Nuno Judice è uno dei più importanti scrittori portoghesi degli ultimi vent’anni. Nato nel 1949, fa parte di una generazione all’apparenza fortunata, dal momento che ha potuto vivere la prima giovinezza negli anni a cavallo della rivoluzione dei garofani (1974): dagli ultimi del regime di Salazar, quando nel fascismo ancora imperante già si prefigurava e si preparava il cambiamento, a quelli successivi che alle speranza sembravano offrire un terreno di compimento se non privo di ostacoli, per lo meno liberato da quelli più ingombranti; ma che presto ha dovuto scontrarsi col dopo di una normalizzazione che sembra non arrivare mai, se non nelle forme peggiori e nella perenne difficoltà, quando non impossibilità, di conciliarsi col presente.
Bene ha fatto allora Fabio Pusterla, per ripresentare Judice al lettore italiano (a tre anni dall’antologia La poesia corrompe le dita, a cura di A. Aletti, Ed. Colpo di Fulmine), a scegliere nella sua vasta produzione poetica narrativa e teatrale proprio questo racconto che a tale periodo e ai suoi problemi è dedicato, tanto più che molti di essi non sono esclusivi della situazione portoghese. Adagio è infatti una resa dei conti col passato indispensabile per chi cerca di aprirsi una via al presente, ma che può essere fatta solo mettendo tutto in gioco, dai sentimenti alla politica alla cultura. La coincidenza dell’età del protagonista, degli ambienti che frequenta e l’urgenza più che il grado di coinvolgimento coi temi analizzati facilita l’arbitrio dell’identificazione con ciò che può aver realmente affrontato l’autore, e tuttavia il discorso è personale soltanto nella misura in cui ben individuato deve essere ogni personaggio narrativo.
Al pari del protagonista del libro, Judice è consapevole che “la riflessione individuale ha perso completamente di interesse” e “odia ... la letteratura” dominante che non sembra “interessata ad esplorare qualcos’altro oltre ai problemi del proprio autore”, ma non ignora che una riflessione che non sia legata alla concretezza del singolo finisce per essere la peggiore delle astrazioni. Così da una parte proietta i vari personaggi in una dimensione paradigmatica nominandoli mediante i loro ruoli e le loro professioni (il Poeta, l’Innamorata, il Politico, l’Ingegnere), mentre dall’altra cerca di strapparli al pericolo di un’astratta ingessatura moltiplicando le notazioni particolari e concrete in modo che la loro rappresentatività non soffochi ma anzi tragga beneficio dalla loro individuazione.
Anche la scrittura, – nel suo continuo movimento dal presente al passato in un andirivieni in cui la memoria è legata al qui ed ora come prefigurazione distorta da cui bisogna ad ogni costo evitare di restare intrappolati e a sua volta riaccende la necessità di un rinnovato confronto ad ogni nuova mossa della trama –, intreccia con grande equilibrio il momento riflessivo con quello concreto in una densità di immagini che se da un lato si fanno quasi dimenticare nel ritmo serrato del pensiero, dall’altro vi soffondono la tonalità di emozioni e sentimenti che non indulgono ma nemmeno rinunciano a se stessi.
I personaggi succitati invece sono tante figure che al cambiamento dei tempi e della società non sanno opporre che l’irrigidimento di posizioni che risultano sempre esterne, vuoi con la fuga, vuoi con la pretesa di giocarlo ai propri fini o che finiscono per esserne travolte per non aver saputo operare quell’“adeguamento soave di ciascuno al modo collettivo di essere, che dava finalmente un’anima nuova alla città”.
Solo il protagonista, o meglio la voce narrante che non a caso resta senza nome (anonimo come i tanti che al “modo collettivo di essere” partecipano?), dopo aver sperimentato le vie dell’estraneazione, dell’opposizione e della chiusura, lentamente, per tentativi ed errori, trova modo di riaprirsi al reale e alla sua accettazione, che per essere “pragmatica” (anche se a taluni può apparire opportunista o moralista) non per questo si lascia trascinare nel “vomito costante del pessimismo, la vera lebbra del pensiero che ci era stata lasciata in eredità” né nel rimpianto di un passato nostalgico o eroico. “Era quella dunque, la grande rivoluzione: la fine dell’era tragica dell’esacerbazione dei conflitti e delle individualità” ed è in essa che egli deve imparare a vivere, col coraggio di un sentimento finalmente conquistato, ma senza cadere nell’opposto idillio di un presente altrettanto idealizzato. Del resto, anche trovare idilliaca la realtà non sarebbe per niente male, come risultato.
Nuno Judice, Adagio, a cura di F. Pusterla, Sestante, 1994, p. 81, £. 14.000
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