C’era questa donna sui 35-40’anni, o
forse meno, ma anche più, seduta su un gradino della breve scalinata che
collega il tratto dell’alzaia che entra in paese con una stradina chiusa su cui
si affacciano alcune villette e, in fondo, il bar con spiazzo alberato dove si
fermano viandanti e ciclisti a prendersi un po’ di ristoro. Sono una decina di
gradini al massimo, incassati tra un muro di cinta e due grossi cespugli di
mahonia e di gocce d’oro su cui, al momento, convivono una miriade di
fiori gialli, nonostante tutti i rametti appena gemmati che ho strappato per
abbellire la mia casa, e altrettante foglioline sbocciate in questi giorni al
primo sole dopo settimane di pioggia: un cunicolo che fra un po’ sarà
ombreggiato da una volta di glicini. Per questo lei l’ho vista solo all’ultimo
momento, mentre già avevo abbozzato la curva per imboccare la scala con una
corsetta allegra. Se ne stava accucciata, con le ginocchia rialzate, i gomiti
sulle cosce e le testa appoggiata ai palmi aperti delle mani nella postura
classica della malinconia. I capelli, di media lunghezza, le cadevano lungo le
guance e grossi occhiali dalle lenti scure impedivano di decifrare i lineamenti
e l’età. Per il resto indossava un giubbetto, jeans e stivaletti color cuoio.
Lo sguardo era fisso verso il gradino dove poggiavano i suoi piedi, in mezzo ai
quali erano posati una pochette e un cellulare acceso, senza salvaschermo. Mi
sono fermato di colpo, ma lei non si è nemmeno accorta dei miei movimenti, o
non l’ha dato a vedere, assorta com’era nei suoi pensieri, o nella
contemplazione del cellulare. Io l’ho guardata senza insistere e, sia pure un
po’ piccato per tutte i dettagli che non ero riuscito a leggere, stavo per
recuperare la direzione e il passo di marcia quando mi sono sentito pronunciare
queste parole: “è una telefonata specifica che sta aspettando o le basta una
generica?”. Ho fatto una pausa per lo stupore, trattenendo il respiro, e ho
aggiunto: “Se mi dà il suo numero sarò felice di chiamarla io”. La donna non si
è nemmeno degnata di alzare la testa, però dopo un attimo ha preso dalla
pochette una biro e un taccuino sui cui ha scritto un numero. Ha strappato il
foglio e senza guardarmi me l’ha porto. Io l’ho afferrato con due dita, attento
a non toccare la sua mano, me lo sono messo in tasca e senza salutare ho
ripreso la mia passeggiata.
Ho cincischiato il foglietto in tasca per qualche minuto, poi l’ho lasciato in pace ancora per un po’. Che era un modo per lasciare in pace lei. Per lasciarle il tempo di ricevere la chiamata che aspettava, o di spegnere e allontanarsi. E, a me, il tempo per decidere se dar seguito alla mia sorprendente richiesta con una non meno sorprendente iniziativa o lasciar perdere, come se non fossi stato io a parlare. Come se le parole fossero venute da un altro e da altrove (come ero quasi certo che fosse). Giunto al centro sportivo che di solito segna il punto in cui inverto il tragitto dei miei passi (il punto più lontano dalla scala), ho estratto foglietto e cellulare e digitato il numero. Dopo quattro squilli la voce di un uomo ha detto: “Sì?”. “Serena?”, ho risposto, con il primo nome che mi è venuto in mente. “Chi desidera, scusi?”, ha detto la voce maschile con un’intonazione un po’ incerta, quasi impaurita. “Oh, devo aver sbagliato numero”, l’ho interrotto, “mi scusi” e ho chiuso la chiamata. Poi mi sono messo gli auricolari, ho scelto una musica piuttosto grintosa, non fischiettabile, e ho iniziato il percorso di ritorno.
Ho cincischiato il foglietto in tasca per qualche minuto, poi l’ho lasciato in pace ancora per un po’. Che era un modo per lasciare in pace lei. Per lasciarle il tempo di ricevere la chiamata che aspettava, o di spegnere e allontanarsi. E, a me, il tempo per decidere se dar seguito alla mia sorprendente richiesta con una non meno sorprendente iniziativa o lasciar perdere, come se non fossi stato io a parlare. Come se le parole fossero venute da un altro e da altrove (come ero quasi certo che fosse). Giunto al centro sportivo che di solito segna il punto in cui inverto il tragitto dei miei passi (il punto più lontano dalla scala), ho estratto foglietto e cellulare e digitato il numero. Dopo quattro squilli la voce di un uomo ha detto: “Sì?”. “Serena?”, ho risposto, con il primo nome che mi è venuto in mente. “Chi desidera, scusi?”, ha detto la voce maschile con un’intonazione un po’ incerta, quasi impaurita. “Oh, devo aver sbagliato numero”, l’ho interrotto, “mi scusi” e ho chiuso la chiamata. Poi mi sono messo gli auricolari, ho scelto una musica piuttosto grintosa, non fischiettabile, e ho iniziato il percorso di ritorno.
Ero uscito con le scarpe sbagliate e mi
formicolavano le dita. L’alluce picchiava contro la scarpa e il passo era meno
baldanzoso del solito, pur senza tradire incertezze o zoppie, come se fosse
tutto a posto. Ho alzato il volume della musica, per lasciarmi prendere solo da
essa e isolarmi da tutto il resto. Giunto presso il cespuglio di gocce d’oro mi
è venuta l’idea di fotografare la breve scalinata per illustrare la breve
storiella che nel frattempo, nonostante tutto, si era formata nella mia testa,
sicuro che la donna non ci sarebbe stata più. Invece ho visto i suoi piedi che
sbucavano da dietro il cespuglio. Era ancora lì, nell’identica postura dopo più
di un’ora, e chissà da quando prima. Per non disturbarla ho scattato la foto da
dov’ero, con la speranza che si vedessero almeno gli stivali (cfr. foto sopra)
e ho fatto per voltarmi e tornare a casa con un giro più lungo evitando di
farmi vedere. Nel frattempo però mi ero mosso e ero avanzato di un passo, o
anche meno, ma abbastanza perché lei sentisse il rumore e, stavolta, alzasse la
testa e, chissà come, mi riconoscesse.
“Ha risposto un uomo”, ho detto allora. Lei ha dondolato lentamente la testa avanti e indietro in segno d’assenso. Poi mi ha chiesto: “tu dove vai?”. “Di là”, ho indicato. Lei ha continuato a dondolare la testa, ha raccolto pochette e cellulare e, senza dirmi altro, si è alzata e mi è venuta accanto.
“Ha risposto un uomo”, ho detto allora. Lei ha dondolato lentamente la testa avanti e indietro in segno d’assenso. Poi mi ha chiesto: “tu dove vai?”. “Di là”, ho indicato. Lei ha continuato a dondolare la testa, ha raccolto pochette e cellulare e, senza dirmi altro, si è alzata e mi è venuta accanto.
Nessun commento:
Posta un commento