"Mi accorgo di una cosa: in fondo ciò
che amo, ciò che mi tocca, è la bellezza non riconosciuta, la debolezza
d'argomenti, la modestia. Quelli che non hanno la parola, è a loro che io
voglio darla. Ecco il punto in cui la mia posizione politica e la mia posizione
estetica si congiungono. Umiliare i potenti mi interessa meno che glorificare
gli umili (...) Gli umili: il ciottolo, l'operaio, il gamberetto, il tronco
d'albero, e tutto il mondo inanimato, tutto ciò che non parla. (...) 'In piedi!
dannati della terra.' Io sono un suscitatore." Il I marzo 1942, quando
scrive quasi solo per se stesso queste parole che ben sintetizzano alcuni degli
aspetti fondamentali del suo lavoro, il quarantatreenne Francis Ponge è un
semisconosciuto che fiancheggia la Resistenza come "viaggiatore
politico" del Fronte nazionale dei giornalisti. Fino ad allora aveva
pubblicato soltanto una plaquette (Douze
petits écrits, 1926) e qualche sparuto testo, sia pure su riviste
prestigiose come la NRF e Commerce, grazie a Jean Paulhan, che
praticamente per vent'anni è stato il suo unico lettore e interlocutore di
livello (cfr. i due tomi della Correspondance,
1986). Occupato dodici ore al giorno a guadagnarsi da vivere, impegnato
nell'attività politica prima come dirigente sindacale e dal '37come aderente al
Partito Comunista, da dedicare alla scrittura non gli restavano che "circa venti minuti, la sera, prima di
essere invaso dal sonno." L'annotazione ha un risvolto di ironia quasi a
spiegare l'esiguità e la brevità dei suoi testi, ma nondimeno risponde ai
fatti. Eppure raramente venti minuti al giorno sono stati così produttivi, a
giudicare da quanto Ponge ha estratto successivamente dai suoi cassetti per
inserirlo o svilupparlo nelle opere postbelliche o per offrirlo, assieme a
materiale nuovo, alle molte le riviste che dal 60 in poi gliene facevano
richiesta, testi di valore diseguale che ora sono stati ordinati e brevemente
commentati nei tre tomi del Nouveau
nouveau recueil da J. Thibaudeau, autore nel 1967 della seconda monografia
su Ponge (la prima è di Ph. Sollers, 1960, e la più importante tra le ultime di
J.M. Gleizes, ed. Seuil, 1988).
Soltanto alcuni mesi dopo, tuttavia, quelle
poche frasi avrebbero cominciato ad avere un senso anche per altri: nel maggio
del 1942 viene infatti stampato Il
partito preso delle cose, e da quel momento comincia l'ininterrotta fortuna
dell'opera di Ponge. Fortuna dalle caretteristiche curiose, di cui si son fatti
carico di volta in volta Sartre, Camus e gli esistenzialisti, quindi Sollers, Tel quel e le riviste della sinistra tra
il '60 e il '70 (nonostante già da tempo Ponge si fosse schierato per un
gaullismo sui generis), e infine filosofi come J. Derrida e le riviste più
disparate, da L'herne alla NRF a Europe, che gli ha dedicato una
monografia nel marzo di quest'anno, con una continuità di interesse e insieme
un'eterogeneità di prospettive su cui merita di riflettere. Tutti , e a buon
diritto, hanno trovato nel lavoro di Ponge, conferme e stimoli per il proprio,
dalla presenza di un umanesimo intergrale dal quale è assente ogni traccia di
trascendenza, all'attenzione per le cose e per l'apparentemente banale
("il bicchiere d'acqua aveva fin da principio qualcosa per sedurmi: è il
simbolo di niente, o almeno, di poco. Un bicchiere d'acqua, è meno del minimo
vitale, è la più piccola elemosina, la più piccola cosa che si possa
offrire"), a un lavoro sul linguaggio che se da una parte esalta la
disseminazione testuale dall'altra approda alla sobrietà e alla purezza dei
classici.
Certo è che Ponge ormai un classico lo è, nel
senso attivo di una lezione che non ha ancora finito di dare i suoi frutti, più
che in quello di una perfezione chiusa su se stessa. Se è vero infatti che il
poeta insegue il linguaggio al suo stato nascente, tutta l'opera di Ponge
incarna questa esigenza, accentuando anzi con gli anni il proprio aspetto di movimentum quanto più i suoi lettori
tendevano a fissarla in monumentum.
Anche così si spiega la caratteristica di molti dei suoi ultimi testi (per es. Le savon, 1967, e La fabrique du Pré, 1971) di esibire tutte le fasi della loro
concezione e redazione, dalle ricerche lessicali ai brogliacci alle varianti,
che tuttavia hanno soprattutto la funzione di intrecciare in tutti i modi
possibili l'indagine intorno all'oggetto a quella sul linguaggio e ai
differenti coinvolgimenti del soggetto.
Per questo motivo la citazione iniziale, come
ogni altra che si può fare di Ponge, se ha una sua efficacia, resta pur sempre
parziale e quindi sviante, nel momento in cui porta a circoscrivere una
presunta essenza della sua opera al mondo delle cose, come sarebbe tentato di
fare colui che si limitasse agli aspetti più evidenti delle sue prime opere. Le
cose infatti non vanno mai senza le parole, e le parole stesse sono cose
depositate nel vocabolario e dotate di una materialità di cui si deve tenere in
ogni istante conto. Se Ponge è fino in fondo un materialista, in quanto poeta
lo è in primo luogo in questa presenza della fisica della lingua e nella
consapevolezza della sua radicale storicità, dalle quali nessun tentativo di
approccio alla cosa può prescindere. Sulla presenza e l'esistenza della
materia, sulla sua bellezza e varietà, sulla gioia e il piacere che essa può
dare, non ci sono dubbi: "raccattiamo semplicemente una zolla di terra",
è lo stupendo inizio di un suo testo; ma d'altra parte la cosa in sé non fa che
sottrarsi, sfidando lo scrittore a raggiungerla e descriverla con l'unico
strumento a sua disposizione, la parola, "la vera secrezione del mollusco
uomo". Ma nemmeno possono essere considerate un semplice strumento le
parole, dal momento che è soltanto in esse che noi siamo e possiamo prendere il
partito delle cose, così come da esse è impossibile trarre alcunché se
nell'affrontarle non mettiamo in gioco tutto il nostro essere, nella sua
indissolubilità di ragione critica, di pratica quotidiana e di sentimenti che
spesso non hanno ancora un nome e che si tratta di riconoscere.
Come altri giovani scrittori contemporanei,
per es. Artaud e Michaux, Ponge era partito dall'impossibilità di scrivere
nella lingua poetica tradizionale, che vedeva pervasa fin nelle radici da una
società che egli respingeva, ma fu proprio il rischio dell'afasia, e il rifiuto
della sconfitta che spesso il silenzio comporta, a spingerlo verso le cose e a
fargli capire che non c'è "nessun compromesso possibile tra il partito
preso delle idee o delle cose da descrivere e il partito preso delle cose. Dato
il potere singolare delle parole, il potere assoluto dell'ordine stabilito, una
sola attitudine è possibile: prendere fino in fondo il partito delle cose".
Accettare il silenzio avrebbe significato
sprofondare nella disperazione alla quale anche le parole del potere riducono;
invece per Ponge bisogna scrivere per cercare le "ragioni per vivere
felici", e per far questo è indispensabile riprendersi la parola
sottratta, non fare confidenza al linguaggio ma resistergli, tenersi sempre
"vigilanti" contro la tentazione di abbandonarsi alla confusione e quindi
non permettere che la "rabbia dell'espressione" (che è il titolo di
un libro del '52) soffochi la lucidità. La riflessione critica non va disgiunta
dall'attività creativa, perché nessuna delle due precede l'altra: la teoria non
prepara il terreno né giustifica a posteriori il risultato creativo, ma lo
accompagna, vi si insinua come un elemento il cui difetto lo inficerebbe, così
come la descrizione dell'oggetto passa attraverso il corpo e la storia delle
parole e la varietà delle esperienze, cioè la soggettività, di colui che in
tale passaggio è impegnato, cioè impegna, espone tutto se stesso. Il miracolo
dei testi di Ponge è che tutto ciò non produca alcuna pesantezza o pedanteria,
e che anzi il loro tono sia quasi ovunque leggero, chiaro, permeato di ironia e
di quella semplicità e immediatezza che solo chi ha sormontanto gli ostacoli
più duri talvolta riesce a conseguire. Questo tuttavia non deve far pensare che
l'opera debba realizzare una conciliazione illusoria della distanza che separa
reale e immaginario, soggetto e oggetto, cose e linguaggio; semmai la consapevolezza
della tensione sempre aperta tra le contraddizioni muove a produrre un nuovo
oggetto contraddittorio, appunto il testo, che non dà a conoscere se non realtà
relative.
Ponge
scrittore "classico" e moralista tende verso la descrizione precisa,
la definizione esatta ed esemplare, la formula scolpita ed eguagliabile alla
pietra che spesso ne è l'oggetto, l'espressione impersonale del proverbio, e
per ogni cosa cerca la sua retorica e la forma specifica che le compete, ma sa
anche che la descrizione pura è impossibile, che nessun tentativo di accostare
e delineare l'oggetto può prescindere dall'occasione e dall'emozione che la
innescano e che, poiché di esso si deve dire ciò che fino a quel momento non è
stato ancora detto, il già detto, l'intertestualità e la coscienza critica e
storica che implica, è già in azione, e lui non fa nulla per nasconderlo. Anzi,
poiché la forma stessa del testo è radicata nell'esperienza della sua
elaborazione, ecco che la esibisce in tutti i suoi momenti e aspetti, e che la
descrizione si trasforma in narrazione, in archeologia del sentimento e insieme
nel suo nascere dalle parole che lo braccano, così che "una retorica per
oggetto" si trasforma in "una retorica per soggetto così come viene a
configurarsi nell'esperienza che fa di ogni oggetto". Che è del resto
anche la strada sulla quale deve essere condotto ogni lettore, al cui cospetto
lo scrittore non spiega il mondo, ma lo cambia, allo stesso modo in cui non
divulga idee, ma le distrugge, per suscitare presso ciascuno una volontà
analoga, che poco importa se si rivelerà relativa, dal momento che non può
essere diversamente. "Di cosa si tratta, per l'uomo? Di vivere, di
continuare a vivere, e di vivere felice. Una
delle condizioni consiste nello sbarazzarsi dello scrupolo ontologico (un'altra
nel concepirsi come animale sociale, e nel realizzare la propria felicità o il
proprio ordine sociale). Non è tragico per me non poter spiegare (o capire) il
Mondo. Tanto più che il mio potere poetico (o logico) mi deve liberare da ogni
sentimento di inferirità nei suoi riguardi. Poiché è in mio potere -
metalogicamente - di rifarlo." E
per rifarlo conviene cominciare dalle cose all'apparenza più semplici, dalla
materia in cui siamo fatti e che ci circonda e dalle esperienze che ogni
istante abbiamo con essa. Perché "il più semplice non è stato ancora
detto."
- Francis Ponge qui e
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