Riba, il protagonista, è un editore (fallito economicamente) che si sente fallito (esistenzialmente), perché, tra l'altro, non è riuscito a scoprire lo scrittore geniale, quello che avrebbe spalancato un modo completamente nuovo di vedere le cose, di comprendere il mondo e la vita... un'aspirazione legittima, perché senza ambizioni (e entusiasmo, secondo le parole di suo nonno) non si combina niente di buono, ma anche sciocca, o stupida, per usare la parola giusta, anche se rispecchia un'esigenza che tutti abbiamo avuto, io compreso, e nondimeno del tutto sbagliata, perché presuppone qualcosa che non c'è mai stato, a dispetto che per secoli dalle nostre parti ci siamo illusi che fosse non solo possibile ma anche reale: cioè che ci possa essere un modo giusto, e quindi valido per tutti, di vedere il mondo, e anzi, più a fondo, che ci fosse un mondo unico, e quindi uguale per tutti, da vedere, e tutti quindi a lamentarsi che di geni non ce ne sono più e mai più ce ne potranno essere, essendo sottinteso, per i più ambiziosi, e cioè per i più illusi, che se fosse stato possibile, allora quel genio sarebbero stati loro: ciascuno di loro, il solo genio universale, dunque, che tutti avrebbero infine letto, o visto, o sentito, e quindi amato e riverito, nel sogno infantile dell'onnipotenza... quando invece è più che ovvio, ma non per questo meno straordinario e positivo, che è molto meglio che ci siano tanti grandi autori (come Vila-Matas), o artisti, musicisti, o pensatori, letti o visti o ascoltati non da tutti ma da tante persone diverse in tanti luoghi diversi, tanti a leggere e ascoltare e guardare tanti in ciascun luogo, e così far proliferare i mondi, confrontarli, splancare finestre, aprire varchi, tracciare strade, ponti, dall'uno altro, e transitare e visitare e confrontarli e contaminarli e combinarli... sì, molto, ma molto meglio così, per quanto un fondo di tristezza, e di nostalgia per il sempre ovunque tutto sia comprensibile che permanga, lì, anche lacerante, a volte, perché, a ben vedere, anche da lì, e non solo dall'entusiasmo e dall'ambizione, viene la spinta a fare qualcosa, a farla il meglio possibile, perché tutti, sempre e ovunque, senza se o ma, ci riveriscano e amino, al di là di quanto potremo mai confessare, nemmeno a noi stessi.
Racconti, libri, mostre, divagazioni, recensioni, speculazioni varie
09/12/14
In margine a Dublinesque di Enrique Vila-Matas
Riba, il protagonista, è un editore (fallito economicamente) che si sente fallito (esistenzialmente), perché, tra l'altro, non è riuscito a scoprire lo scrittore geniale, quello che avrebbe spalancato un modo completamente nuovo di vedere le cose, di comprendere il mondo e la vita... un'aspirazione legittima, perché senza ambizioni (e entusiasmo, secondo le parole di suo nonno) non si combina niente di buono, ma anche sciocca, o stupida, per usare la parola giusta, anche se rispecchia un'esigenza che tutti abbiamo avuto, io compreso, e nondimeno del tutto sbagliata, perché presuppone qualcosa che non c'è mai stato, a dispetto che per secoli dalle nostre parti ci siamo illusi che fosse non solo possibile ma anche reale: cioè che ci possa essere un modo giusto, e quindi valido per tutti, di vedere il mondo, e anzi, più a fondo, che ci fosse un mondo unico, e quindi uguale per tutti, da vedere, e tutti quindi a lamentarsi che di geni non ce ne sono più e mai più ce ne potranno essere, essendo sottinteso, per i più ambiziosi, e cioè per i più illusi, che se fosse stato possibile, allora quel genio sarebbero stati loro: ciascuno di loro, il solo genio universale, dunque, che tutti avrebbero infine letto, o visto, o sentito, e quindi amato e riverito, nel sogno infantile dell'onnipotenza... quando invece è più che ovvio, ma non per questo meno straordinario e positivo, che è molto meglio che ci siano tanti grandi autori (come Vila-Matas), o artisti, musicisti, o pensatori, letti o visti o ascoltati non da tutti ma da tante persone diverse in tanti luoghi diversi, tanti a leggere e ascoltare e guardare tanti in ciascun luogo, e così far proliferare i mondi, confrontarli, splancare finestre, aprire varchi, tracciare strade, ponti, dall'uno altro, e transitare e visitare e confrontarli e contaminarli e combinarli... sì, molto, ma molto meglio così, per quanto un fondo di tristezza, e di nostalgia per il sempre ovunque tutto sia comprensibile che permanga, lì, anche lacerante, a volte, perché, a ben vedere, anche da lì, e non solo dall'entusiasmo e dall'ambizione, viene la spinta a fare qualcosa, a farla il meglio possibile, perché tutti, sempre e ovunque, senza se o ma, ci riveriscano e amino, al di là di quanto potremo mai confessare, nemmeno a noi stessi.
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