Il muro dove volano gli uccelli - di Lucetta Frisa e Marco Ercolani, Edizioni L'arcolaio, 2013
Con
Lucetta e Marco ci conosciamo da vent’anni ormai. Ci scriviamo,
telefoniamo e leggiamo reciprocamente, ma gli incontri di persona
saranno poco più di una dozzina, e per quasi tutti l’occasione è
stata una mostra o un museo: a Genova, Milano, Bergamo, Firenze,
Monaco di Baviera... La scrittura, dunque, ma altrettanto la pittura.
Il loro primo libro sull’argomento precede la nostra amicizia: è
anzi uno dei primissimi che hanno pubblicato a quattro mani:
L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), ma tracce di
questo amore si trovano sparse in molte altre opere. La scrittura,
saggistica o di invenzione, è il derivato naturale di questa vera e
propria passione. Non dico che visitano musei e mostre per scriverne;
ci vanno (ci andiamo) perché i loro sensi hanno fame di pittura: la
testa viene dopo, magari di pochissimo, attimi, ma dopo; e la
scrittura a partire da quanto visto, dopo ancora, o forse mai, anche
se la passione è tale che prima o poi trabocca in inchiostro (mi
scuso per la metafora). Giriamo per le sale, Marco più veloce, ma
meditativo e metodico, Lucetta, che pure non trascura nulla, più
ondivaga, trascinata dall’entusiasmo per questo o quel dettaglio o
per l’insieme già intravisto da lontano ma che necessita sempre di
un accostamento, lento o saltellante, e di lunghe soste, di uno
sguardo miope, con tutto il corpo che segue l’occhio, si mette al
suo servizio, ma poi ne guadagna un surplus elettrico, di pura gioia.
Nel frattempo io sparo un po’ di scemenze ma, chissà come, loro le
metabolizzano in positivo e me le rimbalzano con una sfumatura in più
o un distillato della loro personale alchimia, tanto che mi sento più
intelligente anch’io. Gli amici servono a questo. Puro egoismo.
Poi
io torno a casa contento di averli visti e di ciò che ho visto, e
oltre non vado quasi mai; loro continuano a alimentare i loro forni e
col tempo da quelle loro storte e alambicchi escono racconti,
epistolari e carnets apocrifi, saggi critici o ekphrasis
di singole opere che dialogano le une con le altre e con altro ancora
(testi, citazione degli autori, dichiarazioni di poetica, luoghi e
contesti), e poi vanno a comporsi in piccole costellazioni tematiche
che a loro volta ne formano di più vaste che sono insieme
traiettorie originali nella storia dell’arte e riflessioni sulla
sua natura, e indirettamente, ma non in subordine, sulla propria
opera, sulle ossessioni, le procedure e le implicazioni che stanno
alla sua base.
Questo
Il muro dove volano gli uccelli ne è la dimostrazione e,
assieme a L’opera non perfetta (Nicomp, 2010) di Marco per
quanto concerne la pura teoria, il risultato più alto (oltre che più
soddisfacente per gli occhi, per le opere riprodotte e commentate, e
per la lettura, grazie a una scrittura piena di sorprese, di
improvvisi cambi di direzione e soprassalti che posso definire solo
come poetici). La seconda parte esemplifica nel modo migliore quanto
appena detto: si tratta infatti di una cinquantina di Dispercezioni
(è il suo titolo), suddivise per nuclei tematici: Ombre del
sacro; Chiaroscuri, maschere; Soglie, dissolvenze; L’opera
come ossessione; Intorno al nero; Colori, alchimie;
Imminenza, visione; Speccho, misteri. Seguendo la
suggestione di ciascuno di questi titoli e più ancora cambiandone
l’ordine, cucendoli con i pochi nessi che l’ordine configurato
produce quasi da sé, usando l’uno come chiave interpretativa degli
altri, non si scopre solo la stratificazione di queste letture brevi
e apparentemente solo focalizzate sull’opera prescelta, ma si
individuano anche alcune delle strutture portanti delle opere dei due
autori. Si potrebbe anche fare un piccolo gioco delle attribuzioni e
delle prevalenze, ma lo lascio al lettore: basta scorrere i titoli
dei loro libri per iniziarlo.
La
prima parte è composta di saggi davvero belli, che articolano con
più ampio respiro queste tematiche e ne esplicitano i presupposti
teorici, a partire dai graffiti delle origini fino a Nicolas de Staël
passando per Braque (il titolo del libro è ispirato da una sua tela:
Les oiseaux) e avendo come numi tutelari Giacometti e,
soprattutto, Michaux. Si tratta di un’indagine, o meglio: di un
vero e proprio viaggio nel paesaggio materiale, organico, della
creazione, in quel territorio dove i gesti, gli impulsi, i respiri,
l’eccitazione dei nervi e il dolore, le pieghe della carne e le sue
contrazioni si traducono in atto creativo, al di qua del senso,
dell’ordine che esso sempre comunque impone: necessario, utile,
plurivoco, ma sempre secondo, ulteriore, anche quando si volge
indietro e rimonta a prima, cercando di attingere il prima del prima.
Un itinerario che va indietro nel tempo, alle grotte con i primi
graffiti, ai primi segni – le impronte
delle mani e figure di animali – e a
prima dei segni, quando un segno è solo traccia, graffio animale,
scarabocchio, pura grafia, gesto che traccia e ancora non è finito,
segmento di nessun insieme: non ancora nel gioco delle differenze che
lo spossessano di se stesso fissandolo in un’identità ripetibile e
differenziata, ma appunto per questo, infine, visibile,
riconoscibile, con il capo fuori dall’informe. Ma un’indagine che
risale anche al momento prima che il gesto cominci: all’agitazione,
al brulicare delle viscere, allo sguardo che fibrilla e alle
sensazioni in eruzione prima del pensiero, dove ancora nessuno può
dire io. Così anche il loro sguardo, la loro capacità di lasciare
che l’occhio si incendi e la scossa passi nei sensi e
nell’immaginazione, le analogie, i nessi e le nuove immagini che ne
vengono prodotte sono meno un percorso emotivo personale o mappe
culturali, che pure a me piacciono moltissimo, che l’affioramento
di parentele, affinità e scambi senza proprietario che legano nello
stesso vincolo, in una visione comune, chi guarda e le trova e chi le
riceve e trasforma e rilancia.
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