23/02/25

Abbandonarsi (abbozzo 11-6-24)



(Premessa: era stanco e teso ecc., lo è sempre più spesso, e allora gli è presa una voglia irresistibile di lasciar perdere, di rinunciare – a cosa poi? – e lasciarsi andare, abbandonarsi. Poi ha pensato:  )

 

Abbandonarsi non è poi così difficile. È come arrendersi: una tentazione sempre a portata di mano. Anche solo pensarci, a volte. È un piccolo sollievo. Una soddisfazione. Placida, molle, in genere, solo a volte drammatica, quasi mai davvero disperata. Sentirsi sicuro, compreso a priori, non giudicato, accolto senza dover fare niente per meritarlo. Poggiare la testa su una spalla, nel grembo materno. In un grembo qualunque. E stare lì per tutto il tempo che si vuole, senza dover chiedere né ringraziare. Senza pretendere, conquistare, combattere. Solo perché così è naturale, spontaneo, e cioè, almeno in questo caso, buono e giusto.
Lo chiamano così, ma, per quando gradevole, necessario a volte, non è un vero abbandono. Il vero abbandono è invece quello che sopraggiunge dopo avere opposto ogni possibile resistenza, come se ad attenderci, raggiunto, ci fosse una tortura. È quando si capiscono tutta la falsità (e la facilità: è lo stesso) che si incarna in ogni cosa o atto a cui si decide di resistere, e che la resistenza stessa rivela e denuncia come inammissibile. Quando finalmente si rinuncia a se stessi, e quindi a ogni compiaciuta, in fondo miserabile, soddisfazione. (Non fossimo uomini.  Miserabili, appunto).
È quello che capiscono i condannati e da ultimo lo stesso ufficiale addetto alla macchina in “Nella colonia penale”, man mano che l’esecuzione procede, che non a caso consiste nella scrittura. Sul suo processo. Che rivela mentre uccide. Che sevizia, dilania e dà pace. Che fa affiorare il ricordo anche di qualcosa che nemmeno si sa di aver commesso, o solo fatto (è lo stesso), e dimenticato, e dona la sua cancellazione, l’oblio.

Quando non è più espressione, volontà di dire e fare qualcosa. Quando non sei tu a volere, ma ti annulli, scompari, in ciò che è detto e fatto.

 

Sembra qualcosa di eroico: una lotta, una serie di dolorose vittorie verso la pace finale, l’apoteosi. Un risultato che probabilmente nemmeno si saprà di aver raggiunto. Una coppa da cui si berrà.
Ma che senso ha questa negazione? Questo oltrepassamento forse senza fine? Perché ricercarlo, quando tutto congiura, e alletta, affinché ce ne si distolga (lo si abbandoni)? Cosa si cerca? Cosa si spera di ottenere? Ma ricercare, e cercare di ottenere, non è già precludersi di raggiungere? Non è già interrompere il processo, affannarsi per vincerlo e di fatto soccombervi? Negarlo e abbandonarlo senza abbandono?
Se poi uno non ha nessuna fede in qualcosa di superiore, fosse solo (solo!) la verità, che senso ha? È forse l’ultima possibilità per chi non ha appunto nessuna fede? Per chi sa che c’è “infinita speranza, solo non per noi”?
È una forma di suicidio in vita? Un’esperienza della morte per chi non solo non rinuncia a vivere ma pensa (finge di credere) che essa in questo modo raggiunga il colmo? Che solo attraverso la sua negazione trovi la propria completezza (il proprio compimento)? Che solo lasciandosi alle spalle (e con quanta fatica!) ogni volontà e ricerca di senso, che è sempre e comunque parziale perché è nella parzialità e differenza che il senso si dà, si possa attingere un qualsiasi senso totale e definitivo?
Una specie di trascendenza immanente? Di immortalità al centro, al colmo, della mortalità?
Tutte cose che fanno paura. Tanto più che si sospetta sempre (si sa), che sono solo parole, pie illusioni. E quindi un’altra resistenza da opporre, un altro abbandono a cui non inchinarsi, un’altra scusa per distogliersi, per rinunciare e accontentarsi dei piccoli piaceri, e anche dei mediocri godimenti, della soddisfazione del dolce abbandono.
Ma non è cercare la grande soddisfazione, il grande abbandono, il miraggio del grande senso a muoverci, a indurre a non cedere, a far sentire ogni rallentamento e deviazione come la massima debolezza, una colpa, il peggior tradimento (verso chi?): è che non se ne può fare a meno. Che c’è una specie di dovere, di obbligo (verso chi? verso se stessi? il vero sé?, ma per favore!), una forza irresistibile che non sopraggiunge su (in) chi la prova, non lo investe da sopra, e nemmeno da dentro, ma è chi la prova; che ad essa, allora, non può sottrarsi, a meno di morire. Di essere davvero morto.

[…]


Sei bellissimo



Sono uscito dalla scuola per fumare. Seduto sulla panchina di fronte all’ingresso, al fresco sotto il vecchio ippocastano, mi metto a leggere. Dalla porta esce, senza che io me ne accorga, una (anziana) collega che, quando è ormai quasi fuori dal mio campo visivo, vicino al cancello, si ferma e mi dice: “Vorrei farti una foto”.

“Perché?”, chiedo.

“Sei bellissimo”, mi risponde.

“Capita, quando non si fa niente per esserlo”, replico, una volta tanto non per fare una battuta, ma come forma di pudore.

“Quando uno lo è dentro, o è felice di ciò che sta facendo, non si può fare a meno di notarlo. Sei proprio bellissimo”, conclude lei. E se ne va, con la sua faccia scavata, tutta tirata, ma buona.

Spengo la sigaretta, alzo gli occhi verso la chioma dell’ippocastano, che l’anno scorso a giugno era già tutta leopardata, bruciata da una malattia che ora sembra superata, tiro un lungo respiro e prendo la biro dal taschino. Mentre scrivo mi viene in mente che suo marito sta lottando da mesi contro un tumore e che mio suocero, a cui voglio bene, ne è stato colpito un mese fa, o poco più, e un altro mese gli resta, o anche meno. Il tenue compiacimento di cui avevo beneficiato, innocente perché non richiesto, bello perché gratuito, se ne è così andato. Resta un’altrettanto tenue tristezza, che, invece di trasformarsi in angoscia, si scioglie pian piano, restando come un retrogusto in ciò che riprendo a fare. Così sia.

 


17/02/25

Fuori tempo massimo


E’ fatto male e non gli sta bene, dice.
Forse non è colpa sua, ma certo non lo è nemmeno degli altri. E infatti lui non li incolpa. Non si accetta, tutto qui.
E perché mai dovrebbe farlo? Forse che accettandosi sarebbe fatto meglio? No, darebbe solo il suo assenso a qualcosa che è fatto male, e questo sarebbe un male ulteriore.
Forse che gli altri sono fatti meglio, gli chiedo?
E’ poco probabile, risponde, e comunque non sono fatti suoi e non cambia la sua situazione.
Solo gli stupidi se la prendono con gli altri, e lui non lo è fino a questo punto. Se lo fosse, forse le cose non si dice che andrebbero meglio, ma certo lui si accorgerebbe di meno che vanno male. E invece no, non ha nemmeno questa magra consolazione. Un vero peccato.
Ragion per cui non gli resta che prendersela solo con se stesso. Cosa che però contribuisce a renderlo ancora peggiore di quanto già non sia.
Che fare dunque? In apparenza ha due possibilità: o negare del tutto se stesso, decisione di cui è incapace per una debolezza che è parte del suo essere fatto male; o negare gli altri, azione ben più fattibile, la cui stessa facilità non è però che l’altra faccia dell’incapacità precedente, quindi l’ennesima conferma del suo essere fatto male.
Per negare gli altri basta poco: sapere che sono fatti male anche loro è più che sufficiente. Verificare che lo sono è ancora più facile: nessuna evidenza supera quella della loro imbecillità. Anche senza scomodare le loro presunte idee o il complesso delle loro azioni, una parola orecchiata, un semplice gesto, l’espressione che assumono quando credono che nessuno li noti, il poco che vogliono e il meno che li colma bastano e avanzano. L’idiozia ingravida l’aria più di qualsiasi batterio; non appena una bocca si socchiude, a cavallo del più flebile respiro ne fuoriesce una ventata capace di saturare gli spazi interstellari. Ammesso che già non lo siano.
Se fosse fatto meglio, questo dovrebbe indurlo al sorriso, come sto facendo io, dice fissandomi negli occhi, o lasciarlo indifferente (meglio): invece è fatto talmente male che prova insieme pena e insofferenza, entrambe in misura limitata però.
Non è possibile, si dice allora: alla lunga anche il troppo poco finisce per diventare troppo, e quando è troppo è troppo. Finalmente si incazza. (Passa subito, comunque.)
Davanti a me c’è solo la merdosa morte, conclude fuori tempo massimo.


12/02/25

E io, quando mi assolvo?


Quando riconsidero il mio comportamento in pubblico, spesso basta un dettaglio: un gesto, un’omissione, o più spesso una parola, una frase, una battuta (e magari proprio quelle che hanno riscosso successo, o sono sembrate particolarmente intelligenti, a chi non mi prestava, come di solito accade, che un’attenzione superficiale; mentre io che mi osservo meglio vi trovo mille lacune, o possibili contraddizioni e quindi ne vedo la fatale approssimazione), per farmi sprofondare nella vergogna, per emettere su me stesso un giudizio negativo inappellabile, una condanna che ribadisce e rafforza le miriadi che l’hanno preceduta. E’ una vergogna con cui ho dovuto imparare a convivere, per quanto ciò non la attutisca.

Invece quando vedo e sento la gente discutere, se così si può dire, in televisione (o anche in situazioni “reali”), o esibire una naturalezza che finge di ignorare gli altri e di fatto è tutta per loro, alla vergogna non resisto e cambio canale, o, se chi è con me insiste a guardare, mi alzo e me ne vado, vergognandomi anche per lui o lei o loro o tutti i presenti e assenti che di queste trasmissioni si interessano o sono appassionati.

Mi vergogno della loro stupidità e meschinità, che però è anche, in loro, la forma che prende quella fragilità e debolezza che non so accettare in me. Allora la pena che provavo lascia il posto alla compassione. E così li perdono nello stesso tempo in cui li giudico, mentre, di nuovo, non so perdonare me per il fatto di giudicarli, per quanto a volte sia opportuno farlo.

Opportuno, forse necessario, ma non per questo necessariamente giusto. E se non è necessariamente giusto, è giusto il giudizio su di me, la condanna.

Amen.

 

(primi anni 2000)

04/02/25

Tappeti, artisti e dei non sempre benevoli


                                                Rubens, Pallade e Aracne

 

È abbastanza nota la storia, o leggenda, che i più abili tessitori persiani lasciavano apposta un’imperfezione nei loro tappeti perché la perfezione è solo di Dio.
La storia viene tramandata come esempio di umiltà e di fede dei pii artigiani, o artisti se si preferisce. A me sembra un esempio lampante, invece, di superbia e di tracotanza: come se, senza quell’imperfezione volontariamente lasciata, o meglio: creata a bella posta, il resto dell’opera sarebbe stato esente da difetti, cioè perfetto. E anzi l’opera intera lo sarebbe al quadrato, perché anche l’imperfezione sarebbe un gesto creativo (dove e come lasciarla, infatti? in quale forma e sotto che mentite spoglie celata o mimetizzata?), e segnalerebbe implicitamente la perfezione dell’autore, oltre a quella dell’opera. Se non addirittura al cubo, se si include l’acume formale e percettivo e di gusto dello spettatore o acquirente, che saprebbe infine riconoscerla e apprezzarla, sentendosi a sua volta intelligente, oltre che pio.
L’unico a essere ingannato da questo maneggio sarebbe allora Dio, accecato dalla lusinga nel proprio narcisismo. Ma non credo che ci sia mai cascato. Essendo compassionevole, però, ha di sicuro perdonato questa maldestra mistificazione, sorridendone in cuor suo.

 

Che il narcisismo accechi gli esseri umani, invece, è un dato di fatto.
Perché altrimenti alcuni di loro si piccano di sfidare gli dei sul loro stesso campo (Aracne Pallade nella tessitura; Marsia, che però era un satiro, un essere ibrido, molto più vicino alla natura dell’uomo, Apollo nella musica ecc.)? Gli dei sono dei, superiori per definizione. Le arti e tecniche in cui sono sfidati le hanno inventate loro. Possibile che a un certo punto gli uomini abbiano pensato di averle portate oltre il limite che era dettato dalla loro origine divina, di averle superate e migliorate? È l’hybris, certo, la tracotanza che a un certo punto prende gli esseri umani, e mai gli animali: è un derivato della coscienza, della consapevolezza del proprio fare e agire, la stupidità insita nella loro intelligenza, nel suo stesso principio. Per questo i mistici, e in genere gli uomini di fede, dubitano dell’intelligenza, la mela avvelenata che Dio ha rifilato agli uomini, la somma tentazione, come se li avesse creati e gli avesse concesso tante doti solo per umiliarli, per poterli punire. Oppure, dicono loro, per mostrargli la strada per trascendere se stessi, perché solo avendo l’intelligenza si può, mediante essa, capire che bisogna andare oltre, e abbandonarla, alla fine, come uno strumento che ha fatto il suo lavoro; come un ferro vecchio.
(Altri pensano che non è così. Che solo con l’intelligenza si può andare oltre, spingendo i suoi limiti sempre più in là, magari con l’aiuto degli strumenti da essa stessa creati per potenziarsi, che hanno sempre dato prova della loro bontà. Con qualche piccolo inconveniente, si sa. Ma anche quelli, sempre con l’intelligenza, prima o poi si riuscirà a superarli, sostengono. Altrimenti pazienza.)

 



18/01/25

Divorare

Essendo convinto animalista, ma non riuscendo a fare a meno della carne, per la quale nutro una vera passione, non mi è rimasta alternativa che mangiare quella degli antianimalisti, anche se poi non sono andato troppo per il sottile quando si è trattato di procurarmela. Mica potevo somministrare un questionario a tutti i papabili.

La passione per la carne me l’hanno inculcata da bambino, con mio sommo piacere, e questo ha creato una dipendenza che non sono mai stato in grado di sradicare; l’animalismo invece lo devo a una ragazza che frequentavo ogni tanto, in gran segreto perché era fidanzata con il rampollo di una famiglia molto in vista, poco dopo la laurea da spensierato fuoricorso. Mi piaceva tantissimo, fisicamente (l’amore è un’altra cosa, che però non conosco: mi fido di quanto riportano le cronache). Come si suol dire mi piaceva tanto che l’avrei sbranata. Lei non perdeva occasione per farmi la morale sulle mie abitudini alimentari, ogni volta che si mangiava qualcosa insieme o che si presentava la necessità di fare uno spuntino dopo aver consumato molte energie in attività gradevoli quanto dispendiose. Io ero renitente, ma lei sapeva usare tutte le astuzie femminili, acuite dalla sua propensione al proselitismo. Finché un giorno ho ceduto e mi sono deciso ad astenermi dal mangiare animali. Lei era così felice che si prodigava in forme sempre rinnovate di gratificazione, come insegnano gli etologi, per rafforzare le consuetudini comportamentali. Questo non ha fatto che accrescere la mia dipendenza da lei, la mia ossessione: avrei voluto averla sempre con me, dentro di me, e viceversa, avevo davvero voglia di sbranarla e un giorno, nella vecchia grande casa isolata che ho in campagna, al colmo dei nostri giochi, ho affondato i denti nella sua morbida carne (l’interno della coscia sinistra per la precisione, dato che mi trovavo da quelle parti), e ne ho staccato un pezzo che mi sono messo subito a masticare, sorpreso dal gusto strano, al limite del nauseabondo in principio, ma intensissimo, che me ne veniva. Lei si è messa a lanciare urla altissime, che in un primo momento ho scambiato per quelle, alquanto teatrali, che ogni tanto mi prodigava in situazioni analoghe. Allora io per farla tacere le ho messo una mano sulla bocca e quindi entrambe al collo, dato che si agitava come un’ossessa, finché non ho sentito più niente. Quando mi sono reso conto di quanto era successo, per un momento sono rimasto inebetito, poi, già che c’ero, ne ho approfittato per completare il soddisfacimento della mia fame. Tutto è cominciato così. In modo non premeditato. Direi quasi spontaneo. Naturale. Tanto che sono rimasto, alla fine, quasi stordito dalla sua facilità.
Poi, sazio, ho potuto riflettere con calma sulla situazione e prendere le decisioni più opportune onde evitare sgradevoli conseguenze per me e gestire tutto quel ben di Dio che senza volerlo mi ero trovato a disposizione.

La sparizione della ragazza è stata avvertita solo qualche settimana dopo; lo faceva spesso di viaggiare per conto suo senza preavviso, e c’era chi mormorava che avesse qualche amante, e naturalmente hanno pensato subito al fidanzato, di solito sono sempre loro, ma nessuno era mai andato più a fondo. La sua famiglia, molto abbiente, e quella del fidanzato, ancora di più, riservatissime entrambe, scoraggiavano pettegolezzi e indagini. Come gestivano la propria vita erano solo affari loro.

All’epoca non si erano ancora diffusi gli smartphone, e anche i semplici cellulari erano rari. I sistemi di videosorveglianza erano poco diffusi e la geolocalizzazione inesistente. Io il cellulare me lo sono acquistato, e solo per affari, non prima del nuovo secolo. Sono state fatte delle indagini, ma senza venire a capo di nulla. L’ipotesi più accreditata è stata che fosse andata in qualche setta, di quelle a metà tra il mistico e il gaudente che cominciavano a proliferare allora. Poi non so, me ne sono disinteressato.

Questo però mi è servito da lezione quando si è trattato poi di procurarmi altra carne con maggior ponderazione. Ho dovuto curare modi, tempi e scelta dei soggetti e dei luoghi di operazione. Diventare accorto, da spregiudicato e disinvolto che sono sempre stato. Trasformazione che giovato anche alla mia attività. Basta deleghe: ho licenziato direttore e amministratore delegato della ditta di famiglia di cui ero rimasto l’unico erede e ho preso in mano la situazione in prima persona. Con crescita significativa dei profitti, dirò senza troppo vantarmi. Ma questo non c’entra.

Torniamo al cibo. In quella prima circostanza mi sono arrangiato alla benemeglio. Ho dissezionato il corpo con deplorevole approssimazione, ho distribuito in contenitori e sacchetti di plastica i vari tagli dopo averli lasciati qualche tempo nel fresco della cantina a frollare, e poi ho messo tutto nel freezer che avevo in dispensa, servendomi all’occorrenza di piccole o grandi porzioni che provavo a cucinare sperimentando varie cotture, ma senza disdegnare spuntini di carne cruda. Con grandissima soddisfazione, sia pure con qualche effetto sulla digestione e l’evacuazione nei primi tempi. Ma passiamo. Ci si abitua a tutto, le difficoltà si superano, i piaceri aumentano.

 

Quando le scorte hanno cominciato a esaurirsi, dopo aver pensato di non dare seguito all’esperienza, come periodicamente ho provato a fare nel corso degli anni, con pause anche lunghe, ho dovuto pensare a come rimpinguarle, questa volta senza lasciare nulla al caso. Così ho imbastito un metodo che ho poi perfezionato con la pratica. In primo luogo si tratta di individuare i soggetti più idonei, cercando di variare la provenienza geografica e culturale e le diverse età e conformazioni fisiche: non sono differenze sostanziali, un corpo è un corpo, ma come sanno tutti i sommelier, il terreno, il clima, il soleggiamento ecc. determinano profumi, sapori, gusti diversi per ogni zona e annata, a parte l’arte della vinificazione: ogni bottiglia è un mondo a sé… e così è anche per la carne: un criterio decisivo per la scelta, almeno dal punto di vista teorico. Poi però mi arrangio come posso, senza fare il sofistico. Sono democratico. Vanno bene tutti. Infine si tratta di decidere quali sono le parti migliori per determinati trattamenti e modi di cucinare (cottura, bollito, frittura ecc.) e di sperimentare anche i metodi di conservazione, con i quali ho incontrato qualche difficoltà, risolta con grandi scorpacciate non appena mi accorgevo che il materiale rischiava di andare a male. Meglio qualche indigestione che sprechi antieconomici, anche in considerazione delle difficoltà di approvvigionamento. Quanto allo stoccaggio, dei grandi freezer sono certamente indicati per il lungo termine, ma se si decide per consumi differenziati nel tempo e nei modi bisogna studiare le temperature e gli ambienti più idonei al trattamento e all’invecchiamento delle carni, sotto sale, marinate, fresche o stagionate secondi vari metodi tradizionali e etnici, che tuttavia comportano dei problemi nel trasporto, e aumento dei rischi, oltre che dei costi nell’acquisto e nell’approntamento dei locali. Per cui sarebbe opportuna una diversificazione dei produttori con relativi scambi dei prodotti semilavorati o finiti. Di fatto è consigliabile che ognuno provi a cavarsela per conto proprio, specializzandosi in poche tipologie relativamente all’autoconsumo e alle possibilità di scambio o commercio, che per discutibili ragioni non può avvenire alla luce del giorno, nelle macellerie cittadine o nei mercati specializzati (ma lì qualche nicchia si riesce a crearla, purché i prodotti non finiscano sul banco).

Poi, naturalmente, siccome non basta aver studiato bene tipologie o candidati, una volta procurata la materia prima è necessario lavorarla secondo i tagli canonici dell’arte della macelleria, destinare le singole parti e organi alla preparazione più adeguata e saporita, fare le porzioni e predisporre quanto serve a cucinare le diverse pietanze, anche a seconda della destinazione concreta: colazione, stuzzichino, pranzo spartano, grande bouffe, in solitudine, o nei rari casi di riunioni conviviali e festini tra gourmet, che, come ho scoperto nel tempo, è possibile organizzare in canali segreti e ultraprotetti, in cerchie ristrette ma più numerose di quanto si sospetti. L’attività individuale è sempre altamente preferibile e io personalmente mi sono concesso solo rare deroghe con tutte le garanzie del caso. La convivialità è importante.

L’acquisizione dei soggetti avviene essenzialmente in due modi: o ciascuno se li procaccia di persona o ricorre a quanto offerto dal mercato, assoldando qualcuno che li procuri per lui, o acquistando negli empori segreti: cose entrambe complicate, specie negli ultimi anni che la privacy tanto conclamata viene violata sistematicamente e la sorveglianza di tutti e di tutto sembra continua e capillare. Sembra: perché il modo di aggirarla si trova sempre, con un po’ di intelligenza e un generoso esborso di danaro. Poi va be’, una volta entrati in possesso dei corpi, se si intende fare bene le cose, è opportuno dotarsi della strumentazione di prammatica, e magari informarsi sulle tradizioni della macelleria sacra e profana, sui rituali e le procedure di taglio e preparazione delle carni, che in genere hanno un loro senso anche a prescindere dalle credenze che le accompagnano, e che a volte mi diverto a seguire, recitando le formule appropriate o canticchiando qualche nenia, perché un loro arcaico fascino evocativo è indubbio che lo conservano. Ti senti più elevato, spirituale, almeno per un po’. Non è male. Aiuta.

 

Nella scelta e nell’approccio ai soggetti, mi aiuta il fatto di essere una persona piuttosto gradevole, affascinante e rassicurante, in modo spontaneo e per nulla mellifluo, e devo dire per entrambi i sessi e per tutte le età, anche se questo non deve indurmi a comportamenti azzardati. Meglio eccedere in prudenza che correre rischi superflui e in linea di massima rifornirsi su territori molto ampi e usando auto diverse e anonime, con piccoli camuffamenti in certi casi, scegliendo tra le categorie più facilmente abbordabili in luoghi isolati: prostitut* di entrambi i sessi, bambini, vecchi, per chi ama la carne stagionata e vuole misurarsi in prove che richiedono particolari abilità culinarie; insomma tutte le persone delle cui debolezze è facile approfittare o che comunque è agevole reperire senza eccessivi strascichi dovuti alla loro sparizione. Gente debole, solitaria, senza affetti né forze, di cui nessuno sente la mancanza già in vita.

Il problema è che questo mi costringe a muovermi in un’area territoriale molto estesa, contrariamente alle mie propensioni localistiche, con conseguenti difficoltà di trasporto e di logistica… tutte cose superabili con una certa attenzione e soprattutto con un po’ di mezzi, di cui fortunatamente sono ben fornito. Il capitale è sempre una buona base per tutto. La creazione di una rete di interessi reciproci facilita lo scambio dei beni e dei servizi: container via mare o su rotaie, camion con celle frigorifere, finte società, gente specializzata in trasporti delicati… basta non approfittarsene e non abbassare mai gli standard di prudenza e adottare per comunicare crittazioni sofisticate. Cose noiose per il grande pubblico, ma eccitanti, a modo loro, per chi vi si applica con lucida determinazione per il proprio piacere e tornaconto, in modo rigoroso ma anche flessibile a seconda delle circostanze e dei momenti. Un pizzico di avventura non guasta. C’è da dire che non è necessario infittire le operazioni, perché una volta che ci si è assicurati due o tre soggetti, la materia prima è sufficiente per vari mesi, a meno di non lanciarsi in periodiche abbuffate individuali o con i già citati banchetti riservati a cui ho sempre cercato di partecipare da invitato, ma non sempre ho potuto evitare di ricambiare. A volte infatti mi capita di fare banchetti solitari pantagruelici, preso dalla frenesia, dalla droga di questo cibo così inebriante che può certamente creare una dipendenza, da cui cerco però di difendermi con fermezza, pur concedendomi periodici sconfinamenti, come i morfinomani del weekend di fine ottocento. Ne viene un sentimento di forza, di onnipotenza da cui è arduo divincolarsi, ma che appunto per questo deve essere dosato con parsimonia quando vi si acconsente e per il resto frenato in modo risoluto. Se no uno non smetterebbe mai, fino a diventare una palla di grasso amorfa con il naso gocciolante e la bava perenne agli angoli della bocca. Mi piace tutto: muscolo, interiora, cervello, il cuore, i reni, spalla e coscia per i bolliti o brasati, le carni morbide di bambini non ancora svezzati o svezzati da pochissimo facilmente reperibili nei paesi molto poveri o scarsamente morali… oppure dure, fibrose, che necessitano di lunghe frollature e cotture, o di complicate operazioni di salatura o di essicazione o marinatura…. I metodi di dissanguamento, di dissezione e conservazione e gli usi dei vari popoli sono stati una scoperta che ha ampliato di molto il mio bagaglio culturale e i miei confini mentali, che, a dispetto delle mie convinzioni, si sono rivelati di sconfortante ristrettezza e provincialismo. Anche la preparazione dei manicaretti deve essere quella più adatta ai tagli e alla provenienza: una certa liturgia a volte porta a grandi soddisfazioni, per quanto lo sbranamento feroce diretto possa risultare estasiante ai limiti della follia. Niente a che fare con trasporti religiosi però. Solo chimica, ma potentissima, per me. Che altro c’è?

 

I momenti più belli sono quando, una volta acquisito il corpo (sui cui metodi in questa occasione non intendo entrare nei dettagli, non è difficile immaginarli; dirò solo che il soffocamento resta il mio preferito: è il più igienico; così come non mi dilungherò sul noioso ma fondamentale corollario dello smaltimento di carcasse e organi e parti non edibili, abiti e documenti e cellulari… per cui ho elaborato tutta una serie di ingegnose quanto faticose procedure che tuttavia, lo confesso, sono state anche fonti di soddisfazioni professionali) e ripulito e disinfettato accuratamente ogni cosa e locale, indosso il camice o il grembiule e mi appresto a cucinare. Disposte attorno alle pentole come tanti chierichetti tutte le sostanze sul piano di lavoro, le verdure che sono andato ad acquistare al mercato il mattino o nei negozi dove posso trovare i prodotti migliori, i vini, l’olio, le spezie, ciascuna nella sua ciotolina, finalmente posso dedicarmi al cerimoniale della cottura, curando minuziosamente ogni passaggio, dalla regolazione dei fuochi al dosaggio dei liquidi e degli ingredienti, agli assaggi, e a tutti gli aggiustamenti che conducano al confezionamento di piatti perfetti. Sarò un sognatore, ma sono momenti in cui mi sento, in tutto e per tutto, un artista. Come se solo allora portassi a compimento il mio essere profondo.

Sono ore di grande gioia in sé e per sé, a cui si aggiunge la prefigurazione dei momenti futuri in cui, senza altri sforzi, potrò dilettarmi di tutte quelle leccornie che mi portano così spesso alle soglie dell’estasi, se non oltre, fuori da me stesso pur essendo in quei momenti più me stesso che mai, attraverso il processo di introiezione e assimilazione di qualcosa che pur essendo solo fisico, diventa anche spirito … perché di fronte a ciò che venuto da fuori si rielabora e trasmuta nel lavoro e nel consumo, si instaura una certa forma di sacralità, un rispetto… per cui a volte gli stessi preparativi diventano una forma di preghiera: quel ronron di invocazione, e di offerta, di invocazione di perdono e insieme di ringraziamento che riassume il termine preghiera, quell’intimità a se stessi che è intimità a ciò che si sta incorporando… soprattutto quando si è soli, mentre quando si è in gruppo è facile che l’entusiasmo si trasformi di orgia, uno spossessamento tutto e solo terreno, una celebrazione della materia al suo massimo grado, che è stata vivente e torna a essere viva nel momento viene a vivificare i nostri corpi.

Alcuni condiscono questa pratica con una serie di implicazioni, simboli e frenesie fisiche e mentali derivate da convinzioni e superstizioni religiose, misticismi e patologie psichiche, o procurati da sostanze varie e da autosuggestione. Tutte cose che non mi fanno caldo né freddo, esclusi rari casi in cui mi lascio contaminare da questo disordine e mi scateno anch’io: ma è più per gioco, perché dà piacere e gioia, e in fondo è utilitaristico, come lo sarebbe anche senza tutti questi ricami. Io sono sempre stato e resterò, fin che possibile, razionale. Niente aloni fantasiosi. Niente miti. Solo cose basilari: fame, cibo, gusto, sapore, godimento, acquisto, perdita, energia, dispendio. Sono un uomo ordinario, che ama la routine operosa, nella quale rientra ovviamente quanto richiesto dalla necessità di procurarmi il cibo preferito. Per il resto niente mi distingue dal classico ingegnere, competente, amabile, efficiente e generoso con i pochi conoscenti e i molti dipendenti. Solo un po’ distaccato. Un po’ solitario, perché siccome il lavoro mi porta a contatto con molta gente, per il resto preferisco non averla tra i piedi. Consuetudine che peraltro ha contribuito a non creare sospetti sui miei comportamenti. Nessuno ha mai avuto niente da ridire, che io sappia.

E così mi auguro di poter continuare ancora a lungo.

Quando sarò stanco di vivere, o penserò che sia venuto il mio momento, convocherò tutti gli amici più cari, i sodali di tanti incontri, scambi e banchetti e mi offrirò loro in pasto. Non per espiazione, ma come forma di restituzione, certo non ebbra, serena se non proprio gioiosa, nella logica che meglio conosco: quella del dono, quale ogni pasto è stato per me. Saranno loro a decidere come, senza possibilmente farmi troppo soffrire, a meno che non si concordi tutti assieme una specie di cerimonia di chiusura, come quelle che concludono i convegni o le grandi rassegne sportive, per definire ogni dettaglio delle procedure, in modo che trovino il massimo gradimento possibile, e anche qualche pianto, perché no?, un po’ di sentimentalismo ce lo si può concedere in queste circostanze, e persino del dolore, che è parte del piacere, e può essere piacere a sua volta… e che per me sia il definitivo rito di passaggio, una sorta di assunzione in cielo, di profana santificazione. Senza falsa modestia, credo di meritarmelo.