Meglio non fidarsi delle cartine
stradali in una città come Lisbona che è tutta un saliscendi: le distanze sono
sfalsate, perché la mappa riduce tutto in piano, e se sbagli la traversa, a
volte minuscola, non segnalata e stretta come una feritoia, o ti confondi in un
intrico di viuzze senza targhette o addirittura senza nome, devi fare dei giri
interminabili, e se uno ha fretta, o non gli piace camminare o ha qualche
problema respiratorio e motorio, magari sotto il solleone anche a inizio
ottobre, allora, su quei marciapiedi sconnessi, quando ci sono, e su e giù per
certe pendenze che te le raccomando, be’, allora è un disastro. A me invece
camminare piace, e anche perdermi (non apposta, non sono così raffinato: solo
se càpita), e per soprammercato coltivo una piccola arte del bighellonare
svagato, tanto più in viaggio, che il tempo mi è indifferente, ragion per cui
in città come Lisbona ci sguazzo senza pudore. (Lo dico di tutte.) E’ per
questo che, anche se ci ho messo un po’ ad arrivare al Museo di Arte Antica,
che dal centro, dove ero, secondo la mappa distava poco più di due fermate di
metrò, la lunghezza del percorso e il solleone non hanno ridotto l’allegria che
la prospettiva di visitarlo mi aveva messo addosso. (Al ritorno però ho visto
una fermata di bus a pochi passi e ne ho approfittato.)
Nell’atrio d’ingresso c’era solo una
signora esotica al bancone dei biglietti che si occupava anche del guardaroba.
In genere i sorveglianti erano poco numerosi e gentili, molto discreti, come
padri benevoli che osservano da lontano, pronti a intervenire ma solo nel caso
la situazione stia per degenerare, cosa che nei musei è piuttosto rara (a meno
che non si tratti dei pochissimi famosi come grandi magazzini, sempre ricolmi
di masse di turisti). Ognuno aveva in carico alcune sale, che sorvegliava da
una sedia situata sulla soglia tra due ma con vista su ampie porzioni di un
altro paio. Mentre mi aggiravo nelle prime sale il signore addetto, più o meno
mio coetaneo, ogni tanto chinava il capo e sonnecchiava: al risveglio mi
guardava sorpreso e un po’ allarmato di
ritrovarmi ancora lì, ma subito rassicurato che me ne stavo buono buono a
prendere appunti su qualche sedile o divanetto, alzandomi ogni tanto per
controllare un dettaglio o scattare foto, tanto che poi raggiungeva il collega
più vicino tre o quattro sale più in là e mi dimenticava per lunghi tratti.
Sono rimasto nelle sue 4 sale un’ora e mezza, mica poteva star lì a contare
tutti i miei respiri! Quando, ogni 10-15 minuti, compariva una coppia o un
gruppetto di visitatori (mai uno da solo: solo una signora con il figlioletto,
a cui mostrava alcune cose, con il bambino che annuiva, sgranava gli occhi
prima verso il quadro e poi in quelli sorridenti della madre, ondeggiando il
bel crapone, che è scena che mi commuove sempre), faceva una veloce incursione,
o si limitava a affacciarsi e, come se la mia quieta permanenza garantisse
anche per i nuovi arrivati, la cui velocità di visita peraltro, non
discostandosi dalla media, era rassicurante già di per sé, tornava con passo
morbido da dove era venuto.
I visitatori si muovevano senza
impacci, con bella scioltezza che non veniva turbata nemmeno dalle stazioni un
po’ più lunghe davanti ai quadri più famosi o da cui erano attratti per qualche
ragione; una coppietta si scambiava circoscritte ma intense effusioni sul
divanetto della sala degli olandesi, forse stimolata dal clima di intimità di
certi interni o ritratti di famiglia, davanti a uno dei quali, opera di Pieter
Fransz de Grebber, una famigliola guardava un suo corrispettivo di quattro
secoli prima come se a essere rappresentata fosse lei, in abiti del passato e
in una campagna ormai scomparsa, o quella di papà o mamma con i numerosi
fratelli (uno ogni anno) e rispettivi genitori (la donna un po’ pallida, ma con
le guance rubizze e ancora abbastanza in forze nonostante tutti quei parti: e
non escludo che un paio di bambocci ancora in fasce aspettassero a casa) e i
cani di famiglia, che come ovvio stanno anche ad indicare la fedeltà: cosa
indubitabile del resto, almeno da parte di lei: non solo perché sempre
incinta, o appena sgravata, ma anche perché immagino che la regolarità delle
pregnanze non fosse poi così favorevole alla risorgenza della libido, che
il marito, probabilmente, conserva intatta, o quasi, andando a cercare
sbocchi altrove. Con gran sollievo della consorte. Purché la famiglia e
il patrimonio non ne risentano.
Il bookshop è piuttosto spartano e
offre solo cataloghi o libretti dedicati al museo o poco più; anche i souvenir
sono misera cosa, messi lì solo perché non starebbe bene che non ci fossero, ma
dubito che qualcuno li compri. Ci ho provato con un quadernetto, ma era senza
righe. Scarse anche le cartoline con le riproduzioni delle opere , e solo delle
più importanti. Le opere si possono fotografare però, senza che nessuno abbia
da ridire (come quasi ovunque, eccetto che in Italia).
Non molto fornito nemmeno il
ristorantino modello self service, con due inservienti, di cui uno diviso tra
bar e cassa: i piatti però sono decorosi e abbondanti, i prezzi contenuti, e
soprattutto si può mangiare sotto maestosi alberi di jacaranda in un bellissimo
giardino, che, per i più romantici, termina in una terrazza ricoperta con vista
sulla foce del Tago. Bello. Persino la bambina che gioca a rincorrere i
piccioni ridendo ogni volta che uno si alza in breve volo solo per sfuggirle di
qualche metro, guardando la mamma per vedere se si compiace di lei (sì) e
attorno per verificare se qualche altro ammira le sue prodezze (no), persino
lei non dà fastidio. Il 60enne francese che, mentre fa un discorso pacato ma
palesemente, nelle intenzioni almeno, feromonico, alla sua commensale 45-50enne
e intanto getta le briciole nel prato divertendosi, e pensando di divertire,
all’accorrere delle bestiacce, invece sì. Tanto più che, non appena si accorge
che circondano a frotte il suo tavolo, non smette di gettare le briciole e le
lancia solo più lontano: accanto al mio. Grazie. (Non mi vede: la spuma del
desiderio si tiene la pupilla tutta per sé.)
Rientriamo nel Museo, va’.
Nella terza sala (la 64) c’è un
trittico di Jan Provoost, la Madonna
della misericordia (1512-15). Dire che è bello è forse esagerato, ma c’è
una cosa che mi colpisce: le donne in basso a destra nel pannello centrale cosa
diavolo stanno guardando? Tutte le figure maschili ai piedi del trono, tranne
quello con l’abito rosso e il soprabito scuro che immagino sia il committente
(non credo che lo siano i rappresentati del potere spirituale e temporale in
primo piano), dirigono lo sguardo verso la Madonna e il Bambino, in preghiera,
come se fossero presenti alla scena secondo una consuetudine che risale ai
primitivi fiamminghi. Il committente e la moglie (la biondina slavata in abito
verde sulla destra) forse non guardano niente, o solo la visione interiore che
gli altri, santi defunti, hanno la fortuna di godere direttamente, di persona
(per quanto in spirito, attesoché per la resurrezione della carne è ancora
presto), al pari di tanti donatori fiamminghi (per esempio il più
famoso di
tutti, il Cancelliere
Rolin di Van Eyck); ma le donne alle
spalle della moglie, forse parenti, figlie e/o sorelle più che sante
protettrici, a dispetto dell’augusto spettacolo e della circostanza (siete in
un quadro perbacco!, un trittico mica da poco, e sarete sotto gli occhi di
tutti per i secoli a venire!), anche se alcune sembrano levarlo in alto, loro
pure prese da qualche visione mistica (ma fuori cornice, come quella che guarda
verso sinistra, in alto: forse qualcosa sul muro, forse un altro cielo),
dirigono il loro sguardo verso punti imprecisati dello spazio antistante, ma
non verso il posto del pittore o dello spettatore, lo lasciano vagare qua e là,
chissà dove, attratte da chissà cosa. Si distraggono, come succede spesso alle
donne, e anche a me. E poi magari vedono cose che non ci sono; o scoprono cose
che non avevano visto.
(Lascio che la visita mi guidi così.)
(Visite guidate, con lo scrivente a sua
volta guidato da questo o quello.)
2)
e c’era questa resurrezione un po’
asfittica sull’anta destra di un trittico di Quentin Matsys (o della sua scuola,
piuttosto). Cristo si libra in uno spazio costipato, al di sopra della solita
soldataglia che, manco a dirlo, si era addormentata durante il turno di guardia.
Che cavolo di incarico è sorvegliare il sepolcro di uno straccione? Però
l’evento sorprendente un paio li ha svegliati. Sono ancora intontiti dal sonno,
e difatti uno ha uno sguardo confuso che non sa dove posarsi ed è come se
stesse ancora mettendo a fuoco il mondo, scarsamente supportato da un cervello
che ha fatto più di una sosta sul percorso della filogenesi. Il suo compagno
invece ha reagito più in fretta e guarda di sott’in su questo mago in decollo
verticale. Ha dei baffetti da gagà, le guance lisce di chi si è rasato
accuratamente al massimo la sera prima, quando forse si è goduto la libera
uscita prima del turno di
notte. Nemmeno lui sa ancora come
inquadrare il fatto, e al momento è in preda a una meraviglia sbigottita. Alla
relazione che dovrà fare più tardi, inventando qualcosa di credibile, perché
quello, insomma, è un po’ troppo, che poi lo accuserebbero di essersi ubriacato
in servizio, o di aver mangiato uno di quei dolci speziati che, be’, ci siamo capiti...,
al falso che dovrà essere più vero del
vero, non ha ancora avuto il tempo di
pensare. Chissà cosa racconterà. Tanto più che la tomba ha ancora i sigilli
intatti, con la ceralacca rosso brillante lungo i bordi della gigantesca lastra
tombale. Perché lo notasse anche lo spettatore attento, il pittore li ha
dipinti in trompe l’oeil, in rilievo, come dei falsi che col quadro non
c’entrano, appiccicati sopra la superficie della tela o tavola che sia. Dei
falsi a tre dimensioni, come veri sigilli. Messi in un angolo del pannello
però, non troppo in evidenza, per non distrarre il devoto che a svagarsi è già
predisposto di suo. A pensare ai propri peccati ci si deprime. E poi si rischia
di non cedere più. Che quello sì, sarebbe il vero peccato.
3)
4)
poi c’era questo santo fortunato, ma
anche un po’ disordinato, a giudicare dai libri sulla mensola, pochi eppure
messi lì alla rinfusa, appoggiati come capita capita dopo l’uso, con una certa
sprezzatura, perché sembrano codici miniati di qualche pregio, e comunque libri
sacri, che non meritano di essere trattati così, e non lo meriterebbero nemmeno
se sacri non fossero (ma forse tutti i libri sono sacri), che prega davanti a
un breviario spalancato su un leggio. Le pagine non stanno ferme, alcune si
alzano e lui le legge di sguincio, ma non gli importa, perché le ha recitate
tante volte che le sa a memoria e le tiene aperte davanti a sé solo per
controllare qualche breve passaggio, o perché il libro è una metonimia per il
suo contenuto e lui è davanti a quello che sta pregando, è quello che adora con
gli occhi del pensiero. E lui è un bravo santo, e proprio per questo ha la
fortuna di un angioletto cicciottello tutto per sé accoccolato sul piano di
lavoro del leggio, che gli fermerà le pagine dovessero girarsi prima del tempo
e intanto col ditino tiene il segno in un altro libro che il sant’uomo leggerà
appena dopo, a meno che non sia lui che intende suggerirgli la meditazione
successiva e per questo gli prepara la pagina opportuna. Il bimbo, senza ali,
che magari un angelo non è e simboleggia solo qualcosa che al momento non posso
né voglio verificare, ha le guance rosse per lo sforzo e la concentrazione; si
vede che ci tiene a lavorare bene: forse è al suo primo incarico e vuol fare
bella figura, anche se non capisce perché l’hanno mandato lì senza niente
addosso. La stanza però è soleggiata, entra una luce calda, che indora tutta
l’ampia cella di rimbalzo dal vicino oceano, lungo le cui spiagge, in
Portogallo, in questa stagione freddo non fa: anche se questa, comunque, non è
una buona scusa per andarsene a spasso nudi. A meno che non sia il bambin Gesù,
accorso in prima persona a servire il suo santo prediletto: i grandi hanno di
queste delicatezze (dico i veramente grandi, non le loro infinite parodie). Poi
magari sistemerà anche lo scaffale levitando in aria con quei libri
sottobraccio, che meno male che non sono troppo voluminosi. Il santo non gli
bada, o lo scambia per una pura, e più verosimile (per modestia, non per poca
fede), visione interiore: ha un bel volto, rigoroso ma non emaciato. Quasi
dolce, anzi. Concentrato, ma senza sforzo. Con naturalezza, piuttosto. Il volto
di chi prega amando la preghiera. Il panneggio dell’abito, dal tessuto morbido
che senza stropicciarsi asseconda con le sue pieghe i movimenti o le posture
del corpo, mi sembra un riflesso, o la traduzione visiva, di quello che sta
pensando. Qualcosa di bello, che rasserena. O forse a pensarlo, e a essere
rasserenato, sono solo io, che mentre lo guardo ogni tanto volgo la testa verso
la finestra e mi sento avvolto dalla stessa luce e dallo stesso calore.
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