La
notizia che mi occupo di loro si va diffondendo tra i cani del circondario, e
ora anche quelli che prima non mi degnavano di uno sguardo (non dico di una
parola), non appena mi vedono o sono avvisati del mio arrivo dal tamtam dei
colleghi, non perdono un attimo per corrermi incontro. Sono cani che hanno la
cuccia in qualche angolo lontano dalla strada, o che preferiscono bighellonare
o spaparanzarsi nei giardini e negli spazi retrostanti le villette o le
palazzine famigliari, o nei cortili delle fabbrichette a queste adiacenti, se
non addirittura installarsi tra le pareti domestiche, dove possono poltrire a
loro agio o giocare e scambiarsi le coccole con i padroni di casa.
Io
non sono ancora nel loro raggio visivo, che loro già schizzano verso il
cancello e corrono avanti e indietro lungo la recinzione salutandomi
calorosamente; saltellano, si affacciano, si ergono sulle zampe posteriori
appoggiandosi precariamente con le anteriori alle sbarre di ferro o incastrandole
nelle reti, con la lingua fuori e le orecchie prima ritte e poi mosce. E se io
fingo di non sentirli e continuo con il mio passo spedito senza gettare nemmeno
uno sguardo per non perdere il ritmo, ci restano male. Non lo chiedono
espressamente, la rude dignità canina glielo impedisce, ma si vede che ci
tengono a essere fotografati anche loro, che vorrebbero essere amati anche al
di fuori dell'ambiente ristretto dove passano i loro giorni, o che almeno ci
sia una testimonianza esterna, una parola per loro e su di loro.
A
me verrebbe voglia di negargli l'una e l'altra, a quegli stronzetti snob; poi
però prevale la mia umanità di fondo (stavo per scrivere: la mia innata bontà),
e allora mi fermo, scatto qualche foto alla benemeglio e dico due parole
affettuose.
II
Se ti fermi a guardarli per un po’, continuano ad abbaiare rabbiosi per qualche secondo, più per inerzia che per dovere, poi si girano e se ne vanno in silenzio, solo voltandosi ogni tanto, a volte per abbaiare di nuovo un paio di volte, più spesso tossendo qualche sbuffo o borborigmo.
Riprendono
con una certa lena solo quando hanno raggiunto una distanza di sicurezza, uno
spazio non liminare, tutto loro, dove possono scorrazzare in lungo e in largo
senza sentirsi ostacolati dal cancello o dalla recinzione: quando dimenticano
di essere prigionieri.
(E
guardiani della prigione, dal suo interno.)
III
Sono passate un paio di settimane e già ci hanno fatto il callo, questi pelandroni, e quando passo non fanno nemmeno
più finta di avvicinarsi per dare un'occhiata, così, per sicurezza, o
addirittura di alzare il capo, se sonnecchiano. Qualcuno, ogni tanto, se è già
nei paraggi del cancello, mi sussurra un saluto (che non si sappia in giro!), o
abbozza l'inizio di un ritornello che ha già in testa, per pura delicatezza canina.
Ormai mi conoscono. Sanno anche loro che sono un essere mite, disarmato: totalmente
innocuo.
Che vergogna!
Che vergogna!
(Allora,
per illudermi, vario i percorsi. Come se questo mi restituisse la dignità.)
Non conterei molto, o troppo, sulla dignità: basterebbe un cancello appena chiuso o poco chiuso o leggermente aperto se non spalancato.
RispondiElimina