La
notizia che mi occupo di loro si va diffondendo tra i cani del circondario, e
ora anche quelli che prima non mi degnavano di uno sguardo (non dico di una
parola), non appena mi vedono o sono avvisati del mio arrivo dal tamtam dei
colleghi, non perdono un attimo per corrermi incontro. Sono cani che hanno la
cuccia in qualche angolo lontano dalla strada, o che preferiscono bighellonare
o spaparanzarsi nei giardini e negli spazi retrostanti le villette o le
palazzine famigliari, o nei cortili delle fabbrichette a queste adiacenti, se
non addirittura installarsi tra le pareti domestiche, dove possono poltrire a
loro agio o giocare e scambiarsi le coccole con i padroni di casa.

A
me verrebbe voglia di negargli l'una e l'altra, a quegli stronzetti snob; poi
però prevale la mia umanità di fondo (stavo per scrivere: la mia innata bontà),
e allora mi fermo, scatto qualche foto alla benemeglio e dico due parole
affettuose.
II

Se ti fermi a guardarli per un po’, continuano ad abbaiare rabbiosi per qualche secondo, più per inerzia che per dovere, poi si girano e se ne vanno in silenzio, solo voltandosi ogni tanto, a volte per abbaiare di nuovo un paio di volte, più spesso tossendo qualche sbuffo o borborigmo.
Riprendono
con una certa lena solo quando hanno raggiunto una distanza di sicurezza, uno
spazio non liminare, tutto loro, dove possono scorrazzare in lungo e in largo
senza sentirsi ostacolati dal cancello o dalla recinzione: quando dimenticano
di essere prigionieri.
(E
guardiani della prigione, dal suo interno.)
III

Che vergogna!
(Allora,
per illudermi, vario i percorsi. Come se questo mi restituisse la dignità.)
Non conterei molto, o troppo, sulla dignità: basterebbe un cancello appena chiuso o poco chiuso o leggermente aperto se non spalancato.
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