’autore ma la protezione di una miriade di fantasmi. Di questo io sono state date molte interpretazioni: negli anni ’60 si parlò (Giuliani) di un io ridotto; ma poi si sentì l’esigenza di ulteriormente eliminare la sua presenza e così lo troviamo ora disperso (Cucchi), disseminato (De Angelis), utilizzato in senso antropologico (Conte). Per parte mia invece mi attengo a una concezione che ne metta in risalto la fuga, la fuga del senso dal senso.

Dove con senso – ed eccoci ricollegati a I sensi meravigliosi – si intende tanto il senso semiotico, del discorso, quanto i cinque sensi, ovvero sei, se vi si aggiunge quello della poesia. L’io cioè si perde, perde senso per riacquistarne sempre un altro, per ritrovarsi sempre mutato in altro, come avviene nella metamorfosi, che non a caso è uno dei miei temi ricorrenti.

 

Potresti specificare il legame tra senso corporeo e poesia?

La poesia è il linguaggio più elevato del corpo, corrisponde al segno come eccedenza linguistica. Non di un corpo centrale, robusto, ma di un corpo giocato sul suo margine, sul suo profilo, nei sensi che fuoriescono dalla superficie, come ciò che essa affiora o viene secreto (i peli, la saliva, le lacrime ecc.), la parte più salvabile del corpo, la più noncurante, ma che, appunto come la poesia, ne traduce la più radicale interiorità. Come i sensi inoltre, anche la poesia è un prolungamento del corpo che si proietta verso l’esterno per produrre significati.

 

Pensi che questi significati siano comunicabili?

Forse non si tratta di produrre una comunicazione, dato che la poesia (almeno la mia, come io la intendo) non tende ad affermare verità o ad afferrare qualcosa che sia come un centro della realtà: solo vi si accosta, gli gira attorno, ne descrive i bordi nella loro mutevolezza e cerca di instaurare una comunione di queste esperienze, diciamo con cointeressenza. C’è poco da fare: si scrive per durare, per potenziare la vita e raggirare la morte, ma anche per trasmettere. Se fossi solo al mondo non credo che scriverei: sono illusioni che lascio ad altri, queste. Si scrive per entrare in contatto con l’altro, non per autoconsolarci, ma per con-solarci reciprocamente, per dire: senti, è possibile salvarci, per ritrovare i punti della nostra bellezza attraverso le angosce e le paure.

 





Nessun commento:

Posta un commento