Il mondo di Francesco Permunian è un mondo di mostri. I suoi libri sono ambientati tutti nella provincia in cui è sempre vissuto, prima nel Polesine dove è nato pochi mesi prima della grande alluvione del novembre del 1951 che ha spopolato quella regione lasciando segni indelebili nella vita e nell’immaginario del territorio e dei suoi abitanti, e poi, dai trent’anni, sul lago di Garda, con un impiego da bibliotecario ora in pensione, conducendo una vita comune tra gente comune. Niente di speciale, tutto normale: solo che per lui la normalità è popolata di mostri. È essa stessa mostruosa. E lo è tanto più quanto più normale appare e vuole mostrarsi, imponendo le proprie regole, che sono poi quelle di consuetudini e tradizioni secolari e, nel caso della religione, millenarie, ora tutte in sfacelo sebbene sempre incombenti, tiranniche, anche se ormai quasi nessuno vi aderisce più veramente, o solo in modi ridicoli o rivoltanti. Tanto più mostruose quanto più affondano nel passato e pretendono di dettare la normalità. Perché normalità non esiste. È un puro involucro. Puro packaging, che però stringe e soffoca come una camicia di forza, da cui si cerca di evadere in tutti i modi pur restando aderenti a questo o quel suo simulacro. Aberrazioni di nessuna norma. Perché non essendoci più norma, non resta che l’aberrazione. E allora tanto vale farne un elogio, come titola il suo ultimo romanzo (Elogio dell’aberrazione, Ponte alle Grazie, 2022). Paradossale, grottesco, blasfemo, collerico, insano, per usare i termini che ricorrono nelle sue opere e spesso anche nei loro titoli, che però non derivano tanto da una volontà di scandalizzare o dal desiderio moralistico o sociologico di scoperchiare sepolcri e denunciare di ipocrisie e malcostumi (c’è anche questo, certo), quanto da un vortice di ossessioni e disagi e convulsioni personali e di esistenze che ne sono tutte travolte e annientate, furiosamente ma anche pietosamente, vivi, morti, fantasmi e larve, quasi tutti “esattamente a metà strada tra la nostalgia e lo sfacelo” (Camminando nell’aria della sera, Rizzoli, 2001, p. 220).
Elogio dell’aberrazione porta tutto questo all’esasperazione grottesca sotto il segno della scatologia e della merda. Della merda vera e propria in cui si rivoltolano materialmente nei loro giochi erotici il narratore, vicecapo cronaca di un giornale locale, e la giovane moglie che condivide e esaspera le sue predilezioni, e che poi lo lascerà per un gigante del settore, un imprenditore di una ditta di spurghi, che a sua volta la lascerà sempre nella stessa sostanza; in quella morale e esistenziale in cui si dibattono quasi tutti i personaggi indifferentemente dall’età e dalla condizione; e in quella simbolica, ma realissima, del girone che le è dedicato nel pasoliniano Salò o le 120 giornate di Sodoma, di cui un velleitario regista aspira a girare un sequel con il sostegno del direttore del giornale che ne fa il suo amante.
Più che un mondo, quello di Permunian dovremmo dire allora che è un im-mondo, dove ogni cosa e persona e relazione è per almeno un aspetto sporca e rivoltante: e allo stesso modo lo sono anche l’immaginario, le visioni, gli incubi che perseguitano il narratore di questo libro, come quelli di tutti i libri dello scrittore, e quindi, dovremmo desumere, anche lui in persona, dal momento che essi ne condividono numerosi elementi biografici, anche se poi vanno tutti a confluire in caratteri e figure perfettamente compiute dal punto di vista narrativo, e quindi autonome e giudicabili solo in quanto creature di finzione. Infestanti come i ricordi (che sono sempre ricordi di morte: polvere, come La polvere dell’infanzia del titolo di uno dei suoi libri più belli, del 2015, edito da Nutrimenti) che scaturiscono come spettri dal mundus, la fossa al centro della città che i romani aprivano una volta all’anno per consentire la fuoriuscita dei morti e così esorcizzare la loro costante minaccia favorendone la momentanea circolazione, mentre per il nostro scrittore essa è sempre spalancata, tutto circola sempre, e tutto infesta, infanga e sommerge, anche la tenerezza e la nostalgia che sembra accompagnare le cose e le persone amate, anche i buoni propositi, i propositi di bontà a cui comunque non intende rinunciare anche quando lo vorrebbe, nemmeno quando l’immondo spinge a fare di ogni erba un fascio e che tutto e tutti sprofondino nella cloaca da cui provengono e a cui sono destinati.
I narratori e protagonisti di Permunian parlano in modo disincantato, cinico e feroce (i suoi numi tutelari sono, prevedibilmente, Céline, Bernhard, Cioran, ma anche Quinzio, Manganelli, Landolfi, la linea veneta da Piovene a Comisso, Parise e Zanzotto…), e si pregiano di chiamare ogni cosa con il suo nome, e di scegliere, quando i nomi sono numerosi, il più basso e scurrile, direttamente, senza tanti giri; e se qualche volta indulgono a metafore, sono perlopiù avvilenti, scatologiche e blasfeme. Quasi sempre segnati da qualche bella tara anche loro, o più d’una, nel corpo o nell’animo, sono parzialissimi, imperfetti, fegatosi: come credere alle loro pretese di oggettività, di spassionato resoconto libero dai vincoli di pregiudizi e convenzioni? Trasudano bile; il rancore è il loro ossigeno; la malignità pettegola il loro cibo. La distorsione quindi (cioè l’aberrazione) non può che essere la regola. Il tono ambisce al resoconto, alla verità, ma l’eccesso di umore rende tutto inattendibile, conduce altrove, fa errare.
Tarati, sono circondati da una corte dei miracoli di storpi, vecchie e giovani ninfomani, depravati di vario grado, velleitari e falliti, specie quelli con ambizioni artistiche, dalle infanzie infelici, dalle vite luttuose, violenti e oggetti di violenza, ripudiati quasi tutti, in primo luogo da se stessi. E se anche ogni tanto da qualche crepa o spiraglio soffia uno spiffero elegiaco, un accenno di nostalgia e di tenerezza, resta solo come traccia fuggevole e va a depositarsi chissà dove, come un fondo di umana dolcezza che non viene negata nemmeno ai narratori più crudeli e distaccati.
Come a quello di Elogio dell’aberrazione, che, al pari di quasi tutti quelli dei libri di Permunian, racconta a partire da un osservatorio privilegiato, da insider, addentro a ciò che narra o nella condizione umana e professionale di accedere a notizie e informazioni personali e persino segrete, ma conservando una posizione di distanza perché non aderisce al mondo che pure osserva dall’interno: come il servo felice rispetto alla sua padrona del primo giustamente celebrato romanzo, o come il dottore che sta alla finestra da cui può osservare la piazza ma che conosce anche vita morte miracoli deficienze e vizi dei suoi pazienti e dei loro famigliari, che gli spiattellano le loro confidenze più segrete in Camminando nell’aria della sera, (Rizzoli 2001 e ora in Costellazioni del crepuscolo, il Saggiatore, 2017, assieme a Cronaca di un servo felice), o lo pseudo Permunian che bazzica la stazione ferroviaria e conosce tutta la fauna che vi passa o vive in Il gabinetto del dottor Kafka (Nutrimenti 2013)… In questo Elogio dell’aberrazione, è l’“autorevole vicecapo” della cronaca locale (vero e proprio ossimoro ironico), che riceve lettere e confidenze dei lettori che narrano le proprie magagne e perversioni, insoddisfazioni e voglie di rivalsa di uomini e donne che si sentono “umiliati e offesi”, come lo sono i genitori del narratore e tanti personaggi maggiori e minori, che non trovano altro modo per vendicare (o alleviare) le proprie offese che riversandole su altri, di condizione inferiore a quella già bassa che è la loro, o come il prete pedofilo a sua volta vittima da bambino di un altro prete pedofilo in una catena che sembra il legante, con altri orrori, di quella chiesa cattolica che il protagonista, come altri protagonisti permunianiani, odia più di ogni altra cosa, anche dell’odiatissima ghenga di miserrimi tacchini ripieni di boria e ambizioni, e di vuoto e insulsaggine e servilismo, che costituiscono la società letteraria e il suo contorno culturale e mediatico, “piccolo clan intrinsecamente incestuoso e onanista” che nella sua rincorsa alla visibilità lascia ai margini derelitti che non sanno tenere il passo e finiscono a dormire in macchina e a fare discorsi alle cerimonie di consegna del “diploma di Benemerito della Rotaia” in qualche stazione grande o piccola.
La polemica contro il sottobosco (ma anche il bosco e i forestali) letterario e editoriale e intellettuale è un’altra delle costanti di Permunian. Non ce la fa a lasciarlo al suo liquame, a non farne oggetto del disprezzo più vario nei toni e nei modi, andando a scovarne le vergogne in ogni piega e sfumatura: è una ferita che non si rimargina, un rancore non tanto con le persone ma per ciò che diventa nelle loro mani la cosa che a lui preme di più, la letteratura, il segno dell’importanza decisiva che vi attribuisce e di una delusione che torna a tormentare ogni volta che si volge a guardare da quelle parti, dove non può evitare di volgersi perché lì è la sua vita, e che non vuole spegnersi e morire. Come un’offesa personale non lavabile, come una ferita che continua a suppurare, dolorosa e straziante: ed è per questo che a volte il discorso diventa anche sgradevole, perché di fronte a ciò che si ritiene vero, la vera gentilezza non sono il silenzio o l’eufemismo, ma dire senza reticenze come si pensa che le cose stanno.
Si discostano, tutti, da una norma che non c’è e vanno alla ricerca di qualcosa che ne faccia le veci, che la surroghi in quanto negata, magari da loro stessi nell’impossibilità di raggiungerla o perché gli è stata indicata nella sua idealità e poi sottratta, o perché hanno scoperto che è fasulla, malata, e cercano di adattarsi in questa erranza, di farla propria e, per quanto possibile, di goderne, sfoggiandola anche come un vanto o addirittura come lo stigma della propria identità, in assenza d’altro. Poi si accorgono che tutti sono “via”, tutti espulsi, tutti lontani, tutti mostri.
Allora diventano spietati, cioè troppo immersi nel loro errore, nel loro dolore, per avere pietà gli uni degli altri, che diventano solo occasioni e strumenti del loro bisogno di sollievo, fisico oltre che mentale (non a caso Permunian ha intitolato La casa del sollievo mentale, Nutrimenti, 2011, uno dei miei libri preferiti) e il narratore spesso non fa eccezione. È solo quando il dolore lo raggiunge e, anche se non concede tregua, viene accettato come memoria, come nostalgia che arriva a ondate lancinanti, che anche gli altri, e il mondo, diventano sostenibili, e persino apprezzabili. È il fondo di lirismo di Permunian, sempre pronto a spuntare e a diffondere il suo profumo nei momenti più inattesi. È il senso della perdita originaria, dell’abbandono delle origini a cui periodicamente narratore e personaggi, come memoria compulsiva o realmente, si trovano costretti a ritornare, a cercare di riattingerle, riuscendoci solo in parte, in modo magari profondo ma effimero. La terra natale sconvolta dall’alluvione; i compagni dell’infanzia, i difetti di costituzione per il piccolo e brutto narratore di Elogio, il manicomio, i resti nauseabondi e incancellabili della repubblica di Salò sulle sponde gardesane, le doti senza sbocco (il professore che lo vede come un futuro Calvino) o con fioriture momentanee che sono sempre foriere del peggio… L’ironia, la perfidia, la ferocia, il grottesco, ne sono la naturale conseguenza: non una scelta di maniera o l’effetto di una volontà provocatoria, ma la loro forma espressiva momentanea e insieme necessaria, l’emanazione (la suppurazione) spontanea; e con essi la loro compagna inseparabile, la malinconia, la tristezza che affiora invincibile, la sua eterna palude.
Appunti sparsi
Come il protagonista-narratore del suo romanzo d’esordio, che non dico essere il suo capolavoro per evitare il tic di una certa critica che in tal modo implicitamente riduce il valore della produzione successiva di tutti gli esordienti che hanno avuto il torto di partire con un libro perfetto o quasi, anche Permunian è un servo felice, ma della scrittura, per quando ossessiva, angosciosa e torturante possa essere: perché è solo per raggiungere la felicità, o quella specifica, inarrivabile felicità che si può trovare o perlomeno intravedere nell’opera, che si scrive, andando incontro, e anzi chiamando a sé demoni e ossessioni e rabbie e infelicità e delusioni e memorie nere e gli anni andati, e tutti i cari con loro, nella solitudine assoluta che il loro assembramento assicura, e protegge, e insieme nella sola consolante compagnia che essi, lacerando, garantiscono. Nessuno entrerebbe in questa foresta, se in mezzo non ci fosse l’albero da abbattere che promette di dissolvere i demoni, come Rinaldo il noce nella selva di Saron (Gerusalemme liberata, canto XVIII).
Non per sfuggire o esorcizzare, ma per corteggiare e sedurre i fantasmi nelle forme di corteggiamento che essi agognano, per convocarli, perché la loro presenza perseguita, avvelena e insieme esalta la vita e la addolcisce.
Ossessionati dal chiacchiericcio intellettuale e letterario, dai riti e dai maneggi e dalle miserie dell’industria culturale, dalla pochezza artistica della letteratura e umana dei letterati, ecc., ma perché se ne interessano, perché le seguono? Appurato che è come l’industria degli elettrodomestici o del turismo o degli insaccati, perché non riservargli la stessa indifferenza e occuparsi solo di ciò che vale? Solo che, nel maremagnum come fare a distinguere senza provare a informarsi? Ma se l’informazione è bacata e parte dello stesso meccanismo ecc. ci si ritrova nel circolo vizioso.
E comunque tutto schifo non fa, pare, se i nomi che vengono citati con amore o con onore sono poi così numerosi in tutti i libri, di ogni tipo (narratori, poeti, giornalisti, fotografi): ci sono abbastanza isole, nella merda, per abitarle ignorandola.
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