Stamattina non cammino: sposto il corpo, lo trascino. Gli arti sono rigidi, pesanti; i movimenti, meccanici; le spalle si curvano in avanti schiacciando il torace contro il plesso solare; la terra trattiene i piedi un istante di troppo prima di concedergli di sollevarsi, e poi li richiama subito all’ordine gravitazionale; gli occhi sono velati da una sottile patina granulosa; anche i pensieri respirano a fatica. Il cielo è sereno, l’aria pulita: più tardi verrà l’afa, ma ora, qui in riva al fiume, si sta bene. L’acqua scorre silenziosa, le foglie sono ferme, i canti degli uccelli risuonano nitidi ma come in uno spazio separato, e i miei passi non producono suono. Due pescatori mi vengono incontro gesticolando muti, ma non al rallentatore. Un gatto cammina con eccessiva prudenza, o solo compassato, come d’uso, nell’erba alta; gira lentamente la testa a guardarmi, ma se ne va senza nemmeno mettermi a fuoco. Non sono abbastanza pericoloso. Non posso dargli torto.
Ogni tanto, in lontananza, oltre
il fiume i canali il bosco e il paese, verso l’orizzonte che gli alberi mi
nascondono, ma un po’ più in alto, nel cielo appena sopra, a salire, sotto le
nubi però, se ci fossero, sento dei tonfi, di quinte o muri che crollano, di
soffitti sfondati, e poi rumori cupi ma striati da lunghe note acute, come di
pesi che vengono spostati su un terreno accidentato, cassoni o mobili enormi.
Impegnato a governare la carne recalcitrante con comandi che restano
invischiati in remote circonvoluzioni, accasciati contro il muro del labirinto
senza tradursi neppure nel semplice impulso a agire, li registro solo dopo un
lungo intervallo. Non li riconosco, non trovo definizioni, non mi vengono in
mente scenari plausibili o soddisfacenti almeno per l’immaginazione, ma di
rimbalzo cominciano a formarsi le parole per ciò che mi sta attorno: aria,
cielo, foglie, uccelli. Risuonano nella testa che ancora ondeggia, ripetendosi
come un nastro in loop, ma acquistando qualche fonema e poi sillaba e poi
radice e desinenza ad ogni giro, che poi si mescolano e sovrappongono e provano
a districarsi alla ricerca di un qualche ordine, che però non trovano. Né il
mio passo ci guadagna. Sembra che diventi più veloce, mentre è solo il sangue
che scorre un po’ meglio, senza altri effetti, al momento. La mia, di velocità,
continua a essere inferiore alle medie solite, almeno del 10-15% a giudicare
dal tempo che ho impiegato nel tratto sinora percorso. Può essere che non il
tempo, ma lo spazio sia elastico: il dubbio mi è già venuto in passato, quando
tenevo un’andatura identica alla norma e il tempo di percorrenza di certi
tratti lo cronometravo, sia pure di pochissimo, chiaramente maggiore. Oggi però
la dilatazione dello spazio sarebbe eccessiva. Sono io che non vado. Intanto le
parole continuano a agglutinarsi in piccoli insiemi e a ripetersi, martellando
in testa un ritmo che il corpo invece non sa tenere. Devo fermarmi a prendere
un appunto, se no il martellamento non cessa. Può darsi che dopo anche il passo
sarà più sostenuto. Che la testa alleggerita alleggerisca il corpo.
Ma è un
piccolo calvario: prima di trovare un posto dove potermi fermare a scrivere con
un certo agio devo percorrere altri 3 kilometri. Tutte le panchine sono alle
mie spalle, i muretti si sono appianati e per terra non mi siedo: ho i bermuda
molto chiari. Nuovi. Finalmente arrivo alla cappella con le panche in pietra ai
lati della porta. Appena mi accomodo, mentre estraggo il quadernetto dalla
tasca posteriore, una zanzara tigre si posa sulla mia coscia sinistra, forse attratta
dal candore della stoffa. La schiaccio senza pietà, a rischio di macchiare i
bermuda di sangue. Non succede: non si era ancora nutrita evidentemente. O
forse era un maschio. Ho qualche problema con l’identità sessuale degli altri,
a volte. Degli altri animali. Scrivo tenendo d’occhio le gambe; ogni filo
d’erba che mi sfiora i polpacci mi sembra una minaccia, ma vado avanti.
Arrivato a questo punto, proprio qui, poggio il quadernetto sul piano del sedile per fotografarlo come faccio con quasi tutti i luoghi dove prendo appunti, e vedo sul suo spessore una lumaca che si muove lenta, in verticale. Senza sforzo però: col suo passo.
Arrivato a questo punto, proprio qui, poggio il quadernetto sul piano del sedile per fotografarlo come faccio con quasi tutti i luoghi dove prendo appunti, e vedo sul suo spessore una lumaca che si muove lenta, in verticale. Senza sforzo però: col suo passo.
Scattata la foto scrivo queste
ultime righe e mi distraggo: un’altra zanzara tigre ne approfitta per posarsi
sulla vena appena sopra la caviglia destra. La spiaccico sporcandomi il dito di
sangue. Non so se è mio o di qualcun altro. Fatto sta che poi non c’è gonfiore.
Guardo la macchia di sangue per pulirla e dentro, intrappolate, vedo due
frammenti della zanzara. Forse le zampette. Prima di notarle non mi dispiaceva
di averla schiacciata. Ora che le ho notate e lo sto scrivendo, un po’ sì. Ma
poi no. No.
(Quando mi
alzo, finito di scrivere, il passo è più spedito, quasi arzillo.)
(Accendo la
musica sul cellulare. La prime
parole che decifro sono “by the saving grace / that’s over me”.)
(Dopo
qualche minuto, quando, sbucando dai cespugli che costeggiano la strada,
imbocco a passo spedito il ponticello dell’Adda vecchia, un’anatra in discesa
verso il canneto mi plana pochi centimetri sopra la testa. La vedo dopo. Prima
sento solo lo spostamento d’aria, la sua carezza incorporea, i capelli che
vibrano.)
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