Sono uscito dalla scuola per fumare. Seduto sulla panchina di fronte all’ingresso, al fresco sotto il vecchio ippocastano, mi metto a leggere. Dalla porta esce, senza che io me ne accorga, una (anziana) collega che, quando è ormai quasi fuori dal mio campo visivo, vicino al cancello, si ferma e mi dice: “Vorrei farti una foto”.
“Perché?”, chiedo.
“Sei bellissimo”, mi risponde.
“Capita che lo siamo, quando non vogliamo esserlo”, replico, una volta tanto non per fare una battuta, ma come forma di pudore.
“Quando uno lo è dentro, o è felice di ciò che sta facendo, non si può fare a meno di notarlo. Sei proprio bellissimo”, conclude lei. E se ne va, con la sua faccia scavata, tutta tirata, ma buona.
Spengo la sigaretta, alzo gli occhi verso la chioma dell’ippocastano, che l’anno scorso a giugno era già tutta leopardata, bruciata da una malattia che ora sembra superata, tiro un lungo respiro e prendo la biro dal taschino. Mentre scrivo mi viene in mente che suo marito sta lottando da mesi contro un tumore e che mio suocero, a cui voglio bene, ne è stato colpito un mese fa, o poco più, e un altro mese gli resta, o anche meno. Il tenue compiacimento di cui avevo beneficiato, innocente perché non richiesto, bello perché gratuito, se ne è così andato. Sopravvive solo un’altrettanto tenue tristezza, che, invece di trasformarsi in angoscia, si scioglie pian piano, restando come un retrogusto in ciò che riprendo a fare. Così sia.
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