06/05/24

Sull’invidia degli dei


Cosa avrò mai fatto per meritarmi tutto questo? Tutti ce lo siamo chiesto una volta o l’altra. Anche se sappiamo benissimo che per il dolore non c’è bisogno di nessuna colpa. Basta esistere.

A volte però, quando ci accade qualcosa di enorme e inspiegabile siamo noi a cercare un responsabile, accusando di preferenza qualche dio maligno, o anche benigno nel complesso ma non in quella occasione, che ci ha bersagliato per disegni suoi che ci sfuggono, o di cui vediamo solo il frammento limitato in cui si dibatte la nostra miserabile persona, la nostra povera anima.

O se non un essere divino, incolpiamo qualche stella o pianeta, di cui peraltro gli dei in origine erano stati incarnazioni secondo Giorgio de Santillana (Fato antico e Fato Moderno, Adelphi, 1985), credenza che condividiamo anche noi ogni volta che leggiamo un oroscopo, salvo poi dire che è solo superstizione. Ma la sequela di crudeltà che ci investe fa vacillare la fede nella nostra incredulità.

D’altra parte niente di minor levatura di un qualche abitante dei cieli può prendersi cura in modo così minuzioso, ferocemente mirato, di noi, del nostro corpo e delle nostre faccende sentimentali e finanziarie, che una certa importanza ce l’hanno, quanto meno ai nostri occhi. A volte è davvero troppo per andare a cercare altri responsabili più peregrini. Al massimo sono solo stupidissimi strumenti.

Tutte le civiltà concordano: se le cose vanno male, se ci sono la morte, il dolore, le ingiustizie, le guerre, è solo colpa di qualche dio. È così ovvio! Possono essere stati solo loro a mettere il mondo fuori sesto, a scombussolare l’armonia dei cieli, a portare il disordine sulla terra e tutte le magagne tra gli uomini. Prima non era così. Uomini e dei vivevano insieme, poi qualcosa si è guastato, e a guastarlo sono stati i più potenti, che ne avevano le forze, anche se a subirne i danni sono stati gli uomini, che quindi (l’equazione a posteriori è facile), qualche colpa l’avranno pure loro. Anzi ce l’hanno tutta loro, a sentire i piani alti. E quando, a dispetto di tutto, qualcuno vive felice, ha ricchezze, forza, salute, gloria e una grande discendenza, ai superni gli prende l’invidia, gli va di traverso l’ambrosia, e gliela fanno pagare.


 

È un sentimento che, se forse non risale fino alle origini, è certo molto antico, quantomeno da quando abbiamo cominciato a chiederci che cosa ci sta succedendo, cosa possiamo attenderci e perché. Le testimonianze millenarie in merito, scritte e orali, sono numerosissime. Non c’è verso di sfuggirgli. Il sospetto della malevolenza degli dei torna sempre. Dino Baldi nel suo notevole, filologicamente e filosoficamente sapiente, È pericoloso essere felici. L’invidia degli dei in Grecia (Quodlibet, 2023, p. 259), ne ha ricostruito la storia a partire dalla Grecia arcaica, incentrandola sull’espressione phthonos theòn, che si traduce di solito con “invidia degli dei” (ma ha altre sfumature) e illustrando in parallelo anche la storia della concezione della felicità e delle sue trasformazioni anche in relazione ai mutamenti della società e delle forme politiche e di potere. Perché anche la felicità non è sempre stata la stessa.

Baldi parte da Omero e Esiodo (nei quali peraltro lo phthonos theòn non è nominato), arrivando fino a Platone e alle filosofie ellenistiche e romane con uno sguardo che si estende fino al grande cambiamento apportato dal Cristianesimo, passando per Pindaro, Eschilo e soprattutto Erodoto, attraverso una messe molto cospicua (e bella) di storie, citazioni, analisi e raffronti. Alcune di queste storie sono note, tanto da essere diventate tradizionali e da aver dato luogo a numerose varianti, in tempi, luoghi e lingue molto differenti, come quelle di Gige e di Creso e di Policrate, tiranno di Samo, che per stornare la malevolenza degli dei sacrificò in mare il suo anello più prezioso, salvo poi ritrovarlo in un pesce portatogli in omaggio da un suddito, come a dire che uno può fare quel che gli pare, ma la parola decisiva non sarà mai la sua. Ma oltre a questo Baldi, filologo classico di formazione, va a rileggere nella prospettiva evidenziata già dal titolo anche miti, passaggi di autori sommi e minori e di poesie poco note, se non agli antichisti, facendone oggetto di analisi e riflessioni approfondite sempre esposte in una scrittura di grande chiarezza e spessore. E anche brillante in certi punti, come lo sono i suoi libri precedenti, Morti favolose degli antichi e Vite efferate di papi (Quodlibet compagnia extra, rispettivamente 2010 e 2015), molto diversi per impostazione ma con un analogo ricchissimo sostrato di erudizione.

 

Phthonos non significa solo invidia ma, “a partire da un senso generico di opposizione e negazione, arriva a coprire in Grecia più o meno tutto lo spazio delle emozioni competitive. In principio ha un’accezione neutra (…) ma col tempo (…) tende ad assumere un significato interamente negativo, simile alla nostra invidia o gelosia”. La competizione, l’agonismo esasperato, era talmente presente nella Grecia arcaica, e anche classica, che si infiltrava in ogni aspetto della vita tanto da dover cercare periodicamente sfogo in conflitti di varia portata conditi da tutto un campionario di lotte intestine, che trovarono una provvisoria regolamentazione solo nell’istituzione dei giochi olimpici, che non per nulla scandivano anche il calendario, e in numerose altre occasioni civili e religiose (ammesso che in questo caso una distinzione del genere sia possibile).

Non sono stati gli uomini però ad avere sfidato gli dei (almeno in Grecia: altrove qualcuno di loro li ha messi nella condizione di provarci per poi fargliela ferocemente pagare una volta che ci fossero cascati), ma le conseguenze, oltre agli sconfitti nelle loro titaniche controversie, si sono riversate sulla povera umanità, peraltro molto concupita in alcuni suoi esemplari.

A volte è la nostra stessa esistenza a sembrargli una sfida. C’è qualcosa che li infastidisce in noi, che pure siamo loro creature: senza contare che già noi non trascuriamo nessuna occasione per volerci e farci del male. Chissà se capita anche a loro. Schopenhauer ha scritto: “Visto che si sentono infelici, gli uomini non sopportano la vista di qualcuno che ritengono felice”; se applichiamo questa osservazione all’invidia degli dei per la felicità degli uomini, dobbiamo desumere che i poveretti sono o si sentono infelici, per l’eternità in sovrappiù, visto che tale è la loro sorte. Di conseguenza, poiché più di tanto non possono farsi del male a vicenda, nella loro infingardaggine scelgono un bersaglio più comodo. Ed eccoci qui.

Si potrebbe pensare che la felicità nel mondo ha una quota fissa, abbastanza contenuta peraltro: per cui se a qualcuno ne tocca molta, saranno in molti ad averne poca o nessuna: il che significa che la quota di infelicità è abbondante in misura proporzionalmente inversa. Se la felicità in circolazione, o possibile, fosse molto copiosa, tutti ne godrebbero almeno un po’. A patto che fosse distribuita con una certa equità, che è palesemente assente, invece. E se anche, almeno in partenza, fosse applicata in modo corretto, si può star certi che, essendo la misura contenuta e, rispetto alle aspettative, del tutto inadeguata, ci sarebbe sempre chi farebbe di tutto per vedere la propria quota crescere a discapito di qualcun altro, che non solo vedrebbe la propria diminuire, ma sarebbe afflitto anche dall’infelicità in misura non solo proporzionale alla sottrazione ma vieppiù crescente in quanto alla sottrazione si aggiungono la sua violenza e l’umiliazione per l’ingiustizia, senza dubbio immeritata. Se poi qualcuno dovesse indurlo a credere che se gli è stata rubata è perché l’ha meritato, a questo si aggiungerebbe anche il senso di colpa e il disprezzo per se stesso, in un crescendo inflazionistico senza fine. Ma i più, con tutta la buona volontà, in certe occasioni questa colpa non la trovano proprio. E allora patiscono della gratuità del male che gli è capitato tra capo e collo e ne accusano gli dei, che avranno pure le loro colpe, ma non sempre c’entrano.

E se non è dio, che non può essere così meschino man mano che la sua essenza, agli occhi degli uomini, diventa sempre più perfetta e spirituale, sarà qualche demone, come già nella Bibbia accade a Giobbe, con la connivenza di Jahvè, che poi lo ricompensa al quadrato (come se ricchezze, mogli e figli più numerosi potessero cancellare la somma dei dolori e lutti subiti: questa sì un’idea meschina).

Per questo, anche quando abbiamo un periodo di fortuna e la sorte ci arride, il pensiero di qualche futura disgrazia arriva a guastarne il godimento, e senza aspettare che la tavola venga rovesciata da qualcun altro, ci pensiamo noi a punirci, come Policrate, a far fallire un’iniziativa o a procurarci un danno o una ferita, meglio se piccola, ma significativa. Io lo faccio. A volte eccedo. Non aspetto nemmeno di essere fortunato: mi faccio del male prima. Una forma di riparazione preventiva. Ognuno ha la sua misura. Ognuno costruisce la propria miseria.

Nelle società del passato le grandi fortune si concentravano nelle mani di pochi e tutti gli altri dovevano arrangiarsi con quel che riuscivano a raccattare. Non come oggi. Per cui la brama di accaparrarsi quanto a disposizione fomentava rivalità e complotti e tradimenti: la felicità, spiega con dovizia di esempi Baldi, in epoca arcaica consisteva nel possesso: di potere, ricchezze e forza e doti fisiche e di bellezza, in ordine decrescente.

Il desiderio di accrescerla e il timore di vedersela sottrarre erano la causa di gran parte dei dolori. E dei conflitti. A volte bastava una donna a scatenare disastri, ma sotto c’era sempre e comunque lo zampino di qualche divinità. L’abbondanza di cibo e di ricchezze, il numero dei servi, la possibilità di imporre il proprio arbitrio e l’accesso ai piaceri fisici erano il contrassegno della felicità. Altre forme non erano contemplate. Semplicità dei costumi, serenità, assenza di bisogni non indispensabili, non significavano niente. Allora. Chi scrutava nell’animo? Chi mai entrava nelle catapecchie? Poi pian piano le cose sono cambiate e Baldi ci illustra come, fino al primo grande cambiamento, che possiamo riassumere nei nomi di Socrate e Platone. Perché l’ago della bilancia della felicità si spostasse da fuori a dentro, dalla quantità (materiale) alla qualità (sempre in qualche modo spirituale) ci sono voluti secoli e secoli.

Poi le filosofie ellenistiche e infine il cristianesimo portano questo processo di interiorizzazione a compimento e tutto cambia. Ma ora anche il cristianesimo si sta eclissando, si fa un altro giro e le cose, per molti, tornano come prima. C’è un complotto malvagio, una serie di complotti architettati da uomini malvagi, ma tutti riconducibili a uno, il capitalismo, un dio crudele, il demonio. L’uomo. (Il genere umano.) E si ricomincia.

Il successo planetario della bestemmia sta a testimoniare la florida sopravvivenza della credenza. Avere qualcuno a cui attribuire anche il più piccolo incidente è molto salutare. Non c’è bisogno di un intero consesso di divinità. Anzi, dal punto di vista della bestemmia il monoteismo è molto economico. Un solo colpevole, o al massimo la ristretta cerchia famigliare, è un bel vantaggio: il responsabile è subito scovato; l’accusa diretta e immediata. Noi siamo assolti.

 

 

 

 

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