23 aprile 2008
Per la legge “uno non conta, ma
due a distanza ravvicinata sì”, trascrivo un paio di episodi della mia
adolescenza calcistica per come mi sono stati raccontati da testimoni che
allora manco conoscevo.
Prima storiella.
Qualche settimana
fa sono andato a trovare Federica A., che si era presa una brutta polmonite.
Mentre chiacchieravo con i suoi genitori, siamo capitati a parlare, non so come
(ma sì che lo so: come fanno gli adulti... i vecchi...), di quando eravamo
giovani, e a un certo punto Raffaele, il padre, è uscito con l’affermazione che
io per lui, per un certo periodo, sono stato una specie di eroe. Ha usato
proprio questa parola. Pensa un po’: un eroe! Senza che lo sapessi... ma pur
sempre un eroe sono stato. Esagerato! (D’altra
parte gli eroi mica lo sanno, di esserlo... di solito non ne hanno nemmeno
l’ambizione... non vanno in giro con il cartellino sulla giacca e la
professione indicata sulla carta d’identità...) E lui viene a dirmelo solo
adesso! Non poteva mandarmi qualche segnale prima, che magari mi tornava buono
in qualcuno dei frequenti momentacci in cui la mia autostima si eclissava?
...adesso che è andata in esilio senza speranza di ritorno?
Di fronte al mio
stupore (genuino, ma che non credo sia riuscito a nascondere un certo
compiacimento, peraltro motivato una volta tanto), lui mi ha ricordato il
famoso torneo Clusone di quando ero in quinta ginnasio, uno dei miei pochissimi
cavalli di battaglia, quello che ricordo sempre, tra l’altro, perché è stato
l’anno in cui passavo molte domeniche a studiare i Promessi sposi in quanto la buonanima del mio professore, don
Martino, aveva una tale predilezione per il sottoscritto che mi interrogava
tutti i sacrosanti lunedì mattina chiedendomi la parafrasi “riga per riga con
vostre parole” dei capitoli assegnati (almeno tre per volta), e allora io
studiavo e studiavo quel fottutissimo romanzo... a casa prima di partire, e poi
in macchina e mentre aspettavamo il nostro turno di entrare negli spogliatoi, e
infine negli spogliatoi, mentre mi vestivo... persino quando mi allacciavo la
scarpe, con il libro aperto sulla panca di legno e i miei compagni che mi
prendevano in giro... l’ultimo anno che ho studiato sul serio – sul serio come
lo intendevano i miei insegnanti –, quello che ha segnato il mio odio decennale
per i suddetti Promessi, finché non
li ho riletti a casa di Angela, che li aveva nella sua piccola libreria, quando
eravamo fidanzati, mentre aspettavo che si struccasse e si preparasse ad andare
a letto – intere mezz’ore... a volte più: un capitolo a sera press’a poco – per
poi tornare al mio di letto, o in giardino, d’estate, a leggere altro in
veranda fino alle due o alle tre, contento anche per la riscoperta..., un odio
che poi si è tramutato in un amore tale che i pochi anni che ho insegnato al
biennio delle superiori ho sempre sostituito quel libraccio con altri per
risparmiargli quello dei miei studenti, di odio, che poi non avrebbero più
avuto occasione di riprenderli in mano e se li sarebbero sempre ricordati come
una tortura, dato che odiavano a priori (giustamente) qualsiasi cosa puzzasse
di scolastico, identificandolo con il peggio del peggio della scuola, anche se
qualcuno magari lo avrebbe apprezzato, anche grazie a me magari, alla mia
passione... ma la maggior parte spesso già rovinati da precoci assaggi alle
medie trangugiati a forza sotto lo sguardo sadico di professori che a loro
volta odiavano e non capivano un’acca della letteratura che secondo loro
insegnavano... Va be’, ma questo cosa c’entra? C’entra, c’entra... la
letteratura c’entra sempre.
Insomma, a Clusone c’era ‘sto
collegio dove ogni anno organizzavano un torneo a sette (o a nove) giocatori,
al quale partecipavano tutte le squadre giovanili più forti della Valseriana e
buchi limitrofi. Siccome tra gli ospiti (tra i reclusi, gli ostaggi, i
soprannumerari, gli accantonati, gli indesiderati, i respinti, gli
abbandonati...) del collegio c’era anche un ragazzo di Fara della mia età, suo
padre quell’anno aveva messo insieme una squadra del nostro paese e ogni
domenica mattina di quella primavera il nostro gruppetto veniva portato a
Clusone stipato in due o tre utilitarie. Eh sì, era la primavera del ’67,
l’ultima dell’innocenza. (Della presunta innocenza...) Ricordo che leggevo
schiacciato sul sedile posteriore tra due amici che facevano a gara a
disturbarmi, cantandomi nelle orecchie, sbraitando, facendo gli asini per ogni
nonnulla (come fanno gli innocenti... come fanno gli innocenti al quadrato che
si credono smagati...), tra gomitate e pizzicotti, chiudendomi il libro a
tradimento ogni due minuti... e che non smettevo fino a quando, per le curve e
le frenate e le file e i tornanti, non mi veniva la nausea, l’impulso di
vomitare. Mi fermavo prima di farlo però, anche se la tentazione di imbrattare
quei cretini era irresistibile... Ma io studiavo dai salesiani, e resistere
alle tentazioni era la prima cosa che avevo imparato (imparo subito io... senza
stare a distinguere se è il caso o meno: ho questo difetto). Chiudevo il libro,
gli occhi, e inspiravo forte, a fondo, trattenendo il respiro finché potevo...
chiedevo di abbassare i finestrini e subito mi avvolgeva l’aria della pineta...
Quello che non
ricordavo era che tra i compaesani del collegio c’era anche Raffaele, forse
perché più giovane di tre anni. Altra generazione! Era ancora alle medie il
tapino, tra i piccoli, da solo, lontano da casa, dove tornava solo per le
vacanze, con poche visite e, come capita, in quanto isolato e straniero (in
Valseriana sull’argomento non ci vanno leggeri, come è noto), i suoi compagni
non si facevano scrupolo di prenderlo in giro (ci godevano di brutto, a dirla
tutta), tanto più che l’unica cosa che si poteva sapere lassù del nostro paese
di origine erano i risultati della Farese, allora in terza (e ultima)
categoria, che la pagina sportiva dell’Eco
di Bergamo riportava impietoso ogni lunedì. Una sconfitta dietro l’altra, e
pesanti anche... disfatte che si protraevano per interi campionati, senza
neanche la catartica umiliazione della retrocessione a una categoria inferiore,
dove magari qualcuno più debole, da mazzolare a nostra volta (nostra della
Farese), si sarebbe anche trovato. Ultimi dell’ultima categoria... Quelli della
pianura, già che non sono veri bergamaschi (e quindi umani a malapena, a voler
essere larghi di manica come insegna il cristianesimo), non sanno giocare...
sono scarsi, gracili, impediti... gente che parla senza aspirare, con
quell’intonazione melliflua semimilanese da donnette... donnette in tutto e per
tutto anzi... mezze seghe, al massimo. Raffaele ci soffriva.
E così, quando mi
ha notato nella squadra appena scesa in campo (d’estate mi vedeva giocare
all’oratorio o nel torneo notturno), nella speranza di una rivalsa trasversale
mi ha indicato ai suoi aguzzini pronosticando che li avrei lasciati tutti a
bocca aperta e che avrei segnato entro il primo quarto d’ora, pregando tra sé
che non lo deludessi. Quelli si sono messi a ridere. Chi, quel piccoletto
cicciottello? Caso volle che alla prima azione che mi è capitato il pallone tra
i piedi (così ricorda ancora Raffaele... io no... forse inventa... forse era la
seconda azione o la terza... è la trasfigurazione eroica, il nimbo del
semidio...), ho dribblato mezza difesa e ho segnato. Poi ne ho segnati altri, non
ricorda quanti... almeno tre o quattro. Fatto sta che, da quel momento, come
mio “amico” è stato più rispettato e per lui si è consolidato il mio ruolo di
eroe, di idolo. E ancora se ne ricorda, dopo quarant’anni, come fosse ora... Ma
pensa te! Tanto più che poi siamo arrivati secondi, cosa che non era mai
capitata a una squadra “esterna”, e io ho vinto il trofeo di capocannoniere.
Diciassette gol in cinque partite! Dicasi diciassette (17)! Ho ancora la foto
della premiazione, in bianco e nero, piccola, con i margini dentellati, che
tengo il trofeo in mano, i capelli corti, la maglia a righe che addosso si
stortavano ad ogni movimento perché mi andava stretta (come ho detto ero
robusto, quasi cicciottello), il
sorriso un po’ storto di quando sorrido a comando, ma gli occhi, quelli sì,
contenti davvero. Lo sguardo pulito e sereno. (Allora l’avevo sempre così... Ma
anche oggi, suvvia... anche se non proprio sempre.) Il trofeo invece se l’è
preso mio fratello Mario che per anni si è vantato con i suoi amici di averlo
vinto lui. Prima ha staccato la targhetta con la data però. All’epoca aveva un
anno e mezzo, anche se già mi somigliava. (Adesso è meglio, mi pare... meglio
di me, intendo.)
Poi Raffaele mi ha
raccontato (avevo ancora la bocca spalancata per la sorpresa) che si ricorda
anche di avere giocato qualche volta con me all’oratorio, e che aveva imparato
molto, perché io indicavo sempre ai miei compagni come giocare, dove spostarsi,
come marcare questo o quell’avversario... cose così. Magari le dicevo incazzato
perché non le eseguivano, perché stavo perdendo... ma per lui erano segnali di
attenzione, parole di cui fare tesoro, autorevoli... Gli eroi non parlano a
vanvera!
Seconda storiella.
Oggi stavo fumando
una sigaretta sulla panchina fuori dal bar dove ogni tanto vado a giocare a
scopa. Seduto accanto c’era Vito, un signore con cui, grazie alle carte, ho
ripreso contatto da poche settimane dopo decenni che non ci vedevamo. Non che
fossimo mai stati amici, ha 5 o 6 anni più di me (altra generazione!), ma c’è
stato un periodo negli anni ’70 in cui ogni tanto ci incontravamo, credo nel
momento glorioso del circolo artistico farese, e allora qualche parola ci sarà
pur capitato di scambiarcela. Parole così, dette e dimenticate all’istante...
Può darsi che solo io non gli abbia dato peso, però... ero un po’ supponente
all’epoca... intransigente. Sempre cortese comunque... noblesse oblige. (O ero
uno stronzo e basta?) Adesso invece, sulla panchina, sotto un bel sole che un
po’ mi stordisce, parliamo del più e del meno come due che si conoscono da
sempre. Pacati. Sereni. Stiamo bene e ci piace essere lì. In quel mentre esce
dal bar un signore che mi saluta. E’ il padre di un mio ex-allievo, un po’
strano all’epoca, a cui ho voluto bene (forse glien’ho voluto proprio per
questo... mi capita spesso) e mi saluta
sempre con qualche deferenza: “prufesùr...”, e un accenno di inchino. Gli
rispondo con l’identica cortesia (non più supponente) e poi dico al mio vicino:
“Ti ricordi quando faceva l’arbitro di calcio?”. Invece di rispondermi, lui mi
fa: “Mi ricordo la prima volta che ti ho visto giocare...”. Lo guardo allibito.
“Non mi risulta che ti sia mai
interessato di calcio... non credo di averti mai visto giocare, nemmeno
all’oratorio...”, gli faccio. Ma lui non mi risponde, come se non mi avesse
sentito. “Era una partita organizzata dall’Atalanta...”, continua invece,
concentrato sul suo ricordo. Chissà da dove viene... Ci avrà mai pensato altre
volte? ...o è solo adesso che per la prima volta gli torna alla mente? Magari
invece quel che ha visto di me quel pomeriggio è sempre stato parte integrante
della mia persona ogni volta che mi ha incontrato successivamente... parte del
mio nome ogni volta che lo ha sentito nominare in questi quarant’anni. Magari
tutto ciò che ha sperimentato, conosciuto, sentito di me, non è stato che un
corollario di quello, un aspetto secondario, poco significativo. Non che cambi
qualcosa... Sono cose risapute, peraltro. Tanto più che nella sua vita io non
ci sono mai entrato, come lui nella mia... siamo stati, l’uno per l’altro,
esseri marginali, nomi o poco più. Adesso che sto scrivendo, mi viene in mente
di aver pensato ogni tanto a lui passando davanti alla casetta dove abitava con
sua madre (il padre non lo ricordo, forse è morto presto), vicina a quella dove
ho abitato tra i sette e i quattordici anni, e di essermi chiesto in quelle
occasioni, ma solo per un attimo, che fine avesse fatto... dove vive ora. (Ha
sempre abitato in paese, ma pensa un po’! ...e per più di trent’anni non ci
siamo mai incrociati! Curioso...) “...una di quelle partite che gli osservatori
organizzavano con i migliori ragazzi delle varie zone per selezionare pochi
eletti per le squadre giovanili dell’Atalanta... ti ricordi?” “Eccome no?” E’
stato uno dei miei giorni di gloria, un altro dei cavalli di battaglia che a
volte sforno, senza esagerare, ai miei studenti (i maschi, più ottusi...) per
accrescere la mia autorevolezza ai loro occhi... anche se non ce ne sarebbe
bisogno: quella intellettuale, per chi la capisce, o quanto meno dialettica,
basta e avanza... non per vantarmi... (Taccio del resto.) In certi momenti
però, quando me ne servo (quando mi faccio bello), mi viene come il dubbio di
esagerare, chissà perché... che il ricordo, nitidissimo, sia in qualche modo falso,
un ricordo schermo... uno dei tanti. Ma a Vito non dico niente, lascio che sia
lui a raccontare... così potrò finalmente fare un confronto, una verifica... a
meno che anche il suo ricordo non sia in qualche modo sfalsato, distorto, a sua
volta schermo... (Ma lui cosa ci guadagnerebbe?)
Così lui continua: “Sono rimasto
letteralmente a bocca aperta...” (come sono io, di nuovo, adesso). “Non ti
avevo mai visto giocare prima, e hai fatto una partita straordinaria... a parte
un bel po’ di gol... (continua! continua! ...5 gol e un palo per la
precisione... ma non glielo dico... continua!) ...avevi un grande controllo di
palla... uno scatto fulminante, sul breve... insospettabile data la tua
struttura un po’ cicciottella (esagerato: era robusta... solo robusta... e poi
si sa che i tarchiati, quelli con il baricentro basso, più vicino alla terra,
hanno un controllo migliore... maggiore equilibrio... superiori capacità di
muoversi nello stretto) ...dribbling... passaggi precisi... lunghi lanci
millimetrici...” (miele! ...ambrosia!). “Mi pare che poi ti hanno selezionato,
ma tu non sei andato... o sbaglio? Perché non sei andato?” (Dunque i miei
ricordi erano corretti! Non mi sono inventato niente... non ho mai abbellito o
ingigantito con il passare degli anni... per il bisogno di chissà che
compensazione... E’ tutto vero! Non ho falsato niente... l’origine è reale, non
mitica!)
Gli spiego succintamente perché
(anche se del vero perché non sono sicuro... quello sì che forse l’ho
distorto... forse inventato: avevo appena iniziato il liceo, covavo altri
progetti... forse non credevo abbastanza nelle mie capacità... nel mio fisico),
lui ascolta, dà una boccata alla pipa e annuisce (ma cosa annuisci? ...cosa
vuoi capire che non ci capisco niente io?) e quando rientriamo nel bar gli
offro da bere.
Poi lo straccio a scopa.
Appendice mitopoietica
Domenica 10 marzo 2019, dopo aver
postato su Facebook il giorno
prima una foto ritrovata di una squadra di calcio
del ginnasio che aveva suscitato varie reazioni positive, con la mia faccia da bambino
che fa tenerezza, quantomeno a me, mi è venuta l’idea di rilanciare per la
seconda o terza anche queste due storielle dal mio blog.
Tra le varie reazioni,
scrive la Federica A. del testo (che sarebbe poi la mia carissima F. Arnoldi):
Me l’ha
raccontato di nuovo venerdì, giuro. Stavolta ha detto “Un grande, un
graaaaaaande”. Non ricordavo il passaggio in cui lo descrivi straniero in
Valseriana, noi faresi “gente che parla senza aspirare, con quell’intonazione
melliflua semimilanese da donnette”. Ho riso tantissimo.
E poi ancora:
Ah!
Venerdì ha aggiunto nuovi dettagli, ha detto: “quando i miei compagni hanno
visto arrivare i faresi hanno iniziato a prenderci in giro, ma io quando ho
visto Luigi gli ho detto: sì, sì, ridete, ridete. Oggi non riderete più”.
Così nascono le leggende.
Guerriero!
Caro Luigi, come al solito mi hai regalato un dieci minuti (il tempo di leggere ambedue le storielle) di piacevolissimo sollievo: 1° esiste ancora la possibilità di scrivere, visto che almeno tu lo hai fatto alla grande (niente pomposità, autoironia e tante tantissime cose che sporcherebbero il tuo racconto della noia critichese) 2°, contrariamente a quanto sostieni coi cretini che ci cascano (io ho corso il pericolo), non hai mai smesso di farlo.
RispondiEliminaIn marineria il Capitano comanda il Macchinista: "avanti tutta". federico