Nel 1510 Lorenzo Lotto stava affrescando a Roma gli appartamenti papali, quando arrivò Raffaello e tutto quello che lui aveva dipinto venne cancellato per lasciar spazio a quanto avrebbe fatto il divino Urbinate. Niente da dire: capolavori. All’interno dei quali alcuni però intravedono frammenti di sua mano che non sfigurano affatto. Tornato a Venezia, dove è morto da poco Giorgione e il vecchio Giovanni Bellini detiene ancora una buona fetta di mercato, sfolgora la stella di Tiziano. Alla morte di Giovanni (1516), è lui il secondo pittore della città. Eppure nonostante sia ormai un uomo maturo con alle spalle una carriera già cospicua di opere di altissimo valore, stupende nell’esecuzione e originalissime in molti aspetti della composizione, ma quasi tutte disseminate in provincia, a Treviso, Bergamo e nelle Marche, non riesce a ottenere che poche tra le numerose grandi commissioni che stanno cambiando il panorama artistico religioso e civile della città. Nella sua patria, dove è nato nel 1480, le sue opere, anche quelle che ai nostri occhi appaiono splendide, non riscuotono il successo che meritano e anzi alcune più tardi saranno dileggiate dai velenosi scrittori e critici del tempo (come l’Aretino e Ludovico Dolce), tutti proni in adorazione delle inarrivabili creazioni del Vecellio, che rendono ciechi davanti a ciò che si discosta dal suo canone. E così lui deve mettersi continuamente per strada, andare e tornare nella bergamasca dove è ammirato e ha tutta la libertà di inseguire le sue visioni originalissime, e talvolta persino stravaganti, e nella provincia marchigiana, anche in piccolissimi borghi dove pure lascerà alcuni dei suoi capolavori assoluti, come la meravigliosa grande Crocifissione di Monte San Giusto (Mc) o i mirabolanti affreschi dell’Oratorio Suardi a Trescore Balneario (Bg) dove la sua “travolgente vena narrativa” (Pinelli) ha modo di diffondersi nella più grande ricchezza di scene e personaggi e descrizioni anche della minuta vita quotidiana, che pochissimi vedranno ai suoi tempi e ancora meno dopo. Sono ancora là, in attesa dei pochi visitatori di passaggio e, ora, degli ammiratori in pellegrinaggio cresciuti negli ultimi decenni, come la fama dell’artista, dopo alcune mostre memorabili e il lavoro appassionato di tanti studiosi che hanno fatto seguito agli studi inaugurali di Bernard Berenson a cavallo tra fine ‘800 e inizio ‘900, che hanno prodotto un numero copiosissimo di ricerche e monografie. Ora, a riassumere e coronare questo enorme lavoro, arriva Lorenzo Lotto. Catalogo generale, curato per Skira (con la collaborazione di Raffaella Poltronieri, Valentina Castegnaro e Marta Paraventi), da Enrico Maria Dal Pozzolo che l’ha introdotto con un saggio di rara sapienza e bellezza e corredato di accuratissime schede e apparati, da cui attingo le informazioni di carattere storico, formale e iconologico, nonché le citazioni non segnalate altrimenti.
1 - Crocifissione, (1523) -1529 ca., Monte San Giusto (Mc)
2 - Oratorio Suardi, (1523)-1524,Trescore Balneario (Bg)
Il volume fa il punto delle ricerche più significative, inquadrandole in una visione completa e approfondita di tutti i documenti e delle opere autografe e di sicura attribuzione, riprodotte in modo magnifico, e seguite da sezioni in cui vengono analizzati i dipinti dubbi, quelli di bottega e della stretta cerchia, le copie da originali perduti o non individuabili con certezza nonché la trafila delle false attribuzioni. Mancano i disegni, in particolare quelli superstiti per le straordinarie tarsie della Basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo, che entreranno forse in una pubblicazione futura.
È il classico trionfo postumo di un autore misconosciuto per secoli anche se in vita di estimatori ne ha avuti (un documento trevigiano del 1505, dunque quando ha appena 25 anni, lo definisce “pictor celeberrimus”) sia pure prevalentemente in luoghi marginali rispetto alle grandi piazze che hanno fatto la storia dell’arte. La sua è stata una vita non sempre fortunata, e spesso inquieta per rovelli religiosi e personali che l’hanno condotto a vivere anche presso conventi e istituzioni religiose, fino a ritirarsi negli ultimi anni come oblato presso il santuario della Santa Casa di Loreto a cui lascerà tutti i suoi residui averi e le ultime opere. Più frenato che aiutato da un’indole buona e generosa, come mostrano doni e lasciti che faceva anche quando gli affari non andavano benissimo, non sempre capace di gestirsi e in varie occasioni preda di committenti insolventi o pronti a tirare sul prezzo o a pagare molto meno del dovuto, era invece sensibile alle nuove idee religiose e cultore di conoscenze a volte esoteriche e a rischio di scomunica, di fede fervida e periodicamente attratto dall’isolamento dal mondo eppure attento a ogni aspetto della vita anche semplice che ha rappresentato con grande vivezza, benevolenza e ironia negli affreschi e in molte predelle, e acutissimo osservatore di tutte le sfumature della psiche, del carattere e dello status, sempre rispettato anche quando umile, degli uomini e dei committenti.
3- Cristo morto sorretto da due angeli, 1505, cimasa della Pala di Santa Cristina, Quinto di Treviso
Poco si sa della sua formazione, anche se si notano nelle opere dei primi anni, accanto a una precoce maestria tecnica, rimandi ad alcuni dei grandi maestri presenti a Venezia tra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500: Vivarini, Bellini, Antonello, Dürer ecc., sempre ricondotti comunque a uno sguardo e a una cifra stilistica personali.
Fin da subito infatti, per esempio nella Pala di Santa Cristina di Treviso (1505), affiorano alcuni tratti che lo differenziano dai suoi contemporanei per la forte empatia che non indulge quasi mai al patetismo, che caratterizza i suoi soggetti di natura religiosa e in dettagli inediti nella rappresentazione anche dei soggetti più comuni: si prendano per esempio i due Angeli che nel Cristo morto sorretto da due angeli, cimasa della Pala di Santa Cristina, a Quinto di Treviso (1505), sorreggono il corpo di Cristo, il primo dei quali, alla sua destra si nasconde dietro la spalla del morto per non mostrare che sta piangendo, squassato da singhiozzi incontenibili che sembrano agitare persino le sue ali, la sinistra messa quasi di traverso, come disarticolata; mentre l’altro, affranto, volge la testa perché gli manca anche il coraggio di guardare, gli occhi velati, persi, pur mantenendo il contatto con il Signore a cui da una parte regge il braccio come l’angioletto del Cristo in pietà di Antonello del Prado (ma dipinto a Venezia: vedi qui), e dall’altra appoggiando la mano sinistra sulla spalla, quasi solo sfiorandola, con un’estrema delicatezza, che Lotto eguaglia mostrandone solo la punta delle dita, appena percepibili, come nascoste.
Ritratto del Vescovo Bernardo de’ Rossi, 1505, Napoli, Museo di Capodimonte
Lo stessa originalità si riscontra anche nei primissimi ritratti, genere in cui Lotto raggiunge vertici di assoluta grandezza, per esempio nel Ritratto del vescovo Bernardo de' Rossi, ancora del 1505, di memoria düreriana ma già pienamente lottesco, per l’incarnato che non nasconde arrossamenti e leggere imperfezioni della pelle, il taglio della figura rappresentata, cosa rara ai tempi, di tre quarti, lo sguardo diretto verso lo spettatore che suggerisce una forte personalità, rafforzata, in modo discreto ma proprio per questo molto marcato, dal pugno che stringe la pergamena, con la mano e l’avambraccio tagliati a metà, con evidente sprezzatura, che tanto anche quel frammento già basta.
Sono spesso, scrive Dal Pozzolo, “ritratti portentosi … personaggi di un teatro … più feriale che eroico, e senza precedenti”, di gente di provincia e delle più varie professioni, che più che imporre i propri desideri e i capricci dell’alterigia e del rango, erano già contenti che un simile maestro li ritraesse (quasi tutti, perché nel tempo ci saranno anche quelli che li rifiuteranno e rispediranno al mittente, che si adatterà a riciclarli in qualche altro modo e ad accettare pagamenti quasi umilianti, anche in natura…). Ritratti che perseguono una precisione tale da apparire a volte persino spietata, quando non omettono le vene sul cranio lucido, la verruca sulla fronte o sulla guancia, couperose e doppi menti, la piega del labbro o la forma del naso che non ci sarebbe voluto molto a rendere più gradevoli, sguardi non proprio vispi o viceversa inquietanti, o che trasmettono senza infingimenti il senso di una vita.
Ritratto di Liberale di Pinedel, 1543, Pinacoteca di Brera, Milano
Anche nei ritratti, come nelle grandi pale e nelle opere per privati, le innovazioni sono numerosissime: personaggi mai visti prima, almeno come ritratti singoli e non in scene ampie, con “un’immediatezza realistica che non conosce più limite di accademia o di tradizione” (Pignatti 1954), come il Busto di donna di Digione, che sembra una “massaia”, dal volto identico a quello di una mia ex-allieva in questo caso, o con lineamenti che ho visto spesso dalle mie parti, come è comune che mi capiti con Lotto (sono bergamasco). Pose informali, imprese simboliche dentro il ritratto, criptoritratti, tagli dell’immagine inconsueti, ritratti doppi e matrimoniali, dove le reciproche relazioni sono messe a nudo a volte con tenerezza, come nelle bellissime sacre conversazioni, così informali e vive, e altre con ironia o addirittura velata malizia, ma tutti sempre con “prodigiosa perizia mimetica”. Si veda a tal proposito il giovane di Vienna, “primo esempio in cui Lotto introduce un’impresa simbolica proprio dentro il ritratto e non sul suo coperto”, come in quelli che si trovano a Washington, primi esempi delle allegorie che hanno accompagnato tutta l’opera del Lotto, “raffinatissime” non solo per la concezione, per la quale si avvalse di amici e di committenti molto dotti per la simbologia e le storie, ma a cui aggiunse spesso qualcosa, o anche molto di suo, sia a partire dai suoi interessi teologici ma anche alchemici e astrologici, sia soprattutto in virtù di un’esecuzione pittorica che non si limitava ad applicare le indicazioni e le fonti ma le sviluppava autonomamente e apportava loro quell’approfondimento e la particolare riflessione che nasce dall’atto stesso di dipingere e che solo l’immagine può apportare.
Ritratto di Giovane con lampada, 1506 ca., Vienna, Kunsthistorisches Museum
Numerosi sono anche gli autoritratti, veri e presunti, disseminati in tutta l’opera, tra cui quello probabile di uno dei Magi dall’Adorazione (1554-55 ca.) e del vecchio che si affaccia da una porta nella Presentazione di Gesù al Tempio (1554-56 ca.) di Loreto, forse in assoluto la sua ultima opera da cui è partito Francesco Scarabicchi per il suo notevole libretto di poesie con ogni mio saper e diligentia. Stanze per Lorenzo Lotto (liberilibri, Macerata, 2013) dedicato al pittore. Nella prima delle due tele, incompiuta e forse non tutta di sua mano, l’autoritratto sarebbe quello dell’anziano re che si prostra a terra, in una postura molto rara se non da lui inventata, per baciare il Bambino, mentre nella seconda nel vegliardo che si sporge da una porta che dà sullo spazio vuoto nella parte alta del Tempio e della tela, lasciandoci così un’immagine completa di sé: quella di un uomo di grande spiritualità, certo inquieto, ma che ha trovato alla fine la pace in un porto sicuro, conservando intatta la sua curiosità per ogni evento, persona, spazio e oggetto, a cui ha prestato la propria attenzione e cura per tutta la vita, per le variazioni di ogni tipo di luce, per ogni ombra, per la superficie di ogni epidermide e di ogni tessuto, per la sacralità di tutto.
Nozze Mistiche di Santa Caterina, Palazzo barberini, Roma
È soprattutto dal periodo bergamasco in poi, alla metà degli anni ‘510, che le innovazioni si moltiplicano: accanto a quelle citate della ritrattistica, Lotto, scrive Dal Pozzolo, “sconquassa i moduli della pala d’altare”, non limitandosi a proporre nuove soluzioni, [ma] scardin[ando] dall’interno schemi iconografici consolidati”: ambientazioni in plein air, paesaggi protagonisti e non solo di sfondo (“chiave a cui egli accorda lo strumento della sua poesia”, come scrisse Anna Banti), baldacchini invece di strutture architettoniche, scenografie, committenti ritratti come santi e in alcuni casi addirittura come Madonne o partecipi nelle Sacre conversazioni o nei presepi, nelle quali davvero i personaggi sono in relazione e conversazione tra di loro, in un gruppo sacro presentato in modo “affabile” e “composto in placido scambio di affetti”.
Ovunque, lo sguardo insegue sempre il visibile in tutte le sue sfumature sino alle più sottili variazioni di materia e di luminosità: effetti di luce, dettagli naturali, pieghe dei panneggi, piedi, mani e sguardi, posture, piccoli enigmi, oggetti, tendaggi, ali, scorci, aneddoti, “eccentricità iconografiche”, varietà e naturalezza delle posture singole e dei personaggi tra di loro, mai ingessate o rigide, ieratiche e monumentali solo ove strettamente necessario, e piene sempre di vitalità, invece, di movimento e di trovate curiose, senza essere bizzarre o gratuite, giocose piuttosto, e che non mancano anzi, ai miei occhi, di una certa dolcezza. Come quella del San Giorgio che cerca di leggere (o sbirciare) nel libro che san Gerolamo tiene tra le mani (ovviamente una Bibbia, ma quale pagina? Probabilmente una relativa alla Vergine o all’avvento del Salvatore…) nella Madonna con santi del Museo Nazionale di Palazzo Barberini a Roma, e che mi sembra un po’ l’emblema dell’atteggiamento del pittore verso la realtà e insieme di quello auspicato per lo spettatore ideale delle sue opere.
Non ci si stanca mai a guardare il Lotto. È un pittore che sempre inventa e si reinventa. La relativa marginalità rispetto ai protagonisti delle grandi capitali, se da una parte sarà stata certamente motivo di cruccio e fors’anche di depressione per il mancato riconoscimento di una grandezza che ai nostri occhi di oggi (ma non così fino a qualche decennio fa) appare evidente, gli ha permesso di recitare in provincia un ruolo prestigioso che ha assicurato alla sua inventiva rivoluzionaria, al suo sperimentalismo formale e nel trattamento dei temi abituali, una libertà altrimenti impossibile. Vedi un suo quadro sempre con stupore e emozione e anche quando qualcosa ti sembra di riconoscere in dialogo o ripresa da altre fonti, in ogni caso non è possibile confondersi: è un Lotto, o un suo imitatore. L’imitatore non è mai lui.
Ogni volta che incontro qualche suo quadro mi scatta qualcosa in testa, una riflessione, il sussulto per un gesto, un colore o un accostamento, effetti di luce, dettagli naturali, pieghe dei panneggi, intrecci di mani e sguardi, oggetti, tendaggi, ali, scorci, aneddoti, un ricordo, una fantasia. Non mi capita mai di essere distratto o indifferente. Prendiamo come esempio la strepitosa varietà e briosità di angeli, in volo o appena atterrati nelle inarrivabili notissime annunciazioni, solitari ai piedi dei troni, intenti in piccoli gruppi a un lavoro comune (stendere drappi ecc.) e in raggruppamenti più ampi, pieni di aneddoti, scambi divertenti, persino bisticci come nel coro musicante della Madonna in Santo Spirito a Bergamo, o acrobati stupefacenti come i quattro che sorreggono il telo del baldacchino nella Madonna con Bambino e santi (1521, Bergamo, chiesa di San Bernardino in Pignolo). Dato che sto scrivendo, vorrei concentrarmi brevemente, per finire, su quello che in quest’ultima pala sta ai piedi del trono della Vergine: il giustamente famosissimo angelo adolescente che isolato dalla scena sembra scrivere non sul piedistallo del trono della Madre, ma sul marmo del sepolcro del Figlio. Come a suggerire che ogni scrittura è funeraria. Un’ombra vela il suo viso che si volge indietro verso chi guarda, quasi attendesse da lui il dettato da trascrivere, ma indietro anche verso il passato, un passato che però deve ancora essere fissato pur essendo già definito e aspetta solo di essere scritto. L’ombra, la stessa in cui sono immersi la madre e il figlio sotto il baldacchino trascorre sul suo viso lasciando macchie luminose sulla punta del naso, all’angolo sinistro della bocca e un riflesso nell’occhio sinistro, vivacissimo. La postura è quella scomposta di uno scolaro che non starebbe fermo sulla sedia neanche a legarlo, come capitava a me a scuola, e come mi capita tuttora. Il piede destro sporge dall’ultimo gradino del piedistallo mostrando la pianta che riapparirà più sporca nella Madonna dei pellegrini del Caravaggio. La postura, rappresentata con quell’humor affettuoso che Lotto dissemina in tantissimi dettagli delle sue opere, è quella di chi fatica a contenersi e stare composto, ed è pronto, una volta terminato il suo dovere, a rizzarsi in piedi di scatto per schizzare via di corsa, più che in volo, per liberare la sua incontenibile energia, ma intanto si trattiene, bravo ragazzino, a scrivere ciò che gli viene suggerito, a scriverlo tutto, e bene, perché questo è ciò che gli è stato richiesto e che lui assolverà finché non gli sarà concesso di smettere. Mai, io sospetto, perché il compito è infinito. Il tempo passerà e qualcosa sembrerà compiuto, ma poi altro proseguirà verso un traguardo ignoto, e lui resterà sempre così, con questa vita addosso, a ristorare tutti quelli che avranno occasione di guardarlo, di rivolgergli le loro domande, dettargli le loro storie e le loro speranze, o solo di restare muti a guardare, pensando che un altro mondo è possibile.
Enrico Maria Dal Pozzolo, Lorenzo lotto. Catalogo generale dei dipinti, con la collaborazione di Raffaella Poltronieri, Valentina Castegnaro e Marta Paraventi, Skira, 624 pagine, 521 illustrazioni a colori e in b/n, E. 95,00.
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